Sviluppo Locale


Guido Panico

Introduzione a Viaggio intorno alla provincia meridionale: il caso di Salerno

 

 

 

Introduzione[1]

 

 

 

 

 

   1.  È del 2005 la pubblicazione di un mio studio dedicato alla storia sociale di Salerno nel Novecento. Il lavoro  ricostruisce le vicende della città e di chi l'abitava nel quarantennio che dal 1930 si spinge fino al 1970. Scelsi di concentrare la mia attenzione di ricercatore sulla parte centrale del Novecento, trascurando, così, l'inizio e la fine del secolo in quanto è in quegli  anni che si concentrarono i processi di cambiamento e di trasformazione, innanzitutto del manufatto città, destinati a modellare il volto culturale e sociale di Salerno fino ad oggi. Naturalmente è possibile e necessario allargare il tempo storico da indagare. Risulterebbe di grande interesse confrontare la lunga stagione della vita della città che va dall'Unità agli anni del primo dopoguerra con lo scorcio centrale del Novecento, per rintracciarne, con metodo compartivo, i mutamenti e le persistenze. 

    Per ora le mie mutevoli curiosità e la noia per tutto ciò che mi appare, sia pure provvisoriamente, concluso, non mi spingono ad interessarmi di questo periodo. Domani, annoiato per le cose di oggi, potrei anche ripensarci. In compenso non mi cimenterò mai nell'impresa di fare la storia dei decenni seguiti al 1970. Non perché non reputi la storia del presente degna di attenzione. Al contrario, essa ne è particolarmente meritevole. Lo è tanto da richiedere non comuni capacità scientifiche e formidabile intuito storico. La storia del presente è un  ideale laboratorio per sperimentarvi metodologie sociologiche ed economiche. Ha, però, una controindicazione: indurre chi è un semplice artigiano, dal punto vista teorico non  particolarmente attrezzato, a infrangersi sugli scogli della pura sincronia ovvero in un campo dove il fattore durata, essenziale per la storia, finisce per perdere contorni. L'anacronismo, ovvero l' appiattimento del passato sul presente,è dietro l'angolo per ogni epoca storica, figuriamoci per gli anni che ci stanno alle spalle e che conosciamo per esperienza diretta e per i quali disponiamo di analisi sociologiche ed economiche belle e pronte.

   Ma a spaventarmi di più è la storia politica su cui in generale non sono attrezzato, pur essendo la politica la maggiore passione della mia vita. A indirizzare le mie scelte culturali è stata fin dall'adolescenza l'idea della giustizia sociale. Paradossalmente  la consapevolezza di questo sentimento ha contribuito a tenermi sempre lontano dalla storia politica, un genere davvero ostico per chi ha l'ambizione di coltivare con onestà una disciplina, che tenta di trovare una sua specificità scientifica. A spingermi è stato anche lo sgomento  di fronte alla storia etico-politica o socio-politica  ridotta,  negli anni della mia prima formazione, a semplice storia dei partiti, quasi sempre tendente alla ricostruzione di fatti interni, sminuzzati in una nuova erudizione senza problemi e tendente, unicamente, a confortare il proprio punto di vista sull'attualità. Meglio perciò, non avendone la statura culturale, evitare di confrontarsi direttamente con la storia politica, soprattutto di quella di cui ho avuto esperienza diretta.

   La storia politica degli anni recenti sta conoscendo nuovi successi ed eccessi, E non parlo di quella prodotta dagli improvvisatori, talvolta in buona, spesso in cattiva fede. Improvvisatori non perché non appartenenti alla corporazione accademica, ma perché senza metodi. Penso alle res gestae dei protagonisti della Prima Repubblica, messe su troppo spesso con fonti, come i giornali o i documenti di partito, che sono assai poco significative, se non trattate con particolarissima attenzione e filtrate attraverso il setaccio di complesse e sofisticate metodologie. Non c'è leader del passato recente che non abbia il suo monumento e talvolta il suo contromonumento. La domanda più ricorrente è se bisogna dimenticare Berlinguer o Craxi o Moro. Naturalmente la risposta sta tutta nell'appartenenza politica dello storico. Occorrono  le armi sottilissime di uno specialissimo  senso critico, per raccontare quello che si è visto sfilare sotto i propri  occhi senza ricorrere a un'ipocrita filologia: le carte per dimostrare che Craxi o Berlinguer avessero ragione le si trovano facilmente.

2.  Finita questa digressione, forse necessaria, torno a casa mia, a Salerno, ricordando l'opportunità che nel 2005 mi offrì Mariano Ragusa di collaborare all'edizione locale del "Mattino". È stata un'esperienza bellissima che mi ha permesso di occuparmi della città in cui vivo in una forma diversa da quella storica, non condizionata, perciò, dalle sue rigorose  metodologie a cui, quando scrivo di storia,  provo a essere fedele. Dalle pagine del "Mattino" per quasi un triennio ho cercato di raccontare la città così come l'ho vista. Beninteso, la mia esperienze di professore di storia e la conoscenza approfondita di una parte del passato della città mi hanno aiutato non  poco, dandomi una sorta di bussola, che mi ha permesso di muovermi non al buio.

    A chi interpreta, per i media, i "fatti del giorno" in un contesto che non sia la semplice ricostruzione cronachistica spesso si dà il titolo di politologo. Francamente non ho mai capito chi è il politologo.Gli eredi di Machiavelli nel mondo sono un esercito dai variopinti colori, che spesso  proclamano di essere esperti di politica non in base a una pratica scientifica fondata su metodologie specifiche e, dunque,diverse, per esempio,da quelle degli storici Siamo, perciò, tutti politologi. O quasi tutti. Io, per esempio, non lo sono, non ho una particolare competenza, che rende il  mio giudizio sulla vita della polis più autorevole di qualsiasi altro cittadino.

   Dunque, niente titolo di politologo, e nemmeno di opinionista. Se il politologo è una strana creatura accademica, l'opinionista della pagina scritta è l'ultima frontiera di un giornalismo che prova disperatamente a dare un senso, dettato dal cervello e non dalla pancia, a quel che resta dell'informazione. Viviamo l'età della comunicazione, che è cosa diversa dall'informazione così come è stata intesa nella seconda età moderna, quella che per una parte dell'interpretazione storiografica nasce nel tardo Settecento per finire con la  guerra dei Trent'anni del Novecento.

        Tutti abbiamo un'opinione e su qualsiasi argomento: sulla politica, sul calcio e perfino sui protocolli medici intorno alla cura del cancro.  Forse ricorderete le tumultuose risse televisive del 1998 intorno alla cura "Di Bella". Come se un risultato scientifico fosse soggetto all'opinione pubblica. Non è soggetto all'opinione pubblica nemmeno il giudizio sull'arte. Possiamo pensare, e questo fa parte del gusto, quello che vogliamo su Leopardi o su Picasso. La conoscenza, ovvero il sapere accumulato attraverso metodi, è un'altra cosa; essa può essere messa in discussione solo dagli esperti, cioè coloro che possiedono appunto i metodi. Spesso nella comunicazione mediatica più rozza si ripete che gli esponenti della cosiddetta scienza ufficiale sono dei "parrucconi" intenti a difendere il loro territorio di conoscenze e il loro potere. Non c'è dubbio che tutti, indistintamente, i saperi tendono a guardare con diffidenza il nuovo. Le scienze, anche quelle dure, secondo non rari studiosi, avanzano attraverso sbalzi e rotture. Ma attenzione, le diffidenze per l'innovazione, al di là delle ragioni dettate dal desiderio di conservare il potere accademico, sono il frutto di concezioni culturali e scientifiche diventate senso comune. Albert Einstein e Sigmund Freud con le loro teorie urtarono  il senso comune. Il popolo dei media, immaginato come quello che oggi tanto  esaltiamo, li avrebbe chiamati, non a torto, pazzi: i due studiosi ebrei sovvertivano il senso stesso della realtà fisica e morale. A guidare  il popolo inferocito contro la loro follia sarebbero stati quelli che oggi dirigono i talk show più alla moda. Essi la spuntarono, senza nemmeno troppa fatica, avendo convinto la piccola repubblica dei sapienti, come Picasso si impose non al popolo, ma agli artisti e agli studiosi.

   Torno alla misteriosa cosa prima accennata: l'opinione pubblica. Ad essa nel 1921 un grande giornalista e studioso americano, Walter Lippmann, dedicò un libro, che ancora oggi ha qualcosa da insegnarci. In esso si sosteneva la necessità per la democrazia di un'informazione rigorosa, che tenesse conto dei saperi specifici. Da qui la speranza che ogni singolo settore dell'informazione fosse affidato ad esperti. Ognuno, sosteneva, è in grado di avere accesso di prima mano solo una parte microscopica delle conoscenze. Per le altre bisognerebbe affidarsi alle sintesi degli esperti. Altri prima di Lippmann avevano temuto l'allargamento, dalle classi dirigenti al popolo partecipante, del recinto dell'opinione pubblica, intesa come sfera pubblica opposta a quella privata. Il rischio era, secondo Alexis de Tocqueville, la dittatura della maggioranza e del senso comune. E con essa del prevalere dei demagoghi. Non è il caso di avere nostalgie per idee, oggi definibili  reazionarie. Tuttavia esiste ben viva, in questo nostro tempo, la preoccupazione per il formarsi di un'opinione pubblica  condizionata dalla  pervasività  del messaggio. E ciò non solo rispetto al maturare delle idee politiche. La sfera pubblica si allarga  sempre più nel vastissimo e incontrollabile mondo dei sentimenti, che  originariamente riguardavano la vita di relazione non politica. La stampa americana e anglosassone già nel XIX secolo aveva dato vita a un genere di informazione che ruotava intorno ai cosiddetti human interest: insomma la cronaca, in particolare quella nera e giudiziaria. Un genere destinato a incredibile successo tanto da condizionare anche politicamente il senso comune, di cui si esaltano i tratti più morbosi e malvagi. Certe vicende hanno spinto nel nostro paese, negli ultimi anni,  taluni principi dell'informazione a inzuppare il pane nel sangue.

    Sono un pessimista ovvero un ottimista che tiene conto dei dati di realtà. Non riesco a pensare a un modo per dare ordine e disciplina al mare di notizie che ogni giorno ci cadono addosso. Avere un milione di informazioni equivale a non averne nessuna. La censura, se non nelle forme stupide e controproducenti dell'editto di Sofia, nei paesi occidentali non esiste più. Non se ne vede, infatti, il bisogno. I programmi di Michele Santoro non spostano di un millimetro i consensi politici. Silvio Berlusconi non ha costruito la sua fortuna politica con la propaganda e con le false o insufficienti informazioni, ma con l'attiva partecipazione a un processo di torsione culturale, che ha spinto la secolarizzazione di un paese cristiano verso l'approdo di un edonismo, vissuto giorno per giorno nei suoi aspetti più convenzionali e triviali, ma, spesso, coperto da declamazioni di tenore opposto.

      In realtà nessuno ci nega le conoscenze. Possiamo avere tutte le informazioni che vogliamo. Il guaio è proprio questo. Più  numerose sono le notizie, più è difficile metterle in ordine. Perché se non si mettono in ordine prevale il caos e il senso comune, inteso nel suo significato più greve e volgare. Chissà quanti ricordano lo scontro televisivo tra uno storico di razza, di profondi e tradizionali sentimenti cattolici, come Franco Cardini, e il senatore Paolo Guzzanti a proposito della politica estera dell'amministrazione americana. Cardini diede alcune interpretazioni della questione irachena fondate su fonti tratte non da archivi segreti e misteriosi, ma da siti ufficiali del Dipartimento di Stato, da tutti consultabili via internet. Il senatore di Forza Italia rispose irridendo alla pignoleria filologica del professore, appunto del parruccone.  A noi tutti, anche al più colto, poliglotta  e avvertito,  è impossibile non solo consultare le innumerevoli fonti dei fatti che ci interessano, ma, perfino interpretarli. Occorre fidarci di qualcuno. Ed ecco la figura, nata oltre un secolo fa nella stampa internazionale, dell'opinionista. Peccato che in Italia siamo tutti opinionisti:ognuno di noi ha un'idea. Ovviamente quella dei professori che ci spiegano ogni cosa dalle prime pagine dei grandi quotidiani nazionali ha un valore aggiunto. Infatti, come direbbe Antonio Di Pietro, noi professori non ci azzecchiamo quasi mai.   

     Naturalmente anche io ho delle opinioni, che valgono come quelle di tutti, se non in alcuni specifici e ristretti campi, dove forse ho qualche autorità. Da quasi tre anni sto provando a ragionare, con alcuni strumenti conoscitivi che ho accumulato con il mio mestiere, sulla vita e la storia recente di Salerno e della Campania un po' più in generale. Mi sono posto a mezza altezza tra una generica cultura storico-umanistica e la conoscenza del caso: un case study, dicono gli storici  della Social History . Non voglio fare professioni di modestia. Sono abbastanza presuntuoso e in più non sono un ipocrita: è quest'ultima, insieme al tentativo di non praticare il conformismo (cosa difficilissima nell'arcitaliana Salerno) la virtù che mi riconosco. Penso, in linea con una pratica  storiografica a cui sono affezionato, quello della microstoria, che il mondo lo si osservi assai fruttuosamente da una postazione periferica più che dal centro. Da qui l'impegno di riempire lo spazio, che in questi anni mi ha offerto il "Mattino", con passione  morale e politica.

   Indro Montanelli detestava i sepolcri imbiancati, cioè quelli che fanno finta di distribuire opinioni con magnanimità  e neutralità. La sua obiettività nasceva, secondo le sue stesse parole, dalla sua faziosità.  A temperare la faziosità è solo la presunzione di essere liberi, naturalmente non dalle proprie idee, ma da chi pretende di  rappresentarle: dal capo partito all'intellettuale di tendenza. Forse spinto dai sentimenti di nostalgia tipici di chi si avvia verso l'ultimo scorcio della vita, non ricordo gli anni Sessanta e Settanta come un tempo in cui la libertà intellettuale fosse in discussione. Mi pare che oggi sia peggio. Non parlo delle libertà  formali, quelle dettate dalle regole e dalle censure, ma di quella, definibile solo al singolare, che le persone si danno da sé. La maggiore esigenza del nostro tempo, il conformismo, era praticata negli stessi apparati di partito in maniera accettabile. Per quello che riguarda la mia esperienza devo dire che nel vecchio PCI c'era più amore per la propria dignità di militanti che nel PDS e poi nei DS. Le scelte ideali spesso prevalevano sulle convenienze  e sulla cortigianeria. Uno studioso di storia non dovrebbe scrivere queste cose, sapendo per statuto scientifico che la memoria tira una serie incredibile di trabocchetti e che il ricordo personale non corrisponde, se non in parte, alla realtà storica. Per fortuna la pagina giornalistica è in questo senso più libera. Ed io in questi anni ne ho ampiamente approfittato. Spero solo di non avere abusato troppo della pazienza  di Mariano Ragusa e del direttore Mario Orfeo,oltre che dei lettori..

   E ne approfitto ancora di più  nel mettere insieme gli articoli pubblicati - alcuni scritti in punta di penna, altri più analitici -in questo libro. Come si fa quasi sempre in questi casi, li ho disposti in un ordine non cronologico, ma rispetto alle questioni affrontate. Toccherà al lettore giudicare se c'è una linearità logica nell'organizzazione e nella disposizione dei capitoli e soprattutto se c'è una trama unificante del racconto. La vita, che pure la storia è chiamata, a modo suo, a raccontare , non è riassumibile in categorie unificanti. Essa è sminuzzata in tanti frammenti, che non sempre è possibile ricomporre organicamente. In essa è quasi impossibile rinvenire un percorso razionale. Ma anche il frammento e l'irrazionale possono essere interpretati razionalmente e perfino piegati a un'ipotesi di unità concettuale. Se dovessi definire in due parole Salerno, direi che è un esempio dello spirito della provincia italiana. È questa la sua virtù, ma anche il suo limite. Essa ha conosciuto nel dopoguerra una stagione di grandi ambizioni, proponendosi come città di livello nazionale. Allora l'ambizioso progetto naufragò sugli scogli costituiti da un ceto medio inguaribilmente legato alla rendita e culturalmente provinciale, teso, come era,  a confrontarsi perennemente con il modello rappresentato dall'ex capitale del Regno Meridionale. Un modello a cui si rivolgeva  con intenti imitativi e contemporaneamente con animo astioso. Questo al tempo di Alfonso Menna. Sull'attualità si dirà nelle pagine seguenti.

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] L'Introduzione è tratta da Guido Panico, Viaggio intorno alla provincia meridionale: il caso di Salerno, in corso di stampa presso le edizioni Plectica, Salerno. Si ringrazia l'editore Alfonso Conte per aver acconsentito alla pubblicazione nel nostro sito.