Diritto


Maria Vittoria Lupò Avagliano

Costituzione e tutela della concorrenza: brevi considerazioni

 1. Nel momento in cui si celebrano i sessant’anni della Costituzione repubblicana e se ne discute della sua attualità, il tema dell’economia di mercato e della sua regolazione riveste particolare interesse, vuoi perché da qualche anno la “tutela della concorrenza” è entrata a pieno titolo a far parte della nostra Carta costituzionale avendola la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 inserita all’art. 117 tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato da svolgersi “nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”; vuoi perché dal 2005 la stessa Costituzione europea annovera “la definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno” tra i settori di sua esclusiva competenza. E’ opinione generalizzata e consolidata che la nostra Costituzione pur avendo affermato sin dalla sua emanazione, ed in prima battuta, che “l’iniziativa economica privata è libera” ( art. 41, I.c.), non si sia data carico, nel prosieguo delle sue disposizioni (artt. 41, II e III c., 42 e 43), di sviluppare l’impianto costituzionale in maniera e misura adeguata alla possibilità effettiva di realizzazione del libero mercato, ovvero di tutelarlo a sufficienza. Di conseguenza, col tempo ed in concomitanza della nascita dell’Unione Europea e della sua normativa in tema molto più rassicurante, si è evidenziato sempre più il non compiuto allineamento dei principi costituzionali in materia con i Trattati europei, se non proprio il contrasto con le soluzioni adottate da questi ultimi. Segno evidente di questo “malessere”, e del disagio, diremmo, giuridico che tale situazione comportava, valga per tutte, la legge 10 ottobre 1990, n. 287 ( “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”) che, mentre esordisce stabilendo che “le disposizioni della presente legge sono dettate in attuazione dell'articolo 41 della Costituzione a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica”, successivamente precisa che “l'interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell'ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”. Paradossale che una norma emanata “in attuazione” della Costituzione debba poi essere “interpretata” alla luce dei principi di un altro ordinamento! La verità è che la Costituzione cd. economica del 1948, più che non essere ispirata all’economia di mercato, posto che il principio fondante di questa è stato perentoriamente affermato (l’iniziativa economica privata è libera), ha avuto come prioritario obiettivo quello di risollevare le sorti economiche del nostro Paese non disgiunte da quelle sociali, in quel difficile momento storico. Per cui il Costituente ha pensato bene di dettare una serie di principi volti ad ancorare l’azione degli operatori economici tutti, pubblici e privati, ad un disegno “globale” di iniziativa e procedure, idoneo a fissare gli obiettivi di sviluppo equilibrato ed ordinato della società economica in contemporanea quella civile. Di qui la precisazione che l’iniziativa economica non solo non si sarebbe dovuta svolgere “in contrasto con l’utilità sociale” (art. 41, II c.), ma che “a fini sociali” sarebbe dovuta essere indirizzata e coordinata (III c.). L’”utilità generale” – poi - avrebbe consentito la riserva o il trasferimento allo Stato di determinate imprese, quando non addirittura situazioni di monopolio (art. 43). Un’impianto costituzionale, questo, che sicuramente si prestava a sollevare non pochi dubbi ed incertezze sull’effettiva tutela del libero mercato, in quanto quelle disposizioni ai più sono apparse di ostacolo se non in taluni aspetti perfino di avversione. Invero, non solo la destinazione a fini sociali dell’attività economica, ma anche i programmi, i controlli, gli indirizzi, il coordinamento, pur necessari ad una ordinata e proficua crescita economica, sono sempre stati visti ed interpretati negativamente, come vincoli e condizionamenti nei confronti dell’imprenditore privato. Al riguardo si è detto che la Costituzione nel mentre “dissocia l’economia privata dall’economia di mercato”, per contro “riafferma il primato dell’economia di mercato, come limite alla direzione politica dello sviluppo economico e come criterio di condotta per l’attività economica pubblica” (Galgano, Art. 41, Rapporti economici, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca). Fonte di preoccupazione non erano tanto i programmi in sè, che sono uno strumento di razionalizzazione dell’iniziativa economica, o il coordinamento, che certo non si risolve in una negazione della libertà economica; quanto piuttosto la circostanza che tali compiti fossero riservati alla legge dello Stato. Il che è apparsa come una forma di dirigismo statale ingombrante e fastidiosa per la “libertà” di iniziativa privata. Le ragioni della concorrenza mal si conciliano con la presenza di posizioni dominanti. La riserva di legge – poi – è stata interpretata come una garanzia, ma solo formale. Cosa avrebbe impedito allo Stato, quale attore nella duplice veste di programmatore ed operatore economico, nonché controllore, di poter avvantaggiare, nella redazione dei piani, l’impresa pubblica rispetto a quella privata? 2. Questi e tanti altri interrogativi sono stati al centro del dibattito che si è sviluppato serrato per tutta la seconda metà del novecento. E tuttora continua. Ma la discussione rischia di diventare sempre più sterile e vana, atteso peraltro che la tutela della concorrenza – come detto - è un principio definitivamente acquisito anche nel nostro ordinamento costituzionale. Sembra più utile invece, spendere qualche parola per chiedersi se le disposizioni costituzionali in questione, tuttora vigenti, all’atto pratico abbiano impedito l’ affermarsi di una cultura e di un diritto della concorrenza nel nostro Paese. Occorre dire che, nonostante i buoni propositi del Costituente, non c’è stata, e non c’è, nel nostro Paese una programmazione economica globale. A parte un tentativo iniziale che non ha avuto seguito: il primo ed unico Programma economico quinquennale fu approvato con legge 27 luglio 1967, n. 685 ed era atto più descrittivo che precettivo, mirante ad individuare finalità, obiettivi, modi e mezzi dell’azione programmatica. Non c’è stato mai quindi quell’opera di indirizzo, coordinamento e controllo dell’attività imprenditoriale da parte dello Stato a fini sociali tanto temuta e che pure era stata indicata dal Costituente quale condicio sine qua non della crescita economica del nostro Paese. Questa si è ben presto avviata, ma si è sviluppata per altre vie. Si è vista e tuttora permane, è vero, una programmazione di bilancio, che muove sì dall’analisi dei problemi economici, e tiene presente gli andamenti dell’economia, ma che in effetti è una programmazione solo finanziaria, della finanza pubblica; non dell’economia se non in senso indiretto e mediato e che, in linea di principio, comunque non giunge ad “attentare” alla libertà di concorrenza. Nello stesso tempo v’è da registrare che la strada delle statizzazioni autoritative e della socializzazione di imprese, peraltro previste dal dettato costituzionale in misura eccezionale e facoltativa, è stata presto abbandonata proprio in considerazione della piega che l’ evoluzione economica e sociale del Paese aveva preso. Considerasi anche che la nascita dell’Unione Europea ed il mercato unico che l’ha accompagnata – poi - hanno portato presto al fenomeno delle “liberalizzazioni”, sicchè è definitivamente caduta la riserva allo Stato dei diritti d’impresa. Un insieme di fattori che, unitamente ad altri che solo per brevità in questa sede si omettono, con il tempo ha fatto sì che il valore della concorrenza diventasse man mano principio ispiratore dell’agire anche della nostra amministrazione pubblica. Non solo attraverso l’apertura dei servizi pubblici alla concorrenza (emblematico il caso dei servizi radiotelevisivi), ma tramite il progressivo affermarsi di una consapevolezza che uno Stato da “gestore” dei servizi pubblici si sarebbe dovuto progressivamente trasformarsi in “regolatore” degli stessi. Il che avrebbe comportato verosimilmente l’adozione di una certa condotta amministrativa da parte dello Stato orientata ad abbandonare gradualmente forme e procedure che di fatto e di diritto avrebbero potuto ostacolare o rallentare l’esplicarsi del libero mercato. Come è il caso – tanto per fare un esempio emblematico - delle autorizzazioni amministrative all’esercizio di attività economiche private, che sono considerate dalla normativa comunitaria come un pericolo reale per la liberalizzazione di determinati mercati. Strumenti di controllo del potere pubblico sull’attività imprenditoriale privata. Ma anche in questa ottica il nostro ordinamento tende ad adeguarsi, seppur lentamente. Oggi, in Italia, ci troviamo di fronte ad un “sistema” della concorrenza non ancora giunto a completa maturazione e la sua tutela non trova ancora compiuta attuazione nella legislazione nazionale. Ma di questo non si può certo addossarne la colpa all’art. 41, rimasto, come visto, pressoché inattuato. Di contra, si deve invece dare atto alla Costituzione e a quella sua prima perentoria affermazione - l’iniziativa economica privata è libera – il riconoscimento giuridico della libertà di concorrenza in Italia e l’aver aperta (se non proprio spianata) la via alla nascita del diritto della concorrenza, non solo nel nostro Paese. Sessant’anni fa, cinquantasette prima della Costituzione europea.