Diritto


Vincenzo Rossi

Il principio di specialitą delle sanzioni tributarie: il ne bis in idem

 

 

SOMMARIO: 1. Il principio di specialità: caratteri generali - 2. Il concetto di "stessa materia" - 3. Il principio di specialità e le violazioni amministrative. - 4. L'evoluzione normativa dei rapporti fra processo tributario e processo penale. - 4.1 L'originaria "pregiudiziale tributaria". - 4.2 Il sistema del "doppio binario". - 4.3 Il nuovo sistema di "convergenze parallele": rischi di sovrapposizione procedimentale e di duplicazione sanzionatoria. - 5. Il principio di specialità e i suoi temperamenti nella materia delle violazioni tributarie. - 6. La circolazione delle prove fra processo penale e processo tributario. - 7. Illecito penale e illecito amministrativo: una sostanziale disapplicazione del principio di specialità.

 

 

 1    Il principio di specialità: caratteri generali.

 

Il principio di specialità esprime nel mondo giuridico il principale criterio orientativo e risolutivo dei casi di concorso apparente di norme, ossia di convergenza di più norme nei confronti del medesimo fatto. Nell'ipotesi più comune, contemplata dal diritto penale, il concorso apparente di norme si presenta quale confluenza di più norme incriminatrici che astrattamente concorrono a disciplinare un medesimo fatto; tale confluenza, tuttavia, è soltanto apparente, di talché, invece di configurarsi un concorso formale di reati, si ha un unico reato, poiché una sola è la norma incriminatrice realmente applicabile alla fattispecie concreta[1].

Referente normativo cardine per gli operatori del diritto, ai fini della risoluzione dei casi di concorso apparente di norme, è dato dall'art. 15 c.p., a tenore del quale, «Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito». La disposizione esprime, dunque, il principio di specialità, il quale invero costituisce l'unico criterio espressamente codificato dal legislatore; a dispetto di ciò, nel silenzio del diritto positivo, è dibattuta la possibilità per gli operatori di ricorrere a criteri diversi, in alternativa a quello di specialità, ove questo non soccorra allo scopo.

In luogo della teoria c.d. monistica, fedele al dato normativo, sono state infatti avanzate in dottrina teorie cc.dd. pluralistiche, volte ad affiancare alla specialità altri criteri, in particolare quelli di sussidiarietà e di assorbimento, la cui peculiarità è di essere fondati tendenzialmente su apprezzamenti valoriali del fatto concreto, che trascendono il rigoroso riscontro dell'esistenza di un rapporto strutturale tra fattispecie astratte. 

Le teorie in questione, pur respinte dalla prevalente giurisprudenza di legittimità[2], ricostruiscono l'art. 15 c.p. come norma che intende disciplinare non il fenomeno del concorso di norme nella sua interezza, bensì soltanto una specifica ipotesi di concorso, in cui le norme concorrenti versano in rapporto di genere a specie, con ciò non esprimendosi sulle ipotesi diverse; ne discende, pertanto, che non sarebbe impedito, in linea di principio, ricorrere a criteri differenti. Le accennate teorie segnalano all'origine l'inidoneità della specialità genericamente intesa a soddisfare pienamente ragioni equitative e di giustizia sostanziale, le quali suggeriscono di apprezzare l'accadimento concreto nel complessivo significato di disvalore penale, per scongiurare il rischio di un bis in idem sostanziale per il quale si attribuisca più volte lo stesso fatto al suo autore.

 

2 Il concetto di "stessa materia".

 

Orbene, il criterio di specialità esprime un principio di prevalenza della legge speciale rispetto alla legge generale; tale rapporto riflette uno schema logico-formale di ascendenza aristotelica, implicante che tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie (generale) siano contenuti in un'altra fattispecie (speciale), la quale ne contenga di ulteriori cc.dd. specializzanti, siano essi aggiuntivi (specialità per aggiunta) ovvero specificativi (specialità per specificazione) rispetto agli elementi generali; cioè, sul presupposto indefettibile che entrambe le disposizioni regolino la stessa materia[3].

Circa la portata del concetto di "stessa materia", peraltro, nel dibattito fra gli interpreti si registrano orientamenti discordanti. Secondo una tesi, per vero minoritaria, la nozione richiederebbe non soltanto l'esistenza di un "medesimo fatto", riconducibile all'apparenza a più norme, bensì pure l'identità o l'omogeneità del bene protetto, sicché il rapporto di specialità potrebbe intercorrere soltanto fra disposizioni poste a presidio di un medesimo bene giuridico. 

A confutazione della tesi esposta, tuttavia, è stato osservato che può aversi identità di interesse tutelato tra fattispecie affatto diverse (come il furto e la truffa, entrambe lesive del patrimonio), così come diversità di interesse tutelato tra fattispecie in chiaro rapporto di specialità (ad esempio, l'ingiuria, lesiva dell'onore, e l'oltraggio a magistrato in udienza, lesivo del prestigio dell'amministrazione della giustizia). Si è allora ritenuto erroneo inserire, fra i presupposti di operatività del rapporto di specialità, apprezzamenti valoriali estranei alla natura logico-formale del criterio: la nozione di "stessa materia", a giudizio della prevalente dottrina, va pertanto intesa come riferita al medesimo settore dell'attività umana, in ossequio a un canone squisitamente strutturale.

Altri indirizzi, inoltre, interpretano la nozione di "stessa materia" come riferita non soltanto alle ipotesi in cui un medesimo fatto sia sussumibile sotto diverse previsioni incriminatrici, bensì pure a quelle in cui un medesimo fatto in concreto commesso possa essere ricondotto sotto più disposizioni, benché fra di esse non sussista in astratto un rapporto di genere a specie. Il descritto rapporto di specialità c.d. in concreto andrebbe dunque risolto applicando la disposizione che meglio si adatta al caso concreto, individuata di regola dagli interpreti in quella che prevede il trattamento sanzionatorio più severo. 

In senso critico verso questa teoria, si è reputato contraddittorio far dipendere la soluzione di un concorso fra disposizioni astratte dall'atteggiarsi di un fatto concreto; in ogni caso, è stato rilevato, la soluzione offerta dalla dottrina consiste nient'altro che in un'applicazione del criterio dell'assorbimento della fattispecie meno grave in quella più grave, quindi nel ricorso a un apprezzamento valoristico del fatto, del tutto alieno rispetto a un mero raffronto strutturale.

Un'ulteriore dottrina, infine, ravvisa il rapporto di specialità anche nei casi di specialità c.d. bilaterale o reciproca, che ricorrerebbero allorquando nessuna delle disposizioni interessate è generale o speciale in termini assoluti ma, al contrario, ognuna è contestualmente generale o speciale rispetto all'altra, presentando un nucleo di elementi comuni alle varie previsioni incriminatrici, cui si affiancano componenti vicendevolmente specializzanti.

In realtà, replica la dottrina maggioritaria, i casi di specialità reciproca esulerebbero in toto dal rapporto di specialità, difettando una situazione di subordinazione della norma speciale alla norma generale, per cui non sarebbe possibile appurare la disposizione applicabile alla fattispecie in quanto speciale rispetto all'altra; deve piuttosto ritenersi che la specialità bilaterale intercetti, non già un caso di concorso apparente di norme, quanto un caso di concorso formale di reati.

In definitiva, pur ammettendosi il permanere delle aporie implicate da un'applicazione rigorosa del principio di specialità, deve concludersi che un rapporto di specialità può configurarsi soltanto in senso univoco o unilaterale e mettendo in relazione fattispecie astratte: il concetto di "stessa materia", richiamato dall'art. 15 c.p., va allora semplicemente inteso nel senso che una medesima situazione di fatto è sussumibile, icto oculi, sotto più norme.

 

3 Il principio di specialità e le violazioni amministrative. 

 

Il principio di specialità, si segnalava in apertura, non limita il proprio ambito di operatività al mero concorso fra disposizioni incriminatrici penali (e fra disposizioni incriminatrici penali e norme di liceità), ma riguarda anche i casi di concorso eterogeneo fra disposizioni che comminano sanzioni penali e disposizioni che contemplano sanzioni amministrative[4].

A questo proposito, l'applicazione del criterio di specialità è sancita dall'art. 9, 1° comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, a mente del quale, «Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità si disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale».

Rispetto alla formulazione dell'art. 15 c.p., invero, l'art. 9 citato si differenzia formalmente per il riferimento non alla "stessa materia", ma allo "stesso fatto"; ciononostante, la giurisprudenza nega che si possa applicare il criterio di specialità nella sua variante in concreto. Il concetto di "fatto punito" sottende, pertanto, il richiamo non già al fatto naturalisticamente commesso, bensì alla fattispecie tipica prevista dalle disposizioni che vengono in rilievo.

Nel caso di concorso tra fattispecie penali e violazioni di natura amministrativa, dunque, il metodo prescritto per la risoluzione del concorso apparente di norme non si discosta da quello affermato in via generale in relazione alla coesistenza di più fattispecie incriminatrici.

Coerentemente, la giurisprudenza di matrice costituzionale che ha avuto occasione di pronunciarsi sull'art. 9, 1° comma, della legge n. 689/1981, ha affermato che «vanno confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso»[5].

Orbene, quantunque la legge n. 689/1981 costituisca la norma che reca l'enucleazione dei principi generali in tema di sanzioni amministrative, non è escluso che, trattandosi di un corpus normativo di rango ordinario, il principio espresso all'art. 9 sia suscettivo di deroghe, temperamenti da parte del legislatore stesso in particolari ambiti: è questo il caso delle sanzioni in materia tributaria, il fulcro della cui disciplina è rinvenibile attualmente nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. 

Nondimeno, per comprendere in che modo si atteggi il principio di specialità in riferimento alle sanzioni tributarie, pare opportuno, se non imprescindibile, tracciare un quadro ricostruttivo storico, in particolare dei rapporti intercorrenti fra il procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative e il procedimento comminatorio delle sanzioni penali.

 

4         L'evoluzione normativa dei rapporti fra processo tributario e processo penale.

 

4.1                    L'originaria "pregiudiziale tributaria".

 

Il tema dei rapporti fra processo penale e tributario ha registrato un sovvertimento della prospettiva accolta dal legislatore, passandosi da un modello incentrato sulla sussistenza della c.d. "pregiudiziale tributaria" ad un meccanismo di "doppio binario", per giungere infine al sistema c.d. di "convergenze parallele"[6].

L'art. 21, 3° comma, della legge 7 gennaio 1929, n. 4 stabiliva che per i reati individuati dalla legge sui tributi diretti l'azione penale doveva aver corso «dopo che l'accertamento dell'imposta e della relativa sovraimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia». L'eventualità di un possibile contrasto di giudicati in ordine agli stessi fatti era così scongiurato in virtù del criterio volto a subordinare l'instaurazione dell'azione penale alla previa definizione del processo tributario, che si poneva appunto come elemento

"pregiudiziale" rispetto ad essa.

La legge prevedeva inoltre il congelamento del termine di prescrizione del reato tributario, in pendenza dell'accertamento fiscale e del processo tributario; in ogni caso, l'autorità giudiziaria ordinaria era tenuta a sospendere l'azione penale fino alla data dell'avvenuta comunicazione che l'avviso di accertamento non poteva più essere impugnato a causa dell'inutile decorso del termine per proporre ricorso o, in caso di instaurazione del procedimento innanzi alla giurisdizione tributaria, fino al momento della definitività della relativa decisione.

Ai sensi della legge n. 4/1929, peraltro, una volta esercitata l'azione penale, il giudice penale risultava vincolato agli esiti dell'accertamento espletato dagli organi tributari sotto il profilo dell'imposta evasa: spettava, dunque, al giudice tributario stabilire se vi fosse stata evasione fiscale e quale fosse l'entità dell'imposta elusa; il giudice penale sarebbe potuto intervenire solo successivamente e avrebbe dovuto limitarsi a valutare se i fatti, già accertati in ambito tributario, integrassero o meno gli estremi di un reato.

In quest'ordine d'idee, dovendo attendersi il pronunciamento della giustizia tributaria, i tempi d'intervento della giustizia penale risultavano dilazionati in modo considerevole; tale impostazione, del resto, muoveva dall'idea che il giudice penale non fosse in grado di affrontare i problemi degli accertamenti in materia, in particolare di compiere le stime necessarie a individuare l'an e il quantum dell'imposta evasa.

La vincolatività degli accertamenti tributari nel successivo giudizio penale, d'altra parte, si risolveva in una gravissima compressione dell'autonomia valutativa della magistratura ordinaria, che in effetti fu giudicata incostituzionale dal giudice delle leggi. La pronuncia n. 88/1982 dichiara infatti l'illegittimità dell'art. 21, 3° comma, della legge n. 4/1929, per violazione dei parametri di cui agli artt. 3, 24 e 101, 2° comma, Cost., nella parte in cui stabiliva «che l'accertamento dell'imposta e della relativa sovrimposta, divenuto definitivo in via amministrativa, faccia stato nei procedimenti penali per la cognizione dei reati preveduti dalle leggi tributarie in materia di imposte dirette».

A giudizio della Corte costituzionale, quell'impostazione violava il diritto di difesa, impedendosi all'interessato di contestare, in sede penale, gli esiti dell'accertamento amministrativo, che ormai "faceva stato"; e violava inoltre il principio di parità di trattamento, in quanto il meccanismo così delineato, con la successiva preclusione vincolante per il giudice penale, differenziavano irrazionalmente la condizione degli imputati, a seconda che l'imputazione fosse conseguita o meno a un accertamento amministrativo e, nell'ambito degli accertamenti amministrativi tributari, fosse relativa a imposte dirette o indirette. La Corte, infine, ritenne integrata la violazione dell'art. 101, 2° comma, Cost., in base al quale il giudice è soggetto soltanto alla legge, essendo invece l'autonomia del giudice penale fortemente limitata dalla normativa censurata.

 

4.2                 Il sistema del "doppio binario".

 

Sulla scorta di tali rilievi di incostituzionalità, il legislatore abbandona  definitivamente il criterio della "pregiudiziale tributaria" e congegna  un sistema completamente nuovo: l'art. 12 del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, abroga  l'art. 21, 3° comma, della legge n. 4/1929 e introdusse un meccanismo ispirato alla tendenziale reciproca autonomia fra il processo tributario e quello penale, che ben presto la dottrina definì di "doppio binario". 

Non va sottaciuto, per vero, che il legislatore mantenne un atteggiamento di sostanziale sfiducia nei confronti del giudice penale, continuando a presumerne l'inadeguatezza a comprendere le specificità della materia tributaria. Per agevolarne il compito, quindi, gli fu demandato di occuparsi di cc.dd. reati funzione, così dovendo svolgere un accertamento fattuale, non estimativo, avente ad oggetto non il quantum dell'imposta evasa, bensì l'avvenuta violazione di determinati adempimenti, quali la regolare tenuta delle scritture contabili, secondo un'impostazione incentrata sull'archetipo dei c.d. reati prodromici.

Ai sensi dell'art. 12 della novella, «in deroga a quanto disposto dall'art. 3 c.p.p. il processo tributario non può essere sospeso; tuttavia, la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio relativa a reati previsti in materia di imposte sui redditi e d'imposta sul valore aggiunto ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale».

La disposizione fissava due distinti principi: da un lato prevedeva che il processo tributario non dovesse essere sospeso, pur nella contestuale pendenza di un processo penale in ordine a fatti ad esso correlati; dall'altro affermava l'autorità di cosa giudicata della sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento circa i fatti materiali oggetto del processo in materia di illeciti concernenti le imposte sui redditi o di IVA.

La previsione risultava pienamente aderente al dettato dell'art. 28 del codice di procedura penale del 1930, allora vigente, in base al quale alla sentenza penale irrevocabile di condanna o di proscioglimento era attribuita l'efficacia vincolante di giudicato, erga omnes, in relazione ai procedimenti civili o amministrativi concernenti gli stessi fatti.

Con l'emanazione del nuovo codice di rito, tuttavia, gli interpreti furono chiamati a valutare se la disposizione potesse ritenersi compatibile col mutato quadro normativo, in particolare col disposto dell'art. 654 c.p.p., volto a fissare differenti criteri regolativi dell'efficacia della sentenza penale nei giudizi civili o amministrativi. Sorse infatti il dubbio se l'art. 12 citato dovesse ritenersi implicitamente abrogato, in base al principio della successione delle leggi nel tempo, compendiato nel brocardo lex posterior derogat priori, o se esso, in quanto norma "speciale" volta a disciplinare in maniera peculiare i rapporti fra il processo penale e quello tributario, dovesse prevalere sulle disposizioni divergenti contenute in una legge "generale" qual è il codice di procedura penale.

 

 

4.3 Il nuovo sistema di "convergenze parallele": rischi di sovrapposizione procedimentale e di duplicazione sanzionatoria.

 

Mentre era già prevalsa, in dottrina e in giurisprudenza, la tesi dell'implicita abrogazione, il legislatore sciolse ogni residuo dubbio mediante un nuovo intervento riformatore che, sulla scorta della Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale tributario, conferita con l'art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205, condusse al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, recante la Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Per un verso, infatti, l'art. 25 del decreto abroga espressamente l'art. 12 del d.l. n. 429/1982; per altro verso, ai sensi dell'art. 20, fu previsto che «il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione».

Dal raffronto normativo fra l'art. 20 e il previgente art. 12 si evince quindi che, mentre è stata conservata la disposizione che esclude la sospensione del processo tributario in caso di contestuale pendenza del processo penale avente ad oggetto i medesimi fatti, è stata invece eliminata la specifica previsione che, nell'attribuire l'autorità di cosa giudicata nel processo tributario alla sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento, in relazione ai fatti materiali costituenti oggetto del giudizio penale, fissava criteri non più omogenei con l'art. 654 dell'attuale codice di rito.

La novella del 2000, tuttavia, pur ispirata al principio di piena autonomia e totale separazione dei procedimenti e delle giurisdizioni, non ha sopito con l'art. 20 i problemi ancora pendenti in materia, su tutti quello del contenzioso giudiziario generato dai problemi di coordinamento e reciproca interferenza tra il procedimento penale e quello tributario.

Il contesto ideale del decreto delegato, d'altra parte, era mutato rispetto a quello da cui scaturiva la normativa precedente: caduta ogni riserva circa la capacità della magistratura ordinaria di affrontare le complessità degli illeciti finanziari, è stato infatti abbandonato il modello dei reati prodromici, volto a perseguire penalmente le condotte di pericolo, e predisposto un diverso modello incentrato sulle condotte di danno.

Si palesava, tuttavia, un'astratta sovrapposizione fra l'accertamento in sede penale dell'imposta evasa e l'individuazione in sede tributaria dell'imposta dovuta: se i due illeciti, penale e tributario, paiono modellati sul medesimo stampo, applicare cumulativamente le due sanzioni per lo stesso fatto significa, in definitiva, duplicare la stessa sanzione.

Esemplare, nell'ottica della potenziale verificazione di un bis in idem, è il raffronto fra il disposto dell'art. 5 del d.lgs. n. 471/1997 e dell'art. 5 del d.lgs. n. 74/2000, in tema di omessa dichiarazione. In base alla prima norma, «nel caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale dell'imposta sul valore aggiunto, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell'ammontare del tributo dovuto per il periodo di imposta o per la operazione che avrebbe dovuto formare oggetto di dichiarazione».

Secondo l'art. 5 del d.lgs. n. 74/2000, invece, così come aggiornato dal d.lgs. n. 158/2015, «è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila».

Considerato che già la struttura normativa alimenta i dubbi di una sovrapposizione sostanziale, si comprende l'insoddisfazione via via più profonda avvertita per il "doppio binario", qualora integralmente accolto. Essa ha condotto alla crisi del modello, in direzione di una separazione non più assoluta, bensì relativa, e di un coordinamento tendenziale fra le due giurisdizioni, quanto all'acquisizione degli elementi probatori nelle rispettive sedi. Si è parlato, dunque, di superamento del doppio binario, osservandosi che la possibile circolazione del materiale probatorio induce semmai a ravvisare la sussistenza di "convergenze parallele" fra le due giurisdizioni.[7]

 

5 Il principio di specialità e i suoi temperamenti nella materia delle violazioni tributarie.

 

È utile precisare, in questa sede, che il nostro ordinamento conosce, in linea di principio, due tipi di regimi processuali e sanzionatori improntati al doppio binario[8]. In primis, tipico del diritto tributario è il sistema del doppio binario c.d. alternativo, il quale prevede che le sanzioni vadano applicate non già congiuntamente, bensì alternativamente: il principio di specialità di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 74/2000 previene il cumulo sul piano sostanziale e il disposto del successivo art. 21 prevede un congegno preventivo sul piano processuale. 

Nel sistema di doppio binario c.d. cumulativo, tipico degli abusi di mercato, la duplicazione di procedimenti conduce invece alla sommatoria delle sanzioni, temperata, con esclusivo riferimento alla pena pecuniaria (nonché a quella per l'ente) e solo nel caso in cui giunga a definizione per primo il processo amministrativo, da discipline quali quella dell'art. 187-terdecies del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria).

Centrali nel nuovo sistema di repressione delle violazioni tributarie sono quindi gli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 74/2000. L'art. 19, in particolare, delinea il criterio di specialità fra disposizioni sanzionatorie penali ed amministrative, in base al quale, in maniera non dissimile dalle coordinate generali, «quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale».

In proposito, minoritaria è la tesi secondo cui la disposizione speciale sarebbe quella amministrativa; al contrario, in base all'orientamento prevalente, nella maggioranza dei casi è l'illecito penale a configurarsi in termini di specialità. Per la sussistenza di tale illecito, infatti, salve alcune ipotesi, è prevista una soglia di punibilità, non richiesta per la configurazione della violazione tributaria; esso inoltre presuppone, almeno di regola, e a differenza dell'illecito tributario, la sussistenza dell'elemento psicologico del dolo specifico di evasione.

La questione va perciò complicandosi, rendendo impervia la soluzione, nella situazione che gli interpreti definiscono di specialità reciproca, cioè qualora ognuna delle fattispecie presenti rispettivamente una nota aggiuntiva rispetto all'altra; per questo motivo, taluno ha ritenuto più efficace privilegiare una valutazione casistica.

Ad ogni modo, poiché l'applicazione della sanzione penale determina l'ineseguibilità delle sanzioni tributarie, il rischio che l'accoglimento integrale del principio di specialità finisse in effetti per recare pregiudizio all'erario ha verosimilmente indotto il legislatore a prevedere, al 2° comma del predetto art. 19, che «permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell'art. 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato».

Il principio di specialità vige, dunque, precludendo il cumulo fra sanzioni amministrative e penali, solo in caso di contribuenti persone fisiche; non, invece, qualora i contribuenti siano persone giuridiche. È stato però osservato da più parti che il legislatore delegato, curandosi di assicurare il pagamento integrale anche delle sanzioni amministrative allorché il contribuente sia una persona giuridica (ossia nella quasi generalità dei casi importanti), avrebbe di fatto vanificato il principio di alternatività delle sanzioni. Il 2° comma, del resto, finisce per causare l'insorgere dei problemi alla cui eliminazione è preordinato il 1° comma.

Per effetto del combinato disposto degli artt. 19 e 21, poi, non può darsi esecuzione alla sanzione per l'illecito amministrativo qualora non risulti definito il procedimento penale con una formula di proscioglimento che esclude la rilevanza penale del fatto.

In base all'art. 21, 1° comma, se pende un processo penale il cui esito potrebbe escludere la sanzione tributaria, l'Amministrazione finanziaria irroga comunque le sanzioni amministrative concernenti le violazioni tributarie oggetto della notizia di reato; peraltro, ai sensi del successivo 2° comma, «tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei soggetti diversi da quelli indicati dall'articolo 19, comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto». Almeno in un primo momento, quindi, in relazione ai contribuenti persone fisiche il provvedimento esecutivo di irrogazione delle sanzioni risulta sospeso.

Nell'ipotesi in cui all'esito del processo penale sia pronunciata sentenza di condanna, l'applicazione della sanzione penale rende ineseguibile la sanzione amministrativa; qualora invece il processo penale si concluda con provvedimento di archiviazione, ovvero con sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto, la sanzione amministrativa diviene eseguibile. Così è scongiurato il rischio che, in caso di proscioglimento in sede penale per difetto dell'elemento soggettivo rappresentato dal dolo di evadere il tributo, non possa poi applicarsi la sanzione amministrativa, dovuta invece anche in caso di mera negligenza.

L'art. 21, pertanto, consente da subito all'Amministrazione finanziaria di determinare l'ammontare delle sanzioni amministrative applicabili alle violazioni tributarie penalmente rilevanti; l'eseguibilità delle stesse resta, tuttavia, sospesa in attesa della definizione del procedimento penale. Onde evitare che la sospensione dell'esecuzione pregiudichi gli interessi dell'erario, il secondo periodo del 2° comma stabilisce che «in quest'ultimo caso, i termini per la riscossione decorrono dalla data in cui il provvedimento di archiviazione o la sentenza sono comunicati all'ufficio competente».

Nel quadro dell'evoluzione normativa, merita un cenno l'art. 9 del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156 (Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario), emanato in attuazione dell'art. 10, 1° comma, lett. a e b, della legge 11 marzo 2014, n. 23, che delegava il Governo a intervenire per realizzare «un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita», fissando al riguardo i relativi principi e criteri direttivi. La disposizione ha introdotto modifiche al d.lgs. n. 546/1992 e, pur non riguardando i rapporti fra processo penale e processo tributario, manifesta comunque la preoccupazione del legislatore di evitare un possibile contrasto di giudicati, sia pur con riferimento all'esclusivo ambito del processo tributario.

L'art. 9, 1° comma, lett. o, infatti, ha inserito nell'art. 39 del d.lgs. n. 546/1992 i commi 1-bis e 1-ter, che ampliano le ipotesi di sospensione del processo tributario. Il nuovo comma 1-bis, in particolare, ha introdotto un'ipotesi di "pregiudizialità interna", in presenza di controversie collegate fra loro da un nesso di dipendenza sostanziale.

Giova, infine, citare il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), se non altro per richiamare i rilievi critici di chi sottolinea come, con la novella in materia di sanzioni penali, il legislatore abbia perso l'opportunità di adeguarsi agli orientamenti della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla inapplicabilità della doppia sanzione amministrativa e penale. In effetti, nel momento in cui la delineazione di nuove figure incriminatrici nel settore penale tributario accresceva il rischio di violazioni del divieto di bis in idem, sarebbe stato opportuno un intervento di revisione del meccanismo risultante dal combinato disposto degli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n.

74/2000.

 

6 La circolazione delle prove fra processo penale e processo tributario. 

 

Il giudicato formatosi all'esito del processo tributario non ha efficacia vincolante sugli esiti del processo penale, ancorché i fatti accertati siano gli stessi; la stessa conclusione vale quanto all'incidenza del processo penale su quello tributario, nelle ipotesi in cui per gli stessi fatti già valutati in sede penale l'Amministrazione finanziaria abbia promosso l'accertamento nei confronti del contribuente.[9]

L'art. 654 c.p.p., nel sancire l'efficacia di cosa giudicata rivestita dalla sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo, dunque anche nel giudizio tributario, «quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale», fissa una serie di requisiti, che vanno attentamente valutati.

In primo luogo, tale efficacia può essere riconosciuta solo alla sentenza pronunciata in seguito a dibattimento, sicché devono ritenersi escluse le pronunce adottate all'esito dei procedimenti speciali volti ad eliminare il transito alla fase dibattimentale, o le sentenze di non luogo a procedere emesse all'esito dell'udienza preliminare. 

Sotto il profilo soggettivo, inoltre, l'efficacia vincolante della sentenza si sprigiona nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale; di conseguenza, qualora l'Amministrazione finanziaria non si sia costituita o non sia intervenuta nel processo penale in qualità di parte civile, la pronuncia emessa in sede penale non eserciterà alcuna efficacia vincolante nei suoi confronti. 

In base all'ultima parte dell'art. 654 c.p.p., peraltro, la sentenza penale può esercitare tale efficacia solo se la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa; il processo tributario, invece, è caratterizzato da tali limitazioni, in quanto, ai sensi dell'art. 7, 4° comma, del d.lgs. n. 546/1992, in esso non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.[10]

Dottrina e giurisprudenza asseriscono che tale connotato impedisce di ipotizzare un'efficacia vincolante automatica del giudicato penale sul processo tributario, anche qualora per gli stessi fatti esaminati in sede penale l'Amministrazione finanziaria abbia promosso in seguito l'accertamento nei confronti del contribuente. 

Quanto esposto, d'altra parte, non implica che il processo penale e quello tributario vadano considerati come monadi incomunicabili e che gli elementi probatori acquisiti nel corso di uno dei due procedimenti non possano poi essere valutati e utilizzati nell'altro, finendo per essere dispersi: una simile impostazione amplierebbe la frequenza di rischio di decisioni fra loro contrastanti anche per quanto concerne l'accertamento degli stessi fatti materiali. 

Le ipotesi di interconnessione fra i due procedimenti appaiono anzi significative: si pensi, ad esempio, alla deduzione dei costi da reato, che, ai sensi della disciplina introdotta nel 2012, viene fatta dipendere dalle valutazioni adottate in sede penale, in quanto i costi direttamente sostenuti per il compimento di un'attività volta a configurare un'ipotesi di illecito non sono deducibili laddove il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o il giudice abbia emesso il decreto volto a disporre il giudizio, e risultano invece nuovamente fiscalmente deducibili qualora il procedimento venga archiviato. 

Ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p. (aggiunto dall'art. 3, 2° comma, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306), le sentenze emesse dagli organi della giustizia tributaria e aventi efficacia di giudicato siano acquisibili in sede penale, ai fini della prova del fatto in esse accertato, e autonomamente valutabili ex artt. 187 e 192, 3° comma, c.p.p. Il giudice penale potrà infatti giungere a una conclusione processuale diversa rispetto all'esito del processo tributario, ritenendo che l'ammontare della somma evasa sia superiore a quella ivi accertata, mentre non potrebbe mai ritenere sussistente un'evasione per una somma superiore rispetto alla pretesa tributaria dell'Amministrazione finanziaria, che fissa il limite della soglia di punibilità.

Nel processo tributario, d'altro canto, è acquisibile come documento, ex artt. 24, 32 e 58 del d.lgs. n. 546/1992, la sentenza emessa in sede penale; il giudice tributario, però, non deve recepire passivamente le conclusioni accolte nel processo penale. La disciplina legislativa responsabilizza quel magistrato, che non può fondare il proprio convincimento in ordine ai fatti di causa sulla base di quanto statuito in una sentenza penale irrevocabile, ma è tenuto a rivalutare criticamente, in maniera distinta e autonoma, le risultanze emerse nel corso del processo penale, sebbene costituiscano indiscutibile elemento di prova nell'ambito del procedimento tributario.[11]

Ne discende che il contribuente prosciolto con sentenza irrevocabile in sede penale non necessariamente vedrà accolto il proprio ricorso innanzi alla giurisdizione tributaria avverso gli atti di accertamento o impositivi riguardanti la medesima situazione presa in esame nel processo penale. 

Il sistema nel suo complesso sembra poi permettere la circolazione e la trasmigrazione del materiale probatorio anche in relazione ai singoli elementi conoscitivi acquisiti nel corso dei rispettivi procedimenti. Dottrina e giurisprudenza si soffermano quasi unicamente sulla necessità di un'autonoma valutazione da parte dei rispettivi organi giudiziari, onde evitare ogni forma di recepimento automatico delle soluzioni accolte nell'altra sede, tenuto conto anche della differente disciplina del rito tributario dal punto di vista probatorio. 

La questione, tuttavia, a un più attento esame, è assai più ampia: il processo, infatti, rischia di assorbire tutto quel che è transitato sul suo percorso, permettendo ogni sorta di travaso; eppure la giurisprudenza - sostiene la dottrina che più insiste sul punto - sembra non cogliere la delicatezza di simili conseguenze, limitandosi a ribadire che un atto dapprima assunto legittimamente in sede penale, quindi trasmesso all'Amministrazione finanziaria, entra a far parte a pieno titolo del materiale probatorio e indiziario che il giudice tributario di merito deve valutare. 

La dottrina predetta esprime perplessità per la conclusione generalmente accolta in tema di intercettazioni: il legislatore, invero, limita alle ipotesi tassativamente delineate la possibilità di utilizzare in altri procedimenti penali le risultanze dei verbali delle intercettazioni, in quanto l'art. 270, 1° comma, c.p.p. prevede che i risultati non siano utilizzabili in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che si rivelino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. 

A dispetto di ciò, viene comunemente sostenuto che tale limitazione non opera con riferimento alla possibilità di acquisizione di questi elementi conoscitivi nel processo tributario, poiché non è possibile estendere l'efficacia di tale norma processuale penale, posta a garanzia del diritto di difesa, a modelli processuali diversi, tra cui quello tributario, muniti di regole proprie.

La tesi secondo cui i limiti di utilizzo delle intercettazioni varrebbero solo in relazione ad altri procedimenti penali non convince quegli Autori, i quali rilevano che, per quella via, sarebbe integrata una violazione delle regole del "giusto processo regolato dalla legge", di cui all'art. 111 Cost., che connotano ogni forma di giurisdizione; non potrebbero, pertanto, essere utilizzate nel processo tributario quelle prove considerate invece inutilizzabili in quello penale.

Problemi analoghi emergono, in senso inverso, in caso di travaso in sede penale di dati formati nel corso dell'accertamento tributario. A titolo di esempio, mentre l'accesso domiciliare nel corso della verifica fiscale è subordinato all'autorizzazione del pubblico ministero, l'accesso ai locali ove il contribuente svolge la propria attività economica impone la sola previa autorizzazione dal capo dell'ufficio finanziario; gli eventuali documenti rinvenuti, utilizzati nel processo tributario, possono peraltro essere travasati in quello penale. 

In virtù dell'art. 12, 2° comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), inoltre, al momento d'inizio della verifica fiscale il contribuente ha diritto non solo di essere informato delle ragioni che l'hanno giustificata e dell'oggetto che la riguarda, ma pure della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria. Tale facoltà, del resto, potrebbe non essere esercitata e comunque il professionista abilitato alla difesa innanzi alla giustizia tributaria non dev'essere obbligatoriamente un avvocato, potendo essere, ad esempio, un dottore commercialista. 

In sede di verifica, poi, il contribuente è, in un certo senso, compulsato a una totale disclosure dei dati in suo possesso, per effetto della previsione dell'art. 32, 4° comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in base alla quale le notizie e i dati non addotti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta a una richiesta in tal senso da parte dei verificatori non possono essere più presi in considerazione a favore dell'interessato, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa o nel corso del successivo processo tributario. Può accadere, quindi, che il contribuente, non assistito da un soggetto munito di adeguate conoscenze legali, sia indotto a esporre dati a lui virtualmente pregiudizievoli in sede penale per non compromettere i possibili esiti dell'accertamento o dell'eventuale processo tributario.

Né pare dirimente, alla dottrina garantista, l'obiezione secondo cui tali pericoli sarebbero esclusi da una corretta applicazione dell'art. 220 disp. att. c.p.p., a mente del quale, se nel corso dell'attività ispettiva emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova vanno compiuti con l'osservanza delle disposizioni previste dal codice di procedura penale. 

In effetti, qualora nel corso di una verifica emerga che l'evasione tributaria supera le soglie di rilevanza penale, scatta l'obbligo di osservanza delle predette disposizioni; raramente, però, può ipotizzarsi l'immediata emersione di elementi indicativi di un'evasione penalmente rilevante, o almeno di una concreta probabilità di avvenuto superamento di tale soglia. Molto spesso, invero, solo al termine della verifica, quando tutti i dati sono stati ormai acquisiti senza l'osservanza delle disposizioni di garanzia previste dal codice di procedura penale, potrà ipotizzarsi tale evasione, alla luce di una più approfondita verifica delle risultanze dell'istruttoria amministrativa.[12]

 

7 Illecito penale e illecito amministrativo: una sostanziale disapplicazione del principio di specialità.

 

Il sistema sanzionatorio tributario, in definitiva, così come concepito dal legislatore della riforma del 2000, impiega la sanzione amministrativa quale strumento punitivo sostitutivo della sanzione penale. In conformità, infatti, ai principi fondamentali di sussidiarietà e di extrema ratio, al sistema sanzionatorio amministrativo è demandato un duplice compito: da un lato, garantire il rispetto degli obblighi, più o meno formali, previsti della normativa di settore a tutela dei beni istituzionali della trasparenza fiscale e dell'accertamento; dall'altro lato, prevenire le violazioni tutt'altro che formali, in caso di mancato superamento delle soglie di punibilità.[13] 

La sanzione amministrativa dovrebbe quindi operare in via alternativa rispetto alla sanzione penale, deputata a punire le forme più gravi di aggressione agli interessi fiscali, tanto più che, per evitare una inutile duplicazione punitiva, il legislatore stesso, nell'ambito della disciplina dei reati tributari, ha previsto specifici meccanismi di coordinamento fra i due strumenti sanzionatori. 

In primo luogo, mediante l'art. 19 del d.lgs. n. 74/2000 ha fissato il principio di specialità, per assicurare l'applicazione della sola norma speciale qualora lo stesso fatto sia punibile sia a titolo di reato che a titolo di illecito amministrativo. 

A ciò si aggiunge l'istituto introdotto al successivo art. 21, ossia la sospensione dell'esecuzione della sanzione amministrativa, nell'ipotesi in cui venga trasmessa la notizia di reato, fino all'esito del giudizio penale, con la possibilità di riscuoterla solo in caso di «provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto». 

Sennonché, il principio di specialità, di cui l'art. 19 del d.lgs. n. 74/2000 è una peculiare declinazione (in linea con le previsioni ex artt. 15 c.p. e 9 della legge n. 689/1981), secondo l'orientamento consolidato in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità attiene esclusivamente al confronto logico-formale tra fattispecie astratte. Si osserva, in particolare, che un rapporto di specialità può sussistere qualora una delle due fattispecie, oltre a contenere tutti gli elementi costitutivi dell'altra, presenti uno o più elementi specializzanti, per specificazione o per aggiunta: il criterio di specialità guarda alla "sintassi" del dato normativo.[14]

Si tratta, dunque, di un criterio per nulla sovrapponibile a quello del

"fatto storico concreto" individuato dalle Corti sovranazionali per identificare l'idem factum: a partire dalla sentenza Zolotukhin c. Russia, emessa dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo il 10 febbraio 2009, infatti, per verificare l'identità del fatto rilevante agli effetti del divieto di doppio giudizio, si è affermata nella giurisprudenza europea una ricostruzione della nozione di fatto che lo intende nella sua concreta materialità. 

Ciò che rileva, secondo l'interpretazione dei giudici sovranazionali, è la condotta tenuta e contestata, non anche la tipizzazione contenuta nella previsione incriminatrice (idem legale).[15] Se, invece, è riferito a un raffronto tra fattispecie solo in astratto, così come per lungo tempo declinato dalla giurisprudenza nazionale, il principio di specialità può consentire nei fatti la permanenza nel nostro ordinamento di ipotesi di doppia punibilità. 

In effetti, nella materia tributaria, il principio di specialità permette di scongiurare il rischio di bis in idem sostanziale in relazione alle condotte di omessa dichiarazione, dichiarazione infedele o fraudolenta e di indebita compensazione, presentando le fattispecie penali elementi specializzanti "per aggiunta" rispetto agli illeciti amministrativi (condotta vincolata, soglie di rilevanza, finalità di evadere le imposte);[16][17][18] ci  non avviene con riguardo alle fattispecie di omesso versamento. 

Le Sezioni unite, con le cc.dd. sentenze gemelle del 2013[19], hanno infatti ritenuto sussistente un rapporto di progressione criminosa e non di specialità unilaterale fra l'illecito amministrativo ex art. 13, 1° comma, del d.lgs. n. 471/1997 e i delitti di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74/2000, sul presupposto che le fattispecie penali costituiscano una violazione molto più grave di quella amministrativa.[20]

Pur affermando la progressione criminosa tra illecito amministrativo e reato, la Corte ha altresì negato la sussistenza di un concorso apparente tra le due fattispecie, escludendo così qualsiasi spazio di rilevanza al principio del ne bis in idem sostanziale, nonché agli ulteriori criteri di sussidiarietà e consunzione. Il risultato pratico di una tale ricostruzione interpretativa è chiaramente la possibilità di punire con entrambe le sanzioni, per il medesimo fatto, lo stesso soggetto, nel segno di una chiara logica retributiva e di prevenzione generale. 

Peraltro, anche nelle ipotesi in cui si riesce a impedire il cumulo sanzionatorio, vale a dire nelle ipotesi di specialità univoca fra illecito penale e illecito amministrativo, il combinato disposto degli artt. 19 e 21

del d.lgs. n. 74/2000 non riesce in alcun modo a impedire l'instaurazione a monte di due procedimenti per il medesimo fatto, legittimando quindi il bis processuale.

La regola del doppio binario procedimentale è peraltro stabilita espressamente dall'art. 20 del d.lgs. n. 74/2000, che afferma, almeno in via di enunciazione, la completa separazione tra procedimento amministrativo e procedimento penale, concorrendo a completare il complessivo sistema in cui opera (se opera) il principio di specialità.



[1] G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Zanichelli, Roma, 2014.

 

[2] Cass. pen., SS.UU., 20 dicembre 2005, n.  47164; Cass. pen., SS.UU., 19 gennaio 2011, n.  1235. 

[3] G. FIANDACA-E. MUSCO, op cit.           

[4] R. GAROFOLI, Compendio di Diritto penale, Parte generale, V ed., Nel diritto editore, 2017.

[5] Corte cost., sent. n. 97/1987.

[6] P. RIVELLO, I rapporti tra giudizio penale e tributario ed il rispetto del principio del ne bis in idem, Diritto penale contemporaneo, fasc. 1/2018.

[7] M. DI SIENA, Doppio binario tra procedimento tributario e penale: una metafora ferroviaria in crisi?, Il Fisco, 2014.

[8] F. CONSULICH-C. GENONI, L'insostenibile leggerezza del ne bis in idem. Le sorti del divieto di doppio giudizio e doppia sanzione, tra diritto eurounitario e convenzionale, in Giurisprudenza penale web, 2018. 

 

[9] Come osservato da Cass. civ., sez. trib., 27 settembre 2011, n. 19786, in Giust. civ. mass., 2011, n. 9, p. 1355 «la struttura e le finalità del giudizio tributario, volto ad accertare la sussistenza e l'entità dell'obbligazione tributaria, di spiccata rilevanza pubblicistica, mal si conciliano con un'efficacia vincolante del giudicato conseguito in sede penale, che pu  essere valutato, dunque - ai fini del libero convincimento del giudice ex art. 116 c.p.c. - solo come elemento a carattere presuntivo ed indiziario, che va necessariamente posto a confronto, peraltro, con tutti gli altri elementi probatori acquisiti in atti».

[10] Va ricordato come sia stata reiteratamente esclusa la sussistenza di un'illegittimità costituzionale derivante da tale previsione. In particolare, Corte cost., sent. 18 febbraio 2000, n. 18, in Giur. cost., 2000, p. 128, chiamata a valutare la legittimità dell'art. 7, comma 4, del

d.lgs. n. 546 del 1992, con riferimento agli artt. 3, 42 e 53 Cost., nel dichiarare infondata la relativa eccezione, ha affermato che non esiste un principio, costituzionalmente rilevante, di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo «sicché i diversi ordinamenti processuali ben possono differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio, anche in relazione all'epoca della disciplina e alle tradizioni storiche di ciascun procedimento». Il giudice delle leggi ha osservato che «il divieto della prova testimoniale nel processo tributario trova giustificazione, sia nella spiccata specificità dello stesso rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata alla configurazione dell'organo decidente e al rapporto sostanziale oggetto del giudizio, sia nella circostanza che esso è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale; sia, infine, nella stessa natura della pretesa fatta valere dall'amministrazione finanziaria attraverso un procedimento di accertamento dell'obbligo del contribuente che mal si concilia con la prova testimoniale». 

[11] D. GUIDI, I rapporti, cit., p. 1393. L'Autore sottolinea che «il giudicato penale, pur non assumendo efficacia vincolante in ordine alla prova dei fatti controversi, costituisce una fonte a cui il giudice tributario pu  attingere per fondare il proprio convincimento - ovviamente dando conto dell'iter logico-argomentativo seguito mediante adeguata motivazione - alla luce di una autonoma rivalutazione critica del quadro indiziario complessivo e del materiale probatorio acquisito agli atti».

[12] Su questa problematica v., tra gli altri, C. CESARI, Atti del procedimento amministrativo e processo penale tra limiti del codice ed urgenze della prassi, in Cass. pen., 1993, p. 218 ss.; R. ORLANDI, Atti e informazioni delle autorità amministrative nel processo penale. Contributo allo studio delle prove precostituite, Milano, 1992, p. 141 ss.; N. ROMBI, La prova documentale, cit., p. 580 e 581; ead., La circolazione delle prove penali, p. 165 ss.

[13] M. TORTORELLI, L'illecito penale tributario e il suo doppio. Dal dialogo (mancato) tra le Corti ad un auspicabile intervento legislativo, in Archivio penale, n. 2/2018.

 

[14] In dottrina, fra gli altri, PULITANÒ, Diritto penale, Torino, 2013, 462 s.; ROMANO, Commentario sistematico del Codice penale, Milano, 2004, 173 ss.; in giurisprudenza, a voler richiamare le sole decisioni emesse dalle Sezioni unite, si vedano, in relazione all'art. 15 c.p., Cass. pen., SS.UU., 28 ottobre 2010, Giordano, in Cass. pen., 2011, 2501 ss., con nota di RUTA e, in relazione all'art. 9 legge n. 689 del 1981, Cass. pen., SS.UU., 28 ottobre 2010, Di Lorenzo, in Dir. pen. proc., 2011, 848 ss., con nota di VALLINI.

 

[15] Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia, in Dir. pen. proc., n. 3/2009, 525. Per un approfondimento del concetto di idem factum, così come delineato dalla giurisprudenza sovranazionale, v. GALANTINI, Il fatto nella prospettiva del divieto del secondo giudizio, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2015, 1205 ss. (e la bibliografia ivi indicata).

[16] Artt. 2 ss. d.lgs. 74/2000: più approfonditamente, v. INGRASSIA, Ragion fiscale vs ‘illecito penale personale', Maggioli Editore, 2016, 18 s. Contra, tuttavia, Cass., sez. III, 11.11.2010, n. 42462; Cass., Sez. III, 8.5.2014, n. 30267. In generale, sul principio di specialità tra illeciti penali e amministrativi, CARINCI, Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema. Relazione al Convegno "Diritto tributario e diritto penale", Università di Bologna, 27 e 28 novembre 2014, in Rass. trib, n.

[17] /2015, 499 ss.; SERVIDIO, Il principio di specialità nel diritto tributario, in Boll. trib., n.

[18] /2012, 1427 ss.

[19] Cass. pen., SS.UU., 28 marzo 2013, nn. 37425 e 37424. 

[20] Cass. pen., SS.UU., 28 marzo 2013, nn. 37425 e 37424, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di VALSECCHI, Le Sezioni Unite sull'omesso versamento delle ritenute per il 2004 e dell'Iva per il 2005: applicabili gli artt. 10 bis e ter, ma con un'importante precisazione sull'elemento soggettivo. Segnatamente, la Corte arriva a negare il rapporto di specialità sottolineando le divergenze strutturali che sussistono tra le due tipologie di illeciti. Essa ritiene infatti che gli stessi, pur nella comunanza di una parte di presupposti, differiscano in alcuni elementi essenziali, rappresentati dal requisito della "certificazione" delle ritenute, richiesto per il solo illecito penale, dalla soglia minima dell'omissione, richiesta per il solo illecito penale, nonché dal diverso termine previsto per l'assunzione di rilevanza dell'omissione medesima.