Osservatorio sulla crisi


Roberto Galisi

Crisi: origine e fine. Europa Stati Uniti

 

"Crisi:origine e fine. Europa e Stati Uniti" è stato il tema del convegno organizzato il 14 ottobre 2010 dalla cattedra di Storia Economica della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Salerno. L'incontro, che ha visto la prestigiosa partecipazione, tra i relatori, del prof. Stefano Zamagni, docente ordinario di Economia Politica all'Università di Bologna, noto economista e presidente dell'Agenzia per le Onlus, ha costituito un'importante occasione per confrontarsi sul tema della crisi.

Fornendo interessanti spunti di analisi sul tema,  prezioso è stato il contributo dei relatori che hanno esposto il proprio punto di vista, elaborato riflessioni e prospettato soluzioni al problema in una dimensione che dall'Europa si è estesa all'America. Dagli interventi è emerso, secondo una analisi congiunta e condivisa, che quella che stiamo vivendo è una crisi "entropica"[1]. In particolare, si è sottolineato come sulla crisi influiscano motivi politici. "E' in atto una corrente di delegittimazione. Non c'è alternativa, se non in una civiltà dell'empatia, cioè altruista, che deve essere rafforzata. Empatia significa soffrire con l'altro, capire i problemi dell'altro. La nostra civiltà è invece indirizzata in un percorso utilitarista, che comincia da Adam Smith. Questo percorso deve essere smontato, attraverso vari modi, tra cui anche l'impostazione che ne dà Obama". Poi si  è concentrata l'attenzione su un'amara ma oggettiva constatazione: "La crisi è tutt'altro che finita. Non facciamoci illusioni. I derivati girano ancora nel mondo, non si sa quanti siano e quante banche ne siano state infettate. Non si tratta inoltre di una crisi congiunturale, ciclica. E' una crisi che non deriva dalla crisi delle banche, ma da quella della finanza. Negli anni ‘30 con Roosevelt il problema era stato previsto emanando il "Class Steagall Act", che prevedeva la separazione del credito bancario, ed è quello che poi nei giorni nostri si è fatto con l'IRI. Oggi ci sono ancora titoli che circolano. Tutti i bilanci dello Stato sono disastrati. Teniamo presente ad esempio gli Stati Uniti, il cui debito pubblico è nella maggior parte nelle mani dei cinesi. E questo è un momento di debolezza del modello americano, cui gli americani non erano abituati". Nel prospettare delle soluzioni si è affermato che "bisogna puntare sulla ricerca, sull'università, come via d'uscita. Quindi su una riforma universitaria. La crisi finanziaria è intrecciata con un ritorno all'umanesimo. Pertanto bisogna sollecitare un profondo mutamento di mentalità". E parafrasando Alessandro Rossi, il prof. Lucio Avagliano ha fatto riflettere con un invito rivolto a tutti affermando che: "Qualsiasi crisi si deve coniugare con un ritorno all'umanesimo. Bisogna sollecitare un profondo mutamento di mentalità".

Si è tentato di precisare dove si è generata la crisi, chi l'ha generata e chi l'ha subita. E' una crisi politica, è una crisi economica, è una crisi sociale, una crisi dei valori o culturale? È sicuramente una crisi globale, quindi bisogna analizzarne la prospettiva internazionale. Questo determina una radicale disponibilità al cambiamento. Ecco perché qualsiasi crisi si deve coniugare con la prospettiva dell'umanesimo o un ritorno all'umanesimo. Il prof. Stefano Zamagni ha esposto la sua teoria per la quale esistono tre fattori che costituiscono le "cause profonde" della crisi. Zamagni ha introdotto il suo discorso spiegando in che senso l'attuale crisi non è una crisi congiunturale,  né dialettica, ma entropica. "Sappiamo che in letteratura le crisi si distinguono in dialettiche ed entropiche. Dialettica è la crisi che deriva da un conflitto fondamentale che la società di cui si parla non è stata in grado di risolvere. La crisi del ‘29 fu una crisi di tipo dialettico. La crisi attuale è invece di tipo entropico. Entropica è la crisi che discende da una perdita di senso, cioè quando per un motivo o per un altro una società o un sistema economico perde il senso, cioè la direzione del proprio percorso. Quindi è molto più difficile uscire da una crisi entropica che non da una crisi dialettica. E nel 1929 venne trovata la strumentazione e l'architettura teorica per uscire da quella crisi devastante, crisi dovuta proprio ad una mancanza di conoscenza sia teorica sia empirica. Oggi non è così. Oggi probabilmente siamo entrati in crisi per eccesso di conoscenza. Quello che ci è venuto a mancare negli ultimi decenni è appunto il senso. I fattori fondamentali che hanno causato la perdita di senso sono tre e sono cause remote, appunto all'origine di questo tipo di crisi:

1. Inversione del rapporto tra lavoro e ricchezza;

2. Affermazione di una concezione nuova del concetto di impresa;

3.Separazione del rapporto tra mercato e democrazia".

Quanto al primo punto bisogna spiegare che "fino a pochi decenni fa e per secoli la nostra civiltà occidentale, o meglio la nostra economia di mercato, ha sempre sostenuto la seguente tesi: all'origine della ricchezza c'è il lavoro, che si tratti di lavoro manuale, intellettuale, nei campi o di altro tipo, è il lavoro in ogni caso la sorgente prima di ogni ricchezza. Nell'ultimo trentennio, per una serie di ragioni, si è affermato il seguente convincimento ovvero che non è più il lavoro la sorgente primaria della ricchezza, ma la finanza. Quindi non è più necessario lavorare per arricchirsi, ma anzi lo si può fare molto più velocemente ed abbondantemente con la finanza. La finanza è storicamente nata in funzione del dato reale dell'economia. La parola finanza significa letteralmente tutto ciò che ha un fine e il fine attribuito alla finanza era quello di favorire lo sviluppo, la produzione ecc.. L'autoreferenzialità, invece, vuol dire che la finanza è diventata fine a se stessa. Dunque, se tu vuoi diventare ricco non perdere tempo a lavorare, occupati di finanza e, a livello di cultura popolare, questo messaggio era passato. Ma se la fonte della ricchezza è la finanza e la finanza diventa così fine a se stessa, quello che è accaduto non poteva non accadere. In particolare questa inversione del nesso causale tra lavoro e ricchezza ha determinato quello che potremmo chiamare, per analogia con la frase più famosa di Keynes, un "deficit spending": lo Stato deve poter spendere per le opere pubbliche anche se non ha i soldi, facendo il deficit. Oggi al "deficit spending" si è sostituito il "deficit rending", cioè le banche effettuano prestito in deficit". Quanto all'elemento rappresentato dall'affermazione di un nuovo concetto di impresa, Zamagni spiega che "guardando alla storia del pensiero economico si può notare come per lungo tempo l'impresa è stata concettualizzata come "corporation" perché si è pensato per anni che l'impresa fosse un'istituzione destinata a durare nel tempo, al di là della vita fisica del fondatore e dell'imprenditore. Quindi, se l'impresa era un bene destinato a durare nel tempo, è evidente che essa non potesse dedicarsi alla sola speculazione. Questa concezione negli ultimi decenni è stata sostituita da un'altra concezione per cui l'impresa viene considerata come merce. E se è una merce può essere quindi comprata a seconda delle convenienze del momento: se il valore di mercato è alto la compro, altrimenti no. Da qui la concezione per cui l'impresa è un fascio di contratto, cioè una specie di scatola vuota formata da tanti contratti la cui funzione è principalmente quella di massimizzare la differenza di valore tra acquisto e vendita. Ma se l'impresa è una merce,  questo non è un problema economico, ma un problema dello Stato, quindi un problema politico". Infine nell'analizzare il terzo punto, ovvero il problema della separazione del rapporto tra mercato e democrazia, si pone l'accento sull'esigenza per il mercato di avere regole proprie, necessarie per il suo funzionamento e che tali regole non possono essere fissate dal mercato stesso, ma dalla democrazia. "Le regole di cui il mercato ha bisogno devono essere fissate dalla democrazia. Esse devono essere il risultato di un processo democratico di tipo partecipato, deliberativo e dunque non possono essere fissate da un gruppo di oligarchi che decidono per gli altri. Con Basilea però questo processo non c'è stato e si è verificato un processo di deficit democratico".  "Dunque, queste cause ci aiutano a capire appunto che la crisi che stiamo vivendo è una crisi entropica e quindi diversa dalle altre. Se fosse come quella del ‘29, con i provvedimenti che sono stati presi in tutto il mondo si sarebbe già dovuta placare, cosa che invece non è successo. Ecco perché male fanno quelli che, soprattutto tra gli economisti, lasciano intendere che si tratti di una crisi ciclica. Per uscire da questa crisi entropica o si vanno ad intaccare queste cause profonde o rischiamo che tra dieci quindici anni torneremo di nuovo in questa situazione. E le università sono i luoghi deputati a far nascere riflessioni di questo tipo".

 Si accennava anche al mondo americano e come gli americani stanno vivendo questa situazione. "Noi americani crediamo profondamente alla costituzione, la quale infatti inizia con: We the  people: Noi il popolo". Il primo emendamento della costituzione americana dice che: "Il Congresso non farà alcuna legge che rimuova una religione di Stato o vieti il libero esercizio di un culto o limiti la libertà di parola o di stampa o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente in assemblee e di indirizzare petizioni al governo per la riparazione di torti". Con questa crisi, per la prima volta l'America ha un nemico che non riesce a comprendere. E il primo passo è quindi incominciare a capire il nemico. C'è nell'università americana un forte impegno di studio per capire il problema. Il lavoro degli americani è appunto quello di capire bene la natura del nemico. E così nasce il "Tea Party": cittadini americani che esprimono come vogliono risolvere questa crisi. E la prima cosa che il Tea Party propone è l'abolizione delle tasse: non si può risolvere la crisi aumentando le tasse! Chi conosce la storia americana saprà bene che quella del Tea Party è una tradizione che comincia da George Washington. Ci fu una famosa rivoluzione durante il governo di Washington, la "Whisky Ribellion" con la quale ci si ribellava all'imposizione delle tasse da parte dello Stato sul whisky. Questo per dire che voi, Stato, non potete usare i nostri soldi per salvarci dalla crisi. La prima cosa quindi è NO TASSE , perché noi cittadini non vogliamo pagare. Franco Zerlenga ha cercato di far conoscere il modo in gli americani vedono e stanno reagendo alla crisi.

Bisogna anche dire che nell'analizzare questa crisi molti economisti si stanno aggrappando a Keynes, un liberale che afferma anche un imprescindibile ruolo dello Stato. "Per Keynes è impensabile l'incertezza del mercato perché il mercato incerto ci porta da qualche parte della quale non abbiamo la più pallida idea. Questo è il primo elemento da sottolineare. Il secondo elemento è costituito da un aspetto, sul quale il prof. Zamagni sottolineava, e cioè quello per cui il futuro non è semplicemente un ripetersi del passato, ma questo futuro sta generando un nuovo assetto economico.

Ma io mi aggrapperei in particolare all'ultimo punto relativo al rapporto tra democrazie e mercato citando Krugman, che pone l'accento su quanto è stato causato dal forte potere oggettivo della destra ultraconservatrice repubblicana anche in termini di deregolazione di mercato e della distinzione tra grande grandissima impresa e piccola piccolissima impresa. Non dimentichiamo che la crisi è globale, ma l'effetto è soprattutto locale. C'è un impegno preciso, dice Krugman, di questa parte politica per deregolare, per creare ricchezza, senza tenere conto degli effetti sulla collettività. Il tema a breve periodo della massimizzazione di un obiettivo relativo all'accrescimento di un valore che probabilmente non c'è, si rifà all'immagine  dell'accendere un cerino e passarlo di mano in mano prima che si spenga. Il mercato finanziario, nel quale l'informazione è assolutamente imperfetta, ha comportato che tutti noi abbiamo comprato qualcosa non sapendo cosa stavamo comprando. Dunque, in conclusione, io mi chiedo: è una crisi politica? è una crisi economica? una crisi di valori? In ogni caso è una crisi che richiede un intervento. Ma che suggerimenti possiamo dare? Io mi sento di poter dire innanzitutto che ci vogliono regole, regole che facciano evitare ciò che può forse essere evitato. Dunque, i mercati finanziari sono mercati imperfetti, incerti, con forti asimmetrie informative e vanno controllati un po' meglio. Va rivisto forse il ruolo della finanza nell'economia.

Gli effetti dell'autoregolazione possono determinare quella che può essere giustamente definita una crisi entropica. "Zamagni ha giustamente elencato quelle che sono le cause profonde all'origine di una crisi come questa. Le prime due cause fondamentali sono : la finanziarizzazione del sistema economico e cioè l'idea che fosse possibile creare ricchezza senza lavoro e questo è un errore ottico che avevano commesso molti secoli fa i mercantilisti, cioè la scuola economica d'Inghilterra che riteneva che la ricchezza delle nazioni derivasse dall'accumulazione di mezzi finanziari o di ricchezza finanziaria piuttosto che dall'accumulazione di beni che possono essere consumati dalla popolazione. Secondo aspetto interessante è l'idea che c'è un'inversione di ruolo dell'impresa o meglio un'inversione di concezione dell'impresa, secondo cui si è andato affermando il concetto per cui l'impresa è un bene alla pari di qualsiasi altro bene, e come tale può essere acquistato o venduto indipendentemente dalle internalità positive o negative che la compravendita di questi beni può avere su tutti coloro i quali non sono direttamente coinvolti nell'acquisto o nella vendita. All'origine delle cause profonde della crisi c'è la perdita di vista della natura empatica dell'organizzazione sociale che ha caratterizzato la storia dell'umanità, ovvero la capacità di essere consapevoli e quindi partecipi dei problemi dell'altro e anche di comprendere quanto la capacità di sentirsi responsabili delle reazioni che i propri comportamenti hanno sugli altri aiuti a realizzare l'interesse della società pubblica. Il dramma, però, è che quello che veniva giustamente presentato come il comportamento deviante è diventato l'esempio del comportamento da seguire nell'ambito del mondo della finanza. Le cause ulteriori delle "cause profonde" di questa finanziarizzazione dell'economia e di questo mutamento di percezione del ruolo dell'impresa, sono convinto che siano legate al collasso comunicativo che ha caratterizzato l'impegno degli economisti. E questa è una forte autocritica che noi economisti dobbiamo fare, e cioè il fatto che sempre più gli studiosi di economia hanno adottato un linguaggio poco capace di essere compreso dalla maggioranza dei police maker, cioè dei governanti. Come ha ricordato anche Stefano Zamagni, il mercato funziona se ha delle regole. Un mercato senza regole, cioè concepito come nel periodo dell'impero romano, regolato dalla lex mercatoria, in assenza di una etica condivisa imposta dallo Stato, è destinato a produrre gli effetti che ha prodotto, ovvero una crisi di tipo entropico".

Dunque,  "bisognerebbe riuscire a regolare il mercato sulla base di regole imposte secondo un procedimento di tipo democratico. E questo è facile e possibile finché le regole del mercato e l'intervento dell'economia è deciso e può essere deciso a livello nazionale, lì dove la democrazia è organizzata dalle Costituzioni. Ma il modello di organizzazione sociale ed economica, la globalizzazione, è sostanzialmente la vera crisi della democrazia, derivante dal fatto che col processo di globalizzazione lo Stato-Nazione è entrato in crisi dal punto di vista della possibilità di effettuare scelte legittimate da un provvedimento democratico e anche perché c'è una dinamica economica che si autoregola con meccanismi che non sono affatto democratici. Con la diffusione del modello di globalizzazione si è affermato in maniera crescente il liberismo e la de-regolazione, e questo non tanto per scelte politicamente consapevoli, ma per una gaffe temporale tra i tempi e i modi dell'economia e i tempi e i modi della politica.

 

 



[1] Cfr. S. Zamagni, La crisi in atto come crisi di senso, in Symposium, anno 3, n. 9, Anas 2009, pp. 5-8