Universitą
Ciro Galisi
WORK-SHOP c/o Università di Salerno 28-marzo-2003 relazione di don Ciro Galisi.
La riforma universitaria ed altri temi sono all'ordine del giorno per noi ma il teologo John Henry Newman[1] li anticipò due secoli prima: "Un appassionato ricercatore di Dio, come lo ha definito negli anni '50 Pio XII", commentando il tortuoso percorso intellettuale che portò Newman dalla religione anglicana d'appartenenza, alla conversione al cattolicesimo e alla sua strenua difesa, sempre però in direzione innovatrice[2]. Newman, nonostante abbia iniziato e concluso la sua vicenda terrena nel XIX secolo, è ancora in grado di parlare all'uomo del terzo millennio: il suo insegnamento costituisce un'occasione per rivedere la nostra cultura. Il suo insegnamento è rimasto inalterato nel tempo anche grazie alle sue opere che ancora oggi, come detto prima, sono di stretta attualità.
Prima di iniziare a confrontare il testo di Newman circa l'Università alcuni cenni storici credo che siano opportuni per la nostra discussione. Esiste un "luogo" ove il dialogo fra le varie discipline ha preso storicamente corpo, dando poi origine ad una riflessione sulla logica che potesse giustificare la loro comune presenza all'interno di una medesima Istituzione. Questo luogo sono state le università. Nel loro patrimonio genetico vi era infatti l'idea che le diverse Facoltà possedessero una certa "comunione intellettuale". Il cristianesimo elaborerà un primo preciso progetto di unificazione del sapere solo a partire dalla fondazione delle università medievali. Nelle università le varie conoscenze si organizzavano attorno alla teologia a motivo dell'esplicito legame di quest'ultima con il fine ultimo dell'uomo e con il bene comune della società. Il medioevo cristiano aveva in sostanza operato una "rilettura" del concetto di natura alla luce di quello di "creazione", recuperando l'impianto gerarchico in chiave teologica: tutto procede da Dio e a Dio tutto ritorna. Si tratta di una riunificazione non solo contenutistica ma, in sintonia con le proprietà del Logos cristiano, anche esistenziale, di cui saranno testimoni le grandi Summae medievali, non ultima la Divina Commedia di Dante[3].
È interessante notare che luogo dell'elaborazione di quasi tutti i precedenti tentativi di unificazione del sapere sono le università. Proprio nel contesto universitario emerge per profondità e vastità l'opera di Tommaso d'Aquino (1224-1274), la cui sistematicità maturò alla scuola scientifica del suo maestro Alberto Magno (1200 ca.-1280). Per il genio domenicano l'unità del sapere non è tanto un progetto teoretico quanto uno "spirito" che guida il suo studio e la sua opera. La ferma certezza dell'unicità della verità, della bontà e riconducibilità all'unica verità di Dio di tutto quanto di buono e di vero sia stato affermato da chiunque in qualunque epoca, gli consentirà di accogliere il corpus aristotelico nei Commentari e nelle Quaestiones universitarie. Nell'epoca moderna la sintesi intellettuale che la vita e la cultura medievali avevano saputo realizzare non risulterà più praticabile almeno per due motivi. Il primo di essi fu il progressivo differenziarsi metodologico delle varie aree disciplinari, la cui crescente profondità ed ampiezza di conoscenze, prima a livello cosmologico e poi antropologico e biologico, cominciava a rendere più difficoltosa -o almeno di soluzione non certo immediata- una "riconduzione" di tali conoscenze all'interno di un quadro teologico coerente ed unitario. Ciò renderà anche più problematico il dialogo fra i vari rami del sapere, causando il sorgere di quel successivo, graduale iato fra materie scientifiche e materie umanistiche, fra scienze della natura e scienze dello spirito, le cui premesse furono poste nel Seicento, ma la cui maturazione compiuta avverrà fra la fine del Settecento ed i primi dell'Ottocento. Il secondo riguardava la possibilità di operare per la prima volta una "lettura scientifica e autonoma" del mondo, ma anche della vita sociale e morale, che prescindesse dalla lettura che fino a quel momento ne aveva offerto la Scrittura, seppure attraverso la mediazione dei suoi interpreti. Non solo il moto dei cieli poteva ora essere ricostruito con le leggi della meccanica (Newton, Laplace): anche le virtù del governo (Machiavelli), le regole della convivenza (Hobbes, Montesquieu, Shaftesbury), quella della conoscenza e del vero progresso dei popoli (Comte, Marx) dovevano essere ora dedotte da altre fonti, oppure instaurate in modo autonomo, secondo una logica ove, per la prima volta, il fine poteva giustificare senza riserve i mezzi utilizzati per raggiungerlo. Se le correnti filosofiche della modernità utilizzavano ancora concetti o categorie di origine cristiana, nella maggior parte dei casi ne restava solo la corteccia, perché il loro significato originario era stato ormai sostituito da un contenuto diverso (cfr. Guardini, 1951).
Le proposte di unificazione del sapere della modernità daranno origine a partire dal Settecento a grandi opere progettuali: dal Dizionario storico-critico (1695-1702) di Bayle all'Enciclopédie (1751-1772) di Diderot e d'Alembert, dall'Enciclopedia delle Scienze Filosofiche (1817) di Hegel all'Enciclopedia universale della scienza unificata di Neurath, Carnap e Dewey (di cui uscirà nel 1938 solo il primo volume, sia per lo scoppio della guerra, sia, soprattutto, per lo sfaldamento del programma epistemologico che la sorreggeva). Esse giungeranno fino alla contemporanea Encyclopaedia Britannica (le cui origini risalgono al 1768), il cui progetto filosofico di tipo pragmatista può facilmente evincersi dal contenuto di alcune delle sue voci principali. Fra le imprese sorte nell'ambito del cattolicesimo, il disegno di unità delle scienze di Antonio Rosmini, teorizzato nella monumentale Teosofia (1846-55) e poi sviluppato nelle altre opere del pensatore italiano, rappresenta assai probabilmente il progetto più ambizioso. A volte non furono opere enciclopediche, bensì opere di dimensioni assai più modeste, ma con un preciso scopo riformatore, a voler suggerire forti linee di pensiero ove cercare un'unificazione della conoscenza: nasceranno così il Discorso sul metodo (1636) di Cartesio, i Princìpi della natura e della grazia (1714) di Leibniz, le ben note Critiche kantiane (1781-1790), la Fenomenologia dello Spirito (1807) di Hegel, ma anche l'Azione (1893) di Blondel, i Principia mathematica (1910) di Russell e Whitehead, il Trattato logico-filosofico (1921) di Wittgenstein. In campo socio-politico sono altrettanti tentativi di lettura unificata della realtà il Manifesto del Partito Comunista (1848) di Marx ed Engels o l'Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904) di Weber.
Sulla scia del modello medievale e rinascimentale, anche dopo il sorgere delle università moderne con il modello concepito da Wilhelm von Humboldt per l'Università di Berlino (1810), l'interdisciplinarità ed una certa tensione verso l'unità del sapere restano uno dei caratteri distintivi dell'università in quanto tale. Per questo motivo rivestono un certo interesse le varie "idee di università" delineate da numerosi autori (rassegne in Rigobello et al., 1977; Tanzella-Nitti, 1998). Vanno ricordate quelle esposte nel passaggio fra XVIII e XIX secolo da J.G. Fichte (Ideen für der innere Organisation der Universität Erlangen, 1806) e W. von Humboldt (Theorie der Bildung des Menschen, 1793; Antrag auf der Errichtung der Universität Berlin, 1809), l'ampia riflessione sulla formazione universitaria offerta da J.H. Newman (The Idea of a University, 1852), i più recenti scritti di Jaspers (Die Idee der Universität, 1923 e 1946), Ortega y Gasset (La misión de la universidad, 1930) e di Guardini (Die Verantwortung der Universität, 1954), per citare solo alcuni fra i principali. Tutti questi autori hanno sottolineato, in un modo o nell'altro, il carattere "contestuale" degli studi universitari, la loro appartenenza ad un quadro comune, ad un'intenzione unitaria, anche se i modelli proposti per costruire tale unità non sono stati certo univoci. Essi concordano su un'idea di base: il campus universitario viene compreso come un luogo di incontro non accidentale, un'area definita da un'architettura intellettuale, ancor prima che da un disegno logistico, urbanistico o funzionale.
Sulla necessità di una ricerca contestuale ed interdisciplinare della verità, scriveva Newman: «Nel dire che la Legge o la Medicina non sono il fine di un'educazione Universitaria, non intendo dire che l'Università non deve insegnare la Legge o la Medicina. Che cosa infatti essa può insegnare, se non insegna qualche cosa di particolare? [...] Io dico soltanto che vi sarà questa distinzione per quel che riguarda un Professore di Legge, o di Medicina, o di Geologia, o di Economia Politica... [e io dico] che fuori di un'Università egli corre il pericolo di essere assorbito e circoscritto dalla sua specializzazione e di fare lezioni che sono nulla più che le Lezioni di un giurista, di un medico, di un geologo, o di un economista politico; mentre in un'Università egli sa dove collocare se stesso e la propria scienza, a cui giunge, per così dire, da una sommità, dopo aver avuto una visione globale di tutto il sapere» (L'Idea di Università, tr. it. Milano 1976, p. 201).
Alle citazioni di Newman potremmo affiancare quelle di un altro autore, Giovanni Paolo II, anch'egli titolare di una cattedra universitaria per più di vent'anni. Ai docenti universitari di Torino si rivolgeva così nel 1988: «Ora, è proprio caratteristica dell'università, che è per antonomasia universitas studiorum a differenza di altri centri di studio e di ricerca, coltivare una conoscenza universale, nel senso che in essa ogni scienza dev'essere coltivata in spirito di universalità, cioè con la consapevolezza che ognuna, seppure diversa, è così legata alle altre che non è possibile insegnarla al di fuori del contesto, almeno intenzionale, di tutte le altre. Chiudersi è condannarsi, prima o dopo, alla sterilità, è rischiare di scambiare per norma della verità totale un metodo affinato per analizzare e cogliere una sezione particolare della realtà. Si esige quindi che l'università diventi un luogo di incontro e di confronto spirituale in umiltà e coraggio, dove uomini che amano la conoscenza imparino a rispettarsi, a consultarsi, a comunicare, in un intreccio di sapere aperto e complementare, al fine di portare lo studente verso l'unità dello scibile, cioè verso la verità ricercata e tutelata al di sopra di ogni manipolazione» (Incontro con il mondo della cultura, i docenti e gli studenti nell'Ateneo torinese, Torino, 3.9.1988, n. 3).
Lavorare ad una disciplina "nel contesto delle altre" o "nella logica di un campus", come segnalato da questi autori, non vuol dire essere dei "tuttologi", ma degli uomini colti, che non si accontentano di parcellizzazioni metodologiche, perché sono convinti del fatto che la verità ed il senso abbiano la loro dimora nell'intero. Da questo allargamento di orizzonti ne deriveranno vantaggi per la disciplina che ciascuno coltiva e, cosa non meno importante, per il servizio che attraverso di essa si potrà prestare al vero progresso umano e scientifico. Condizione necessaria, però, perché l'università sia un "luogo di unità del sapere" è che la razionalità che in essa si coltiva e si trasmette coinvolga non solo la sfera dei mezzi ma anche quella dei fini, riguardi non solo dei "come" ma anche dei "perché", investa non solo la scienza ma anche la sapienza; in definitiva sappia mantenere al centro della propria riflessione le domande ultime sulla verità e sul bene, sul senso dell'esistenza, sul posto che l'uomo occupa nell'universo, sulla responsabilità personale e sociale che ogni sapere porta con sé. Estromettere queste domande dall'università vorrebbe dire interrompere la sua tradizione plurisecolare, svuotandone natura e missione. Ciò assume particolare importanza proprio nella situazione contemporanea. A differenza di quanto avveniva nel medioevo, il luogo di confronto e di dibattito fra le grandi tradizioni di pensiero non è più il terreno scientifico universitario (cfr. MacIntyre, 1993, pp. 301-327), ma si è spostato dai campus al terreno dell'opinione pubblica, a quello delle logiche che regolano la creazione ed il controllo del consenso, sia per fini politico-ideologici sia per fini di mercato. Tale spostamento di fronti allega evidenti pericoli. Esistono oggi problemi planetari che, per contenuti e portata, coinvolgono il futuro dell'umanità, nei quali economia, tecno-scienza, etica e diritto registrano non pochi motivi di conflittualità, proprio perché manca loro un luogo - l'università appunto - ove si possano valutare conoscenze, risultati e processi al di là di ogni condizionamento economico, sociale o politico, super partes, con la maturità di un'educazione colta, capace di valorizzare le risorse umanistiche della scienza e di formare tecnici sensibili alle necessità di una società più umana.
A questo punto vorrei stimolare i partecipanti a rivivere l'ambiente dell'Oxford universitaria immergendosi nella "penombra del tempio, gremito di giovani, dove Newman avanzava lentamente per raggiungere il pulpito dal quale, alla fioca luce di una fiammella a gas, pronunciava con voce chiara e melodiosa, parole appassionate che fendevano il silenzio generale e giungevano ad ogni ascoltatore, come se a lui solo fossero indirizzate". Ma la forza di Newman non è in una capacità teatrale di tenere la scena, ma nel suo saper far emergere le istanze più vere che vivono nel cuore di ogni uomo. Il tempo in cui vive è sì il secolo del Romanticismo, espressione dei sentimenti e delle passioni, ma anche quello post illuminista ove si riconosce la validità solamente di quello che si può inequivocabilmente dimostrare. L'impegno di Newman è nel far comprendere che non si può creare una gerarchia tra la ragione e la fede e che dunque occorre ridefinire i rispettivi ambiti di conoscenza. La facile contestazione che può essere mossa alla fede - quella di non essere in grado di argomentare le proprie ragioni - ha valore solo nel momento in cui si nega alla stessa fede una valenza soprannaturale.
Uno degli aspetti più affascinanti per chi ama la letteratura ed in particolare quella anglosassone trattando del ruolo dell'immaginazione nel pensiero di Newman. E' infatti una intensa capacità immaginativa quella che consente a Newman di cogliere significati e messaggi che trascendono la pura realtà dei fatti visibili. Egli percepisce che il mondo che vediamo e che tocchiamo - il mondo dei sensi - è una mera parvenza. La vera realtà è quel mondo invisibile che solo l'immaginazione consente di percepire.
Un "Ulisse dei tempi moderni": ci si è voluti riferire così alla figura del teologo John Henry Newman, protagonista illuminato dell'ottocento
Dopo una prima conversione spirituale all'età di sedici anni, Newman, ordinato pastore anglicano nel 1824 e poi divenuto parroco dell'Università di Oxford, comincia a dedicarsi alla ricerca teologica. Gli anni dal 1833 e il 1839 sono impegnati nell'attività del "movimento di Oxford", da lui fondato per promuovere, insieme con un gruppo di intellettuali, un rinnovamento della Chiesa anglicana, degenerata tra un eccessivo imborghesimento, la sottomissione al potere temporale e la diffusione tra il clero di un liberalismo razionalista.
In questi anni si matura la svolta: la conversione ufficiale al cattolicesimo avverrà nel 1845. Proprio lo scisma dalle posizioni dei liberalisti religiosi lo illumina su quello che egli scoprirà come vero fondamento della fede, la "ragione implicita".
Newman non rinnegherà la base razionale della fede anzi la sosterrà, ma spiegando che si tratta di un processo di ragionamento per via intuitiva, naturale e non dimostrativo di tipo matematico. Si arriva alla Verità senza spiegare tutte le singole fasi di passaggio.
Il punto di partenza di Newman non è la difesa del credere in Dio, ma l'esame dei processi della mente in un contesto di scetticismo esasperato. Egli vuole evitare di cadere sia nel razionalismo liberale sia nel fideismo che implica adesione sentimentale avulsa da rapporti razionali. La ragione di per sé non genera la fede. La fede è il ragionamento nello spirito religioso, abbinando razionalità e disposizione del cuore, secondo il pensiero di Newman. Il senso della ragione implicita è questo: non sapere argomentare il ragionamento che è alla base della fede non implica che questo stesso non sia razionale. La domanda, indice di una situazione mutata, impone un riesame dell'educativo, e riacutizza le sue aporie. Sembra una richiesta nuova, dettata solo da bisogni odierni, ma forse è nuova solo parzialmente. Una tale problematica infatti si ripropone ogni qual volta ci si chiede quale sia il ruolo e il contributo dell'università nel contesto sociale, per i singoli e per la comunità. Le riflessioni e le discussioni che si sono svolte in passato, presentano affinità e diversità tra loro ma anche con il nostro oggi, e, mi pare, potrebbero comunque offrire una luce in più per rispondere al problema con maggiore cautela e, soprattutto, per renderci più avveduti della delicatezza che richiede, e dell'insidiosità che veicola, il termine educare. È per questi motivi voglio sottolineare il testo del 1852 di J. H. Newman, L'idea di università (1852), perché possa arricchire e rendere meno rozza (che vuol dire più delicata e non più colta) la riflessione.
Secondo J. H. Newman[4] esistono due concezioni di sapere che determinano la formazione di due personalità diverse. La prima è una concezione unitaria del sapere: «Tutti i settori del sapere non sono isolati e indipendenti l'uno dall'altro, ma formano insieme un tutto o un sistema; si fondono e si completano vicendevolmente, e l'esattezza e la veridicità del sapere che essi, ciascuno per suo conto, trasmettono, sono relative alla visione che ne abbiamo come un tutto»[5]. Questa unità è danneggiata dalla omissione di una qualsiasi scienza, in quanto le altre, superando i loro limiti, invadono il campo di quella esclusa[6]. Da questa concezione unitaria del sapere, scaturisce la Conoscenza Liberale che è il possesso e la trasmissione del sapere all'intelletto nella sua forma unitaria. Questo tipo di conoscenza «non è un vantaggio accidentale nostro oggi e altrui domani (...), è invece un'illuminazione acquisita, un abito, un possesso personale, una dote interiore»[7] e come tale è il vero fine della formazione universitaria che risulta essere quindi una Educazione Liberale e non mera istruzione. Per acquisire la Conoscenza Liberale si deve arrivare a conoscere i rapporti tra le cose attraverso un esercizio del Pensiero o della Ragione sulla Conoscenza. Per giungere a questa meta non è sufficiente la semplice applicazione, né leggere molto, né ascoltare tante conferenze, perché si può leggere senza pensare e rimanere appesantiti e schiacciati dalle conoscenze. Per dominare le acquisizioni bisogna salire al di sopra di esse e avere occhi intellettuali, solo allora si sarà capaci di costruire idee. Questa conoscenza liberale non dà tutta la preparazione professionale ma permette di intraprendere qualsiasi professione con versatilità e maggiore probabilità di successo: quindi risulta utile e vantaggiosa sia per l'individuo, sia per la società in quanto contribuisce ad elevare il tono intellettuale generale. Questo tipo di conoscenza e di educazione si può conseguire solo all'interno di una Università e non fuori di essa, cioè in un ambito di multisettorialità che si volge in unità, di universitas appunto.
Secondo Newman, fuori dell'Università, uno stesso settore disciplinare corre il rischio di essere assorbito e circoscritto dalla sua stessa specializzazione. Se una scienza viene coltivata con un orientamento esclusivistico, lo studioso rischia di non cogliere l'intera verità e di incorrere in errore, facendo di quella scienza la chiave di tutto ciò che avviene sulla terra, la misura di tutte le cose e il centro di ogni verità. La seconda concezione del sapere è dunque quella che considera la scienza in un modo esclusivista, e tende a sottovalutare i rapporti con le altre scienze. Uno studio svolto in modo settoriale, può essere di gran vantaggio per il progresso scientifico andando a beneficio della comunità, ma «l'individuo che si limita ad esso regredisce. Il vantaggio della comunità è quasi inversamente proporzionale a quello dell'individuo».
La formazione che deriva da questi due modi di concepire il sapere, per Newman, è evidente. Chi ha acquisito una educazione liberale, coltivando una concezione unitaria del sapere, ha una visione e una comprensione delle cose chiara, calma e accurata; è capace di disinnescare il conflitto dinanzi ad opinioni diverse, come pure il risentimento; è attento ad ogni persona e cerca di far sentire ciascuno a proprio agio. Non ha tendenza ad escludere gli altri, non è impetuoso, non si trova in impaccio dinanzi alla realtà, perché la reale coltivazione della mente gli ha dato, insieme all'ampiezza e alla versatilità intellettuale, anche il dominio sulle sue stesse capacità e la stima esatta e istintiva delle cose. Tali sono solo alcuni dei tratti del gentiluomo, di quella persona cioè in cui l'educazione liberale ha formato «un abito mentale che dura tutta la vita, i cui attributi sono la libertà, l'equità, la calma, la moderazione e la saggezza». Chi ha acquisito tali doti in modo duraturo e non occasionale si rende capace di essere utile a più persone, forse anche più di uno specialista, sostiene Newman. Una tale persona ha imparato a conoscere meglio se stessa e a vivere meglio con gli altri. Tutte queste qualità, connaturali a un gentiluomo, pur così raffinate e preziose, per sé e per gli altri, potrebbero tuttavia - a un occhio più esigente o più penetrante - rivelare tratti di ipocrisia e di ostentazione.
«Quando invece l'istruzione di uno studente è confinata a una sola materia, per quanto una simile divisione del lavoro possa favorire il progresso di una determinata ricerca (...), tuttavia ciò ha certamente una tendenza a chiudere la sua mente»[8]. Coloro che si sono dedicati alla coltivazione di una sola scienza o all'esercizio di un solo metodo di pensiero non sono in genere più cauti, in considerazione della ristrettezza della loro conoscenza, ma più ostinati nelle loro convinzioni, con una tendenza a disprezzare ciò che è diverso. L'uomo di un'idea sola, o di una sola scienza, per Newman, è paragonabile a un bigotto e per lo più è un uomo socialmente problematico, perché manifesta difficoltà a vivere con gli altri e a confrontarsi con loro attraverso un dialogo e un dibattito costruttivo. È un uomo che ha sempre qualcosa da dire su qualsiasi argomento perché l'abitudine, la moda, il pubblico lo richiedono. Ma, secondo Newman, un intellettuale non è tenuto ad avere opinioni su qualsiasi problema - dietro preavviso di un momento - perché una cosa è la sapienza e altro l'opinionismo[9].
[1] Nasce a Londra nel 1801. Compie gli studi al Trinity College di Oxford e, dopo una parentesi dedicata all'insegnamento, nel 1824 si fa pastore anglicano. Subito si dimostra attento al dibattito culturale del suo tempo partecipando al "movimento di Oxford" che raggruppa studiosi impegnati nel confronto tra cattolici ed anglicani. Gli studi teologici, l'approfondimento dei Padri della Chiesa, il dialogo con gli altri studiosi lentamente lo avvicinano al cattolicesimo al quale aderirà completamente nel 1845. Viene ordinato sacerdote nel 1847 e il suo impegno di predicatore e di teologo gli procurano consensi, ma anche critiche. Tutto rientrerà quando nel 1879 papa Leone XIII lo farà cardinale. Newman muore a Birmingham nel 1890.
[2] Il suo pensiero anticipatore è condensato così: "Il Papa sia infallibile, ma al di sopra c'è la libertà di coscienza".
[3] Siamo di fronte -per dirlo con le parole dell'opera di s. Bonaventura (1217 ca.-1274)- ad una Reductio artium ad theologiam, ove la conoscenza razionale incontra una sua superiore articolazione nella luce che proviene dalla Rivelazione: «È chiaro altresì come tutte le cognizioni siano al servizio della teologia, che perciò trae esempi e usa termini desunti da ogni genere di conoscenza. È chiaro, inoltre, quanto ampia sia la via che ci illumina e come ogni cosa sentita o conosciuta celi intimamente Dio. Questo è il frutto di tutte le scienze, affinché in esse si edifichi la fede, si renda onore a Dio, si dia ordine alla condotta, si attingano le consolazioni presenti nell'unione della sposa con lo sposo che si realizza per mezzo della carità. Ad essa [la carità] sono finalizzate interamente la Sacra Scrittura e, conseguentemente, ogni illuminazione che discende dall'Alto; senza di essa ogni conoscenza è vana, dal momento che non si giunge mai al Figlio se non per mezzo dello Spirito Santo, che ci insegna tutta la Verità ed è benedetto nei secoli dei secoli. Amen» (Riconduzione delle arti alla teologia (1254-1255), n. 26, tr. it. Roma 1995, pp. 117-118).
[4] J. H. Newman (1801-1890): inglese, anglicano, professore a Oxford, poi convertito al cattolicesimo, cardinale, fondatore dell'università cattolica di Dublino. Primo rettore dell'Università di Dublino, fu costretto alle dimissioni per contrasti con la gerarchia ecclesiastica irlandese. Nel corso della sua vita, la sua idea di Università (cfr. Opere: Apologia, Sermoni universitari, L'idea di università di John Henry Newman, a cura di A. Bosi, UTET, Torino 1988) ha sviluppato la concezione di una cultura pienamente umanistica e relativamente indipendente nei confronti della fede, probabilmente all'origine di qualche confusione sull'autonomia delle scienze umane. A questo proposito, cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et ratio: "Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione" (n. 45). Newman, John Henry (Londra 1801-Edgbaston, Birmingham 1890) ecclesiastico e teologo inglese, uno dei precursori del rinnovamento della teologia cristiana; 1817, entra al Trinity College di Oxford; 1822, viene nominato fellow dell'Oriel College; 1825, sacerdote anglicano e coadiutore a Saint Clement; 1826, è tutor all'Oriel College; 1828, vicario di Saint Mary, la chiesa dell'università (fino al 1843); 1833, dopo un viaggio in Grecia ed in Italia dà vita, con J. Keble e R.H. Froude al "movimento di Oxford" che mira a rinnovare la chiesa anglicana sottraendola alla tutela dello stato e alle influenze del liberalismo teologico; Tracts for the Time (1833-41, Opuscoli per il tempo presente, creati per sensibilizzare a tal fine il mondo anglicano); Via media della chiesa anglicana (1837); 1841, lascia il movimento e si ritira a Littlemore, un villaggio presso Oxford; 1843, abbandonato ogni incarico ecclesiastico si immerge nello studio della chiesa antica, vista come un modello ideale, e soprattutto dei padri dei secc. IV e V; Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (1845); 1845, 9 ottobre, abbandona l'anglicanesimo e si converte al cattolicesimo; 1847, ordinato sacerdote, entra nella congregazione dell'oratorio fondata da san Filippo Neri e fonda oratori filippini a Maryvale, Londra e Birmingham; L'idea di una università (1852, in riferimento a quella di Dublino che ha contribuito a fondare); 1854-58, rettore dell'università cattolica di Dublino
1859, dirige la rivista «The Rambler» (Il vagabondo); Sul consultare i fedeli in questioni dottrinali (saggio pubblicato nel mese di luglio della rivista); Apologia pro vita sua,opera autobiografica, rende evidente l'impegno di un uomo che, alla ricerca della verità, non ha avuto paura di lasciare la vita tranquilla di prestigioso intellettuale anglicano per entrare in quella che i suoi studi gli avevano fatto capire essere la vera Chiesa di Cristo: quella di Roma (1864, in risposta alle accuse di ipocrisia, per essere passato dall'anglicanesimo al cattolicesimo, lanciategli da E.B. Pusey e C. Kingsley); The Dream of Gerontius (1867, Il sogno di Geronzio, poema); Saggio per una grammatica dell'assenso (1870); Lettera a sua grazia il duca di Norfolk (1875, in cui difende la definizione dogmatica dell'infallibilità del pontefice); 1877, è nominato fellow onorario del Trinity College di Oxford; 1879, creato cardinale da Leone XIII, trascorre gli ultimi anni della sua vita nella quiete operosa dell'oratorio di Birmingham.
[5] J. H. Newman, cfr. Opere: Apologia, Sermoni universitari, L'idea di università di John Henry Newman, a cura di A. Bosi, UTET, Torino 1988, pag. 785-786
[6] Ibidem, pag 798
[7] Ibidem, pag. 810.
[8] Ibidem, pag. 789ss.
[9] Ibidem, 812
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