Diritto
Linda Nadjesda Monaco
Oggetto della tesi è stata l'analisi dell'art. 41 bis O.P., comunemente definito
"carcere duro" e della relativa correlazione con i diritti umani ( in particolar modo, i
diritti del detenuto). Infatti, all'indomani dell'entrata in vigore della legge di riforma
dell'ordinamento penitenziario del 1975 vi fu chi rinvenne in tale legge i profili di
una sorta di " carta dei diritti" dei detenuti. Tale definizione si giustificava per il fatto
che, per la prima volta, nella nuova legge, anziché esaltarsi la dimensione
organizzativa dell'amministrazione penitenziaria e le sue correlative esigenze di
disciplina, veniva posta al centro dell'esecuzione penitenziaria la figura del detenuto
"persona". Era questi, infatti, il " protagonista attivo" e, nel contempo, " fine ultimo
dell'esecuzione penitenziaria nella prospettiva della rieducazione".
La dimostrazione che la riforma penitenziaria del 1975 ha accolto, quantomeno a
livello di principio, l'idea di una sanzione detentiva intesa come privazione tassativa
dei diritti, anziché come assoggettamento indiscriminato del condannato alla mercè
dell'amministrazione penitenziaria, si rinviene nell'art. 1, comma 2, ord. penit., il
quale dopo aver affermato che " negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la
disciplina", precisa che " non possono essere adottate restrizioni non giustificabili
con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini
giudiziari". Il regime del "carcere duro" ha cessato di essere un istituto provvisorio ed
è entrato stabilmente nell'ordinamento italiano con la Legge 23 dicembre 2002 n.279.
L'art. 41 bis della legge carceraria ( L. 26 luglio 1975 n. 354 e succ. mod.) era stato
introdotto con la L. 10 ottobre 1986 n. 663 e riguardava soltanto le situazioni di
carattere eccezionale: l'allora Ministro di Grazia e giustizia aveva facoltà di
sospendere, " in caso di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza" le normali
regole di trattamento dei detenuti. E' possibile riscontrare una linea di continuità con
l'istituto previsto dall'art. 90 ord. penit., abrogato dalla L. 663/1986, in base al quale
era possibile l'adozione di un provvedimento ministeriale di sospensione delle regole
di trattamento per " gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza"
principalmente riconducibili alla criminalità organizzata, non riguardando il
provvedimento di sospensione, l'istituto carcerario nel suo complesso o nella sua
parzialità, ma una categoria di detenuti, siano essi definitivi o in attesa di giudizio o
in stato di custodia cautelare. Nella prassi applicativa, l'Amministrazione
penitenziaria ha individuato i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica nei seguenti
fenomeni di pericolosità esterna al carcere:
2) i gravi episodi di strage avvenuti nelle città di Palermo, Roma, Firenze e Milano
nel corso del 1992-1993;
tale ruolo direzionale all' interno del carcere.
Gli avvenimenti di eccezionale gravità che segnarono l'anno 1992 ( gli attentati nei
quali trovarono la morte Giovanni e Francesca Falcone, Paolo Borsellino e gli
uomini delle rispettive scorte) resero brutalmente evidente il livello di aggressione
della mafia agli uomini ed alle istituzioni dello Stato.
Attraverso il D.L. 8 giugno 1992 n. 306, si ritenne pertanto opportuno rendere
applicabile questo speciale regime carcerario agli appartenenti alla criminalità
organizzata. Il provvedimento avrebbe dovuto avere una validità di tre anni, la L.
6 febbraio 1995 n. 36 lo ha successivamente prorogato fino al 1999, anno in cui esso
è stato nuovamente prorogato fino al 31 dicembre 2002. Infine, è divenuto definitivo.
La motivazione alla base della decisione di applicare il 41 bis ai mafiosi fu che il
regime penitenziario non riusciva a contrastare i boss, i quali, continuavano a
comunicare con l'esterno, intrattenendo rapporti con le cosche e diramando ordini
agli affiliati. Molte delle attività criminali venivano gestite, infatti, dall'interno del
carcere e la coesione dell'organizzazione veniva garantita da un costante flusso di
informazioni intercorrenti tra il carcere e il mondo esterno.
Inoltre, i boss, ricevendo denaro ed altri beni, mantenevano lo status di prestigio
all'interno del carcere, che li poneva, agli occhi degli altri detenuti, in una posizione
di odiosa e pericolosa preminenza. Era necessario, pertanto, isolare gli appartenenti
alle organizzazioni criminali al fine precipuo di allontanarli dal loro ambiente, di
spezzare l'organicità del rapporto associativo e di indebolire la loro posizione.
Va detto che Cosa Nostra- la più strutturata tra le varie forme di criminalità
organizzata in Italia- racchiude in sé la maggioranza di coloro che sono sottoposti al
41 bis. Essa ha mutato la sua strategia a seguito delle stragi intercorse tra il 1992 e il
1993: questi anni rappresentano il culmine della sfida di Cosa nostra allo Stato. Totò
Riina fu il simbolo di una strategia devastante volta a piegare le istituzioni: la sua
cattura non chiuse un'epoca. Infatti, il 1993 fu un altro anno nero: 10 morti nelle
stragi di Roma, Firenze e Milano. A seguito dell'arresto di Leoluca Bagarella e degli
altri uomini di vertice di Cosa Nostra ( Nitto Santapaola e Giovanni Brusca) si ebbe
la sensazione di aver ormai sconfitto definitivamente tale organizzazione criminale.
Fu un errore poiché essa aveva semplicemente mutato strategia: si era inabissata.
La lotta alla mafia è sempre stata condizionata da interventi emergenziali: di volta in
volta, vicende gravissime che hanno segnato la storia del nostro Paese, hanno spinto
il Governo a prendere misure drastiche e, il 41 bis, ne è un esempio.
In molti si oppongono a tale regime carcerario, vedendo in esso, uno strumento di
tortura con il quale si cerca di far pressione sul detenuto per indurlo a collaborare con
la giustizia. Il regime di cui all'art. 41 bis è stato oggetto di valutazioni e controlli
anche da parte di organi sopranazionali, quale il Comitato per la prevenzione della
tortura ( CPT), organo istituito con la Convenzione Europea per la prevenzione della
tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti conclusa a Strasburgo il
26 novembre 1987 ed approvata dall'Assemblea Federale degli Stati membri del
Consiglio d' Europa il 5 ottobre 1988. Tale Comitato esamina, per mezzo di
sopralluoghi, il trattamento delle persone private di libertà allo scopo di rafforzare,
se necessario, la loro protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti inumani o
degradanti. Esso, dunque, ha natura preventiva: deve prevenire il verificarsi di tali
atti e, nel contempo, ha il compito di sensibilizzare gli Stati a favore di un effettivo
miglioramento delle condizioni dei detenuti e delle persone private della libertà.
A tal fine, il Comitato raccomanda allo Stato italiano di prendere le misure di urgenza
per permettere ai detenuti sottoposti al regime di cui all'art. 41 bis , delle attività che
possano assicurare un appropriato contatto umano. Riguardo al carcere duro, il CPT,
nelle visite effettuate nel 1992 e nel 1995, constatò che si trattava di un sistema tale
da provocare degli effetti dannosi che potevano causare, spesso irreversibilmente,
l'alterazione delle facoltà sociali e mentali a coloro che vi erano sottoposti.
Raccomandò, quindi, l'adozione di misure urgenti oltre ad un generale riesame
dell'intero sistema, in quanto appariva poco chiaro il rapporto tra l'obiettivo
dichiarato di esso- impedire la costituzione e/o il consolidamento dei legami tra un
detenuto e il suo gruppo di appartenenza - e alcune restrizioni imposte, come la
restrizione totale del lavoro e della partecipazione alle attività culturali, ricreative
sportive e le limitazioni ai colloqui familiari e alle " ore d'aria".
Il CPT concluse il rapporto, sostenendo che, un obiettivo non dichiarato del sistema
era quello di agire come mezzo di pressione psicologica al fine di indurre i sottoposti
alla dissociazione ed alla collaborazione. Occorre ricordare che tale regime carcerario
ben si adegua alla particolare minaccia rappresentata nel nostro Paese dalla
criminalità organizzata. Il carcere duro non rimane necessariamente in vigore per
tutta la durata della pena inflitta ma è soggetto a revisioni sulle quali l'autorità
giudiziaria esercita il proprio controllo di legalità. La Corte Costituzionale, in più
occasioni, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità riguardanti l'art. 41
bis: ha affermato nella sentenza del 5 dicembre 1997 n. 376 che la possibilità di
creare un circuito differente all'interno del carcere non contrasta con i principi della
Costituzione, purchè riservato a situazioni che lo giustifichino in maniera sostanziale
e purchè la legittimità della sua applicazione sia controllata dall'autorità giudiziaria.
Infatti, la finalità della norma deve rimanere quella di prevenire ed impedire i
collegamenti tra i detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali, nonché fra questi
e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà: collegamenti che, come
risulta dall'esperienza maturata, possono venire alla luce attraverso i contatto che il
regime detentivo ordinario consente. Alle pronunce del nostro Organo di giustizia
costituzionale, vanno affiancate le decisioni adottate dalla Commissione e dalla
Corte Europea dei diritti dell'uomo. Anzitutto, occorre ricordare l'affermazione della
Commissione europea dei diritti dell'uomo, la quale, nella decisione 18 maggio
1998, Natoli/Italia, ha sancito che le restrizioni previste dall'art. 41 bis, comma 2,
sono misure severe ma proporzionate alla gravità dei reati commessi dai destinatari
delle stesse. Le misure disposte nel caso di specie non determinano la violazione
delle norme della CEDU, in quanto si configurano come diretta conseguenza della
gravità dei reati per i quali il detenuto è stato condannato e non vanno comunque "al
di là di quanto, in una società democratica è necessario alla difesa dell'ordine e della
sicurezza pubblica e della prevenzione dei reati". Non tutte le misure disposte nei
confronti del detenuto ai sensi dell'art. 41 bis, però, possono ritenersi in quanto tali
conformi alla Convenzione. Si pensi al caso dell'ingerenza sul diritto al rispetto della
vita privata determinata dal visto di controllo sulla corrispondenza, ritenuto dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo, lesivo dell'art. 8 CEDU anche nell'ipotesi del
detenuto sottoposto al regime speciale di cui all'art. 41 bis per l'assenza del
necessario "fondamento legale". Appare emblematica la sentenza del 28 settembre
2000 nella quale la invocata violazione dell'art. 8 CEDU riguardante il diritto al
rispetto della vita privata e familiare viene esclusa per le limitazioni riguardanti le
visite dei familiari, ma, viene dichiarata al disposto controllo sulla corrispondenza.
Nella motivazione della decisione si specifica che le ulteriori limitazioni disposte nei
confronti dei detenuti costituiscono un' ingerenza della pubblica autorità su un diritto
garantito dalla Convenzione che può ritenersi legittima solo ove prevista dalla legge e
necessaria in una società democratica, fondata su una prevalente necessità sociale e,
in particolare, proporzionata allo scopo legittimo perseguito. Anche Amnesty
International, che, svolge un'importante funzione in materia di diritti umani, da
tempo, ha iniziato una campagna per sensibilizzare l'opinione pubblica per ciò che
concerne i trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Due autori, Maurizio Turco e
Sergio D'Elia, nel libro da loro pubblicato dal titolo "Tortura democratica", hanno
constatato personalmente la situazione nelle sezioni del 41 bis ( dati relativi al luglio
2002). In Italia vi sono 13 sezioni del regime di cui all'art. 41 bis e, alla data del 27
luglio 2002, i detenuti appartenenti a tale regime erano 645, di cui 17 nell'area
riservata. Tali sezioni sono gestite dai G.O.M. ( Gruppo Operativo Mobile), reparti
speciali, dei quali, gli autori hanno potuto verificare la professionalità e, in linea di
massima, l'uniformazione alle regole dettate centralmente. Tali sezioni sono ubicate
in una palazzina separata dal resto del carcere e, 6 delle 13 sezioni hanno una
cosiddetta area riservata che "ospita" detenuti del calibro di Totò Riina, Nitto
Santapaola, Leoluca Bagarella. In discussione non è chi sono, cosa hanno
fatto o potranno fare tali detenuti. In discussione è cosa si rischia di divenire se non
si riconoscessero al peggiore degli assassini, quei diritti fondamentali che lui ha
negato alle sue vittime. Occorre ricordare che porre l'aggressore ( in tal caso, gli
appartenenti alle organizzazioni criminali più pericolose al mondo) in condizione di
non nuocere, di non attentare più la vita e la sicurezza delle persone è l'obiettivo
prioritario che il nostro Paese deve porsi per la sua crescita ed il suo futuro.