Filosofia


Giuseppe Acocella

Professioni antiche e nuove tra liberalizzazione e regolazione: il problema dell’ interesse pubblico

Qualche osservazione sulla Direttiva europea 2005/36 del 7.9.2005 Nelle settimane appena trascorse l’approvazione del decreto legislativo che recepisce la Direttiva europea 2005/36 da un lato, e la concomitante discussione intorno alla bozza di riforma delle professioni intellettuali dall’altro, hanno riacceso l’attenzione ed il confronto intorno al tema. Le polemiche che erano insorte già in occasione della discussione prima sulla Direttiva “Bolkenstein” e poi sulla Direttiva “Zappalà” (la 36 del 2005 che ci interessa) hanno occupato ampiamente, tra il 2005 ed il 2006, le cronache relative al delicato e discusso tema delle liberalizzazioni (viste da alcuni come un toccasana per gli utenti, da altri come attentati alla qualità ed al controllo delle prestazioni professionali e dei servizi) in Italia assai vive dopo l’approvazione della legge 248 che riscaldò l’estate del 2006. Qualche osservazione preliminare sulla Direttiva 2005/36 e sulle competenze in materia del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro può forse risultare di qualche interesse. Non mi propongo comunque di compiere un esame dettagliato della complessa materia, ma solo di presentare i temi che emergono nella particolare prospettiva dei principi in contratto sui quali si dibatte. Mi limiterò a prendere in esame - vista la complessa articolazione dell’intera direttiva, che meriterebbe un lungo e dettagliato commento - solo le Considerazioni premesse alla Direttiva “relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali”, come recita il titolo della Direttiva europea 2005/36, proposta dalla Commissione europea e accompagnata dal parere del CESE, che svolge in Europa la funzione esercitata dal CNEL in Italia. Al punto 11, a proposito dell’esercizio professionale in uno degli Stati membri e della formazione, si prescrive in specie che “per le professioni coperte dal regime generale di riconoscimento dei titoli di formazione, di seguito denominato <>, gli Stati membri dovrebbero continuare a fissare il livello minimo di qualificazione necessaria in modo da garantire la qualità delle prestazioni fornite sul loro territorio”, senza che essi però possano “imporre a un cittadino di uno Stato membro di acquisire qualifiche che in genere si limitano a definire soltanto in termini di diplomi rilasciati in seno al loro sistema nazionale d’insegnamento, mentre l’interessato ha già acquisito tali qualifiche, o parte di esse, in un altro Stato membro”. S’intende come la necessità di conciliare queste esigenze di garanzia della formazione da un lato e della libera circolazione dall’altro riguardi direttamente le questioni legate alla equivalenza o alla equipollenza degli stessi titoli universitari, come su fondamentali aspetti precisano i punti 10, 14 e 19 delle medesime considerazioni preliminari. Ma ancor più nello stesso punto 11 emerge un criterio che si propone di consentire ai singoli Stati di porre criteri e regolamenti in nome dell’ interesse pubblico generale, che viene espressamente richiamato: “tale regime generale di riconoscimento non impedisce che uno Stato membro imponga, a chiunque eserciti una professione nel suo territorio, requisiti specifici motivati dall’applicazione delle norme professionali giustificate dall’interesse pubblico generale. Tali requisiti riguardano, ad esempio, le norme in materia di organizzazione della professione, le norme professionali, comprese quelle deontologiche, le norme di controllo e responsabilità. Infine, la presente direttiva non ha l’obiettivo di interferire nell’interesse legittimo degli Stati membri a impedire che taluni dei loro cittadini possano sottrarsi abusivamente all’applicazione del diritto nazionale in materia di professioni”. Mi soffermo su queste ultime considerazioni perché molte ostilità nei confronti della Direttiva Zappalà sono nate anche dalla mancata valutazione della lettera non equivoca della Direttiva, che di fatto invocava un intervento della legislazione nazionale sulle professioni antiche e nuove. Ma se le professioni esplicitamente nominate della Direttiva europea sono quelle ordinariamente regolate in Italia con sistema ordinistico, essa in realtà riguarda anche quelle di norma definite “professioni non regolamentate”, la cui organizzazione si esprime nelle Associazioni. Nello stesso arco di tempo nel quale l’Europa formulava la Direttiva, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro – in virtù delle sue competenze derivategli dalla Costituzione e dalla legge istitutiva – presentava una proposta di legge (non giunta a conclusione per l’interruzione della Legislatura che ha preceduto l’attuale) che si giovava di un Rapporto di monitoraggio sulle “nuove professioni”, fondato su un lavoro che aveva portato a registrare presso il CNEL nell’ultimo quinquennio 155 Associazioni espressione delle nuove professioni prive di regolamentazione. Se gli Ordini dichiarano di rappresentare circa un milione e ottocentomila iscritti (dei quali più di un milione centomila effettivamente esercitanti la professione) i professionisti operanti in regime non regolamentate, ad una stima attendibile, ammonterebbero a circa il doppio, tre milioni e mezzo di addetti. Sull’onda del serrato dibattito riaccesosi sul DL 223 del 4 luglio 2006, convertito in Legge 248 dell’11 agosto 2006, dopo la contestazione radicale portata avanti dagli Ordini professionali sulle cosiddette liberalizzazioni, si giungeva al progetto di Legge delega del Ministero della Giustizia sulla riforma delle professioni, illustrato alle categorie professionali all’inizio del mese di novembre del 2006, allo scopo di predisporre il testo base, poi approvato dal Consiglio dei Ministri, in vista della discussione in Commissione Giustizia della Camera del 21 novembre dello scorso anno sui disegni di legge già depositati. Entro il 31 dicembre 2006 gli ordini avrebbero dovuto adeguare le proprie regole interne ai principi del decreto Bersani (eliminazione dei vincoli sulla pubblicità, abolizione delle tariffe fisse o minime obbligatorie, cancellazione dei cosiddetti “patti di quota lite”, abolizione del divieto di formazione di società interdisciplinari di professionisti). L’8 marzo 2007 l’Autorità per la concorrenza ed il mercato, nell’audizione presso le Commissioni congiunte della Giustizia e delle Attività produttive della Camera dei Deputati, prima di procedere alla valutazione del DDL sul riordino, dichiarava, sulla base dell’indagine conoscitiva avviata a gennaio, e per bocca del suo Presidente, a proposito del decreto sulle liberalizzazioni, che <>, denunciando che da tali atteggiamenti <>. E’ evidente che viene riproposta la contrapposizione tra una posizione che intende la concorrenza anche nella attività libero-professionali come uno strumento per favorire l’utenza nonché il libero accesso alle professioni, ed una che invece mira a tutelare - attraverso le norme dei codici deontologici - una uniformità delle prestazioni utilizzando la prescrizione del “decoro della professione”, inteso a limitare la comunicazione pubblicitaria e a tutelare i minimi tariffari, ostacolando la concorrenza nell’esercizio dell’attività economica e professionale. Il DDL sul riordino ed il sistema duale: sul tema del pubblico interesse Il disegno di legge 2160 sul riordino - sul quale il CNEL a maggioranza esprimeva con un parere e poi nella medesima audizione alla Camera una valutazione complessivamente positiva, pur manifestando la necessità di correzioni in alcuni punti, registrandosi naturalmente l’opposizione dei consiglieri rappresentanti gli ordini professionali - l’Antitrust appuntava le sue osservazioni sulla necessità di chiarire cosa il DDL intendesse per interesse generale, dal momento che gli Ordini (in specie notai, farmacisti (con la richiesta di autorizzazione preventiva), avvocati e commercialisti (con la comunicazione ex ante) ponevano problemi di restrizioni all’accesso. Ad avviso tanto dell’Antistrust quanto del CNEL eventuali restrizioni andrebbero motivate proprio sulla base di un interesse generale oggettivamente dimostrabile. Il DDL 2160 è stato presentato dal Ministro della Giustizia il 24 gennaio 2007. Esso - è bene ricordarlo - si sofferma, nel delineare il sistema duale di cui s’è detto, sulle nozioni di interesse pubblico e di diritto costituzionalmente protetto proprio in relazione alla distinzione tra professioni “ordinistiche” e professioni regolamentate attraverso il solo riconoscimento delle Associazioni di rappresentanza. Già nella relazione si precisa che <>. L’art. 2, c. 1, recita testualmente che <>. L’art. 3 si premura di precisare nel c.1, b) che venga mantenuto <>, Ma occorre soprattutto guardare all’articolo 8 a cui il punto d) rinviava. Il c. 1 recita che <<>, di seguito precisa i criteri: c) prevedere l’iscrizione in apposito registro delle associazioni tra professionisti che sono in possesso dei seguenti requisiti: ampia diffusione sul territorio; svolgimento di attività che possono incidere su diritti costituzionalmente garantiti o su interessi che, per il loro radicamento nel tessuto socio-economico, comportano l’esigenza di tutelare gli utenti; prevedere che il registro sia distinto in due sezioni, una tenuta dal Ministero della giustizia e l’altra, per le materie di sua esclusiva competenza, dal Ministero della salute, e che l’iscrizione sia disposta dal Ministero competente per ciascuna sezione, di concerto con il Ministero dello sviluppo economico, sentiti il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, e gli ordini eventualmente interessati>>. L’art. 7, c. 1, ribadisce che <>. La Direttiva Europea 36 del 2005 - dopo aver precisato (punto 14 delle Considerazioni) che <> - avvertiva che <> (19). Il Titolo III, capo I (Regime generale di riconoscimento di titoli di formazione) è dedicato a tale disciplina. La realizzazione del sistema “duale” si concretizza proprio in relazione a questi profili essenziali. Nel mese di ottobre 2007 il confronto sul sistema “duale” ha alzato nuovamente i alti per il contemporaneo accendersi di questioni come il riconoscimento delle professioni finora non regolamentate, e dunque dei problemi di rappresentanza comune europea, e come le specificazioni relative alle professioni ordinistiche, in specie per la ventilata esclusione dell’avvocatura dal riordino delle professioni. Diritti costituzionalmente garantiti e interesse pubblico La distinzione operata nel DDL 2160 circa le professioni sanitarie – dal momento che nell’art. 5 si disciplina il raccordo con la normativa in materia di istruzione universitaria e si ribadisce che la normativa riconosce <> ha indotto qualche studioso a ritenere non sovrapponibili in un unico disegno normativo, giungendo a parlare di sistema non più duale ma ternario, con Ordini per le professioni intellettuali, professioni sanitarie regolamentate, ed infine prestazioni professionali. Le Commissioni Giustizia ed Attività produttive ad inizio dello scorso mese di ottobre hanno sollecitato il Governo a procedere alla promulgazione del decreto legislativo di recepimento della Direttiva 2005/36, a favore delle Associazioni senza Albo ammesse a partecipare ai tavoli di concertazione europea (finora riservati alle sole professioni ordinistiche). Si intreccia con questo il problema complesso delle piattaforme comuni previste dalla Direttiva: <> (Art. 15, c. 1). Uno dei punti più controversi appare essere quello dell’attestato di competenza rilasciato dalle Associazioni riconosciute con Decreto del ministeri della Giustizia d’intesa con il Ministero delle politiche comunitarie e su parere del CNEL (Art. 25 del D. L.vo). La prescrizione perché le Associazioni (dette “senza Albo”) ottengano il riconoscimento si arricchisce: oltre che i quattro anni di vita documentata con adozione di uno Statuto e tenuta dell’elenco degli iscritti, si aggiungono gli indispensabili requisiti della fissazione di principi di deontologia e l’obbligo della formazione permanente necessaria per la professione. L’attestato di competenza diventa subito il terreno di conflitto da parte degli ordini e verrà in seguito eliminato. Quello che resta è però la conferma del sistema duale delle professioni. All’annuncio dello stralcio della posizione dell’avvocatura dal riordino delle professioni, le reazioni degli ordini si sono appuntate verso il testo rielaborato in questo senso dalle Commissioni parlamentari interessate, nonché in specie contro l’attribuzione alle Associazioni della potestà di rilasciare l’attestato di competenza, giungendo a parlare addirittura di “eccesso di delega” da parte del Governo. Le Associazioni conseguivano dunque, con l’adeguamento alla Direttiva 35, il prezioso risultato del riconoscimento delle professioni non ordinistiche e della partecipazione ai tavoli di negoziazione dell’Unione Europea. Il testo, presentato al Comitato ristretto delle Commissioni Giustizia e Attività produttive, alla fine di ottobre, della bozza di riforma delle professioni intellettuali recuperava la potestà per le Associazioni di rilasciare attestati di competenza (ma sempre coerentemente alla natura volontaria e privatistica dell’adesione associativa), che era stata esclusa dal decreto legislativo sulle qualifiche approvato dal Consiglio dei Ministri, dal momento che si configurava effettivamente un eccesso di delega. Il testo del DDL 2160 poteva così riprendere il suo cammino. Il punto che appare irrisolto - e sul quale avevano richiamato già l’attenzione il CNEL con un parere (il parere è atto formale previsto nella legge di attuazione del funzionamento dell’organo costituzionale) e dall’Authority per la concorrenza con una relazione all’atto dell’audizione parlamentare – è la carente precisazione delle nozioni di interesse pubblico e di diritto costituzionalmente garantito. Il problema è stato ripreso sin dalla primavera del 2007 da rappresentanti degli Ordini professionali, che hanno denunciato che, secondo l’art. 8, può accadere che Associazioni possano svolgere attività che incidono sui diritti costituzionalmente garantiti, che invece non possono essere sottratti al controllo pubblico e alla verifica della qualità della formazione e della competenza. L’Avvocatura ha rilevato, per l’ambito di proprio interesse, che la Direttiva 2005/36 sarebbe stata pensata solo per i sistemi di common law, anche perché con l’attestato di competenza rilasciato ai propri iscritti dalle Associazioni, di fatto si giungerebbe - si afferma - ad un riconoscimento che sovverte il principio di verifica che viene attuato sulla base di una formazione certificata (e dell’esame di Stato). Il tema non è meramente polemico: Paolo Grossi ha scritto di recente che <>. La tensione che appare sottesa al dibattito in materia di liberalizzazione è riconducibile peraltro alla questione che accompagna il dibattito sul diritto che si confronta con l’impetuoso affermarsi del diritto come soft law piuttosto che come autorità regolativa, seguito alla crisi delle sovranità statali. Da un lato la libertà della scelta - tanto di chi esercita la professioni. di fronte alle chiusure corporativistiche attribuite alle posizioni ordinistiche, quanto dell’utente o fruitore di servizi, in specie se riferiti al diritto di difesa legale o al diritto alla salute - dall’altro la riaffermata necessità, proprio in nome della tutela dell’utente o del consumatore, di osservare regole di controllo dell’accesso alle professioni e, a tutela del prestatore d’opera, della autenticazione delle prestazioni in riferimento alla esigibilità delle tariffe professionali. Nella Direttiva europea il tema appare presente ma non affrontato se non in relazione alla disciplina nazionale della materia, in coerenza con il perdurante conflitto tra sovranità giuridica nazionale e legislazione europea in relazione ai limiti di quest’ultima nel campo della formazione (legislazione ascendente, per la quale la legge del 2005 assegna compiti primari proprio al CNEL), e con i perduranti problemi della recezione delle disposizioni adottate in sede continentale (legislazione discendente, di competenza parlamentare. Già in margine alla Direttiva Bolkensien sulla liberalizzazione dei servizi erano nate dispute accese tanto sul significato assunto dal riferimento al paese d’origine per la fissazione dei salari da lavoro, quanto sulla concorrenza che sarebbe nata con l’ingresso dell’idraulico polacco, con vantaggi da verificare per l’utente sui costi, ma con il timore di scarsi controlli sulla qualità della prestazione, difficilmente valutabile dal cliente. Innanzitutto va detto che nella bozza di fine ottobre sul riordino delle professioni viene ridimensionata la liberalizzazione del patto di quota lite, dopo che il decreto Bersani aveva eliminato il divieto: invece ora il compenso dei legali non potrà superare il dieci per cento della causa. Nel corso delle audizioni alla Camera - allorché il CNEL richiamò l’attenzione proprio sull’art. 8 del d.d.l., di cui ora faremo cenno - si accese una disputa in occasione della sessione dedicata alla richiesta di “riserva generale” per le professioni consolidate, ritenuta dal relatore Mantini inammissibile. Invece la fissazione di un criterio giuridico per creare “un perimetro di attività riservate” veniva ritenuto negoziabile. Gli Ordini, in specie quello dei commercialisti (nel cui ambito professionale si addensano numerose associazioni del settore concorrenti), ha posto la questione della netta distinzione tra diritti costituzionalmente garantiti, e quindi meritevoli di tutela, da un lato, e interesse pubblico dall’altro. Cosicché, ad avviso dell’Ordine, l’art. 8 c.1, non distinguendo tra queste due nozioni, consentirebbe che professioni organizzate in associazioni possano incidere sui diritti costituzionalmente garantiti. Il varo del disegno di legge sul riordino delle professioni che delinea, come si è detto, un sistema duale tra ordini e associazioni, ha ulteriormente acceso i toni della disputa in relazione alla prescrizione, in specie in riferimento all’art. 8 circa la riserva ordinistica per quelle professioni nelle quali sia riconoscibile un evidente “interesse pubblico generale”, distinguendo così esplicitamente l’accesso libero alle professioni intellettuali dalle misure restrittive adottate per accedere a professioni comportanti la tutela per i “diritti costituzionalmente garantiti”. Innanzitutto va precisato che lo stesso Ministro proponente ritiene che spetti ai decreti legislativi l’individuazione dell’interesse pubblico generale meritevole di tutela tale da legittimare l’esistenza dell’Ordine (oggi più di venti in Italia). In mancanza di esso l’attività professionale potrà essere regolata da una Associazione registrata, sulla natura e sui requisiti della quale il CNEL è chiamato ad esprimere parere formale sulla base della Banca dati che dal 2002 esso custodisce. Nelle Osservazioni al D.d.l. 2160, espresse già nel febbraio 2007, il CNEL sottolineava e approvava la necessità di un rigoroso monitoraggio per il riconoscimento delle associazioni professionali tramite registrazione - su parere del CNEL - in apposito elenco pubblico, tenuto dal Ministro della Giustizia tranne che per le materie di competenza sanitaria, tenuto dal Ministero della Salute. Il coinvolgimento del CNEL trova fondamento, come detto, nella Banca Dati delle associazioni di esercenti professioni non regolamentate, curata da anni e periodicamente aggiornata. L’indirizzo è stato poi consolidato dal parere delle Commissioni Attività produttive e Giustizia della Camera dei Deputati, che ha stabilito che il riconoscimento delle nuove professioni attraverso l’individuazione delle associazioni non regolamentate (ammesse a partecipare ai tavoli di concertazione della Unione Europea) viene demandata ad un Decreto del Ministero della Giustizia di concerto con quello delle Politiche comunitarie, su parere obbligatorio del CNEL. Proprio quest’ultimo compito è stato oggetto sull’art. 25 del decreto legislativo del 9 novembre di un confronto serrato all’interno del CNEL, ed in specie della sua II commissione a ciò deputata. Conclusioni sullo stato attuale della discussione Il 6 novembre - tre giorni prima della pubblicazione in G.U. del Decreto legislativo del 23 ottobre, che recepisce la Direttiva comunitaria 36/2005 - il Gruppo di lavoro sulle libere professioni e i servizi professionali innovativi istituito presso la II Commissione del CNEL ha rilevato che il recepimento della direttiva UE sulle qualifiche professionali, nonché il testo generale di riforma delle professioni che il comitato ristretto delle Commissioni Giustizia e Attività produttive della Camera ha elaborato vanno ritenuti positivamente innovativi, ed entrambi assegnano al CNEL il compito importante di fornire un parere in merito. In particolare, il D. Legislativo richiede il parere del CNEL per individuare le associazioni di professionisti chiamate a contribuire a definire le piattaformi comuni che consentono a questi di circolare liberamente in Europa per lo svolgimento della loro attività; il progetto in discussione alla Camera assegna d’altro canto al CNEL il compito di fornire un parere sulla richiesta delle associazioni di essere riconosciute dal Ministero della giustizia, anche al fine di rilasciare un attestato di competenza agli iscritti. Il ruolo del CNEL, sia da un punto di vista procedurale, sia da un punto di vista degli obiettivi che il parere dovrà realizzare, richiede però che si chiarisca se il CNEL dovrà fornire il parere su richiesta dell’autorità ministeriale, o se potrà elaborarlo anticipando tale richiesta. Si è rilevato da parte di alcuni che il riconoscimento delle associazioni, e non delle professioni, potrebbe creare il rischio che si riconoscano professioni che non hanno una effettiva esistenza nel mondo professionale, ad esempio riconosciute attraverso corsi di formazione professionale (contravvenendo le disposizioni in materia di formazione e titoli universitari), e che si debba escludere che il CNEL possa elaborare un parere senza prima essere stato interpellato dal Ministero. Il D. Legislativo si rivolge alle associazioni e non alle professioni, cosicché il compito dell’autorità amministrativa competente sarà quello di verificare il possesso dei requisiti stabiliti dalla norma, che potrà essere facilitato dalla Banca Dati esistente presso il CNEL, dal momento che già la Banca dati richiedeva il possesso di requisiti in gran parte richiamati oggi dal Decreto, allo scopo di tutelare l’utenza che alle nuove professioni si rivolge. L’ ISTAT ha da poco concluso uno studio su 800 attività professionali, in grado non solo di definirne i caratteri e il numero di professionisti, ma anche in grado di studiarne l’evoluzione nel tempo. Esso potrà essere messo a disposizione del CNEL, il quale sarà chiamato a svolgere un importante ruolo, mediando tra esigenze contrapposte, ma che la sua rappresentatività è in grado di assicurare di volta in volta una composizione positiva di orientamenti differenti. Una conclusiva riflessione - suscitata anche dalla sollecitazione sollevata dall’Avvocatura sulla inadattabilità di un sistema così pensato ai paesi nei quali prevale la tradizione della civil law – mi si permetta: si può forse notare il richiamo costante - quasi una salvaguardia estrema di fronte ad una materia complessa - ai principi di trasparenza, garanzia per l’utente, rispetto dell’interesse pubblico venga nei diversi testi normativi confidato ai codici deontologici, alla autoregolamentazione di segno etico oltre che alle prescrizioni particolari. La domanda di prescrizioni etiche potrebbe essere: questo richiamo all’etica e alla deontologia costituisce la sconfitta o la vittoria della soft law. Essa, infatti, da un lato viene esaltata in nome della liberalizzazione (non confidando più l’ordinamento nella forza dell’hard law), talché si lascia solo a norme deontologiche il compito della regolazione, dall’altro subisce la restrizione che, per garanzia dell’utente e della qualità della prestazione professionale, è rappresentata da un complesso di norme etiche, cui viene demandato il compito di rafforzare il debole controllo formale. Comunque sembra così inaugurarsi un nuovo equilibrio tra autonomia negoziale delle professioni e responsabilità della comunità. Per tornare agli eventi degli ultimi giorni il nodo sembra rappresentato - insieme alla definizione, in sede legislativa sulla riforma, entro novembre in Commissione Giustizia, delle procedure per la unificazione tra Ordini con ambiti comuni, della composizione degli organi deontologici, della radiazione del professionista che non effettua formazione - dal problema se il decreto: a) preveda il riconoscimento delle associazioni (con conseguente definizione delle piattaforme comuni per la libera circolazione in Europa) o non piuttosto la delineazione dei requisiti relativi alle professioni rappresentate; b) preveda o meno che le associazioni possano rilasciare attestati di competenza ai propri iscritti; c) se il parere del CNEL possa essere espresso su richiesta ministeriale o meno, e in questo caso secondo quali procedure; d) infine se per la formazione del parere da parte dell’organo del CNEL preposto a questo Ufficio (Assemblea o Commissione) debbano essere auditi rappresentanti delle Associazioni. Su questi temi il dibattito è tuttora aperto. Giuseppe Acocella Vice Presidente del CNEL