Etica
Roberto Galisi
Gli sviluppi del metodo scientifico e della ricerca ci insegnano quel rigore scientifico che ci porta a razionalizzare tutto ciò che ci circonda secondo una logica di costi/benefici e ci fa guardare ai fenomeni religiosi con quel distacco e quella distanza tipica del ricercatore alla ricerca della verità. Per questo motivo siamo abituati a pensare alla religione come qualcosa di distaccato dalle nostre vite razionali e come una pesante ancora che ci trasciniamo dietro verso un maggiore sviluppo economico, fidando nelle nuove teorie del mercato.
Molti economisti fino a non molto tempo fa hanno condiviso questo punto di vista, ma la storia è cambiata dalla morte di Papa Giovanni Paolo II che ha fatto pensare alla religione cristiana in termini diversi, non più come pesante fardello, ma come trampolino di lancio di una economia di mercato libera, capace di creare ricchezza per le generazioni passate e future. A questo punto non può non venire alla mente la figura di Giuseppe Toniolo, docente universitario, economista e integerrima figura di laico cristiano, che con il suo impegno sociale e politico segnò la vita ecclesiale della fine del diciannovesimo secolo e dell' inizio del ventesimo.
"L'etica è assolutamente essenziale per la sopravvivenza dell'umanità, poiché tutte le azioni dell'uomo, alla fine, si rapportano al bene o al male, all'ingiustizia o alla giustizia e, in ultima istanza, si confrontano con la dignità della persona umana". Sarebbe inaccettabile che la finanza, l'economia, il profitto -ossia quelle attività umane che si collegano al lavoro, uno dei beni essenziali nella vita delle persone, delle famiglie e della società - non avessero a che fare che con l'etica.
Cosi come la visione religiosa di Hegel il quale vedeva in Gesù un maestro di morale e riduceva così tutta l'esperienza religiosa al campo etico. Ma la religione e l'etica sono due cose diverse ed in particolare si può dire che, in una prospettiva di fede, l'etica è una parte della dimensione religiosa.
L'idea di progresso e sviluppo ha la sua radice non nel fatto meramente economico, ma certamente anche economico, ed il cristianesimo porta ad una concezione positiva della realtà -segno di Dio- e l'economia è parte di tale realtà. Ciò che distingue il bene dal male è l'agire.
Come è possibile, perciò, che lo sviluppo sia nato solo con la rivoluzione industriale? I primi capitalisti sono i grandi monasteri medioevali e il capitalismo nasce dove si sviluppa la passione per la scienza, la libertà politica, ma soprattutto una rielaborazione razionale dei testi sacri. Le Goff nel suo "Cinque personaggi del passato per il nostro presente" tratta gli aspetti religiosi congiuntamente alle svolte economiche. Parla di personaggi come Pietro Abelardo e San Francesco d' Assisi, innovatori in campo religioso, che introducono il metodo del dubbio nell'interpretazione dei testi sacri e lasciano margini ampi all'agire senza arrivare alla blasfemia. Celeberrima è la frase di Abelardo: dubitando arriviamo alla ricerca, cercando percepiamo la verità[1].
L'uomo viene prima e va sempre oltre la sfera economica, sempre viene prima e va oltre il profitto, viene sempre prima e va oltre il reddito, sempre viene prima e va oltre il Pil. L'uomo, insomma, mai può ridursi ad una realtà economica o tecnica (l'homo oeconomicus o tecnocraticus)
Come non accennare alla Riforma Protestante calvinista e luterana che diedero una nuova vita al concetto di fede, alleggerendosi di tutti quei lacci e laccioli che interferivano con il culto dell'anima e che ha dato una nuova spinta all'economia dei paesi protestanti attraverso una concezione del tutto nuova dell'uomo e del rapporto con Dio? Una delle tesi fondamentali fu formulata da Weber nei primi anni del Ventesimo secolo e da oltre un secolo alimenta un'amplissima letteratura critica. Essa ha i lineamenti di un paradosso: com'è possibile che in un orizzonte religioso come quello protestante, che contempla la totale svalutazione delle opere e dei meriti e che, essendo fondato sulla predestinazione, interpreta la grazia e la salvezza come decreti imperscrutabili di Dio, si sviluppino condizioni favorevoli allo sviluppo dello spirito capitalistico? Dove può nascere e radicarsi, laddove ci si attenderebbe un rassegnato fatalismo, quell' inquietudine estremamente attivistica che fa incontrare protestantesimo calvinista e capitalismo?
La risposta di Weber a queste domande rimanda a quella solitudine protestante del fedele e a quel senso di inadeguatezza etica di chi sa di vivere in un mondo peccaminoso e nel segno di una corruzione che investe tutte le creature. Questo dramma ha un doppio volto: da un lato manca la certezza della salvezza, dall'altro la comunicazione con Dio è diretta e non mediata da istituzioni ecclesiastiche o sacramentali, come invece accade nella religione cattolica. Il dramma del fedele si rovescia allora in un imperativo etico-economico: padroneggiare il mondo per essere al servizio di Dio. Anche se dobbiamo riconoscere con Guido Rossi che "oggi dal punto di vista storico la tesi di Weber è defunta. Il capitalismo europeo nacque in casa nostra, sulle rive del Mediterraneo, non in Olanda o nel New England come credeva Weber" (intervista a "la Repubblica", 7 aprile 2004) .
Bisogna ammettere che rimane l'insegnamento più interessante di Weber: "l'idea della centralità del sistema di credenze. Questo vale, tra l'altro, non solo per l'etica protestante ma anche per quella del samurai o del confucianesimo. C'è una base comune nelle società che si sono mostrate più adatte alla fioritura del capitalismo, ed è appunto l'esistenza di una forte etica del lavoro, un insieme di regole collettive accettate e rispettate che agevolano il meccanismo di accumulazione della ricchezza"[2].
Il Cattolicesimo, quindi, non risulta un fattore frenante per lo sviluppo economico anzi, dove veramente praticato, può favorirlo. A sostegno di queste tesi non si può non considerare il grande industriale cattolico Alessandro Rossi, fondatore delle Lane Rossi, la prima SPA della storia italiana. Egli sviluppa delle teorie diverse rispetto a quelle maggiormente diffuse nell' ‘800 italiano, rappresentate dal capo del movimento cattolico e professore di Economia Politica all'Università di Pisa, Giuseppe Toniolo. Rossi polemizza con le idee di Toniolo sostenendo che il moderno sistema di produzione non permetta più l'esistenza delle vecchie corporazioni e pratiche religiose medievali. Rossi inoltre polemizzava con la Chiesa cattolica di allora, perché riteneva che non fosse in grado di aprirsi alle nuove esigenze della classe operaia: avere un lavoro, avere i diritti fondamentali, una casa e un po' di profitto. La Chiesa cattolica inizialmente non fu in grado di guadagnarsi la classe operaia, che fu invece conquistata dai nascenti movimenti socialisti[3]. Il Cattolicesimo americano, invece, non si arroccava su posizioni medioevali, ma era maggiormente lungimirante: i vescovi consideravano le officine e le fabbriche estremamente positive; questo è il motivo per cui negli Stati Uniti non c'è mai stato un partito socialista: i lavoratori si sono sentiti protetti dalla religione dalla Chiesa cattolica.
Solo con la Rerum Novarum di Papa Leone XIII si ha, finalmente, una apertura della chiesa cattolica alla cosi detta "questione sociale". L'intervento di Leone XIII, che raccoglie il frutto di quasi un cinquantennio di studi, riflessioni e discussioni in ambito cattolico, segna una svolta nella posizione cattolica nei confronti della questione sociale. L'insegnamento del Papa si può riassumere in quattro punti essenziali:
1) è ribadito il diritto naturale della proprietà privata, ma ne è sottolineata anche la funzione sociale;
2) è attribuito allo Stato il compito di promuovere la prosperità pubblica e privata, con il netto superamento dell'assenteismo statale tipico del liberismo, ma all'azione statale sono posti dei limiti, dovuti al carattere di supplenza del suo intervento;
3) il Papa ricorda agli operai i loro doveri nei confronti degli imprenditori, ma insieme afferma che ad essi, per stretta giustizia, è dovuto un giusto salario che permetta loro un tenore di vita che sia veramente umano, superando così una concezione puramente economica del lavoro;
4) infine il Pontefice condanna la lotta di classe, ma assieme afferma la necessità per i lavoratori di riunirsi per difendere i loro diritti, anche in associazioni formate esclusivamente da operai.
Quest'ultimo punto creò non poche difficoltà di interpretazione[4].
Per amor del vero, infine, dobbiamo anche citare le tesi di alcuni intellettuali che condannano lo sviluppo. Non di un certo tipo di sviluppo, identificabile magari con il liberismo più estremo; no, è proprio la condanna dello sviluppo in sé. Basta vedere la frequenza con cui compare sulle pagine di tanti media cattolici il pensiero di certi economisti, quali Serge Latouche, Wolfgang Sachs e Susan Gorge, o eco-catastrofisti come Lester Brown e Mathis Wackernagel, il teorico dell' "impronta ecologica".
Ciò che stupisce non è tanto il pensiero anti-sviluppo: in fondo non è nuovo e non è altro che la solita analisi marxista, che però deve fare i conti con il crollo e il fallimento dei regimi comunisti. Si ripropone così la solita equazione "sviluppo uguale neocolonialismo" oppure l'altrettanto nota "sviluppo uguale pochi sempre più ricchi e molti sempre più poveri"[5]. Quindi, come sostiene Latouche in Come sopravvivere allo sviluppo (Bollati Boringhieri, 2005), "lo sviluppo è la fonte del male" e "macchina per affamare i popoli". La ricetta, secondo Latouche, consiste dunque nell'abolizione "della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell'accumulazione illimitata del capitale"[6]. In estrema sintesi, sostiene Latouche, basterebbe essere tutti più poveri per evitare la miseria di tanti; così saremmo anche più felici, perché i beni che ci fanno felici non sono i prodotti da consumare.
[2] G. Rossi, Capitalismo opaco, Laterza Editore, Roma 2005, p. 113
[3] L. Avagliano, Giuseppe Toniolo ed Alessandro Rossi nella recente storiografia sul movimento cattolico, in Studi di storia sociale e religiosa. Scritti in onore di Gabriele De Rosa, a cura di A. Cestaro, Napoli, Ferraro, 1980, pp. 191-214
[4] Cfr. G. De Rosa, I tempi della Rerum Novarum, a cura di, Rubbettino Editore, 2002.
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