Economia


Valentino Vecchi

La gestione dell’impresa tra etica e responsabilità sociale

 

 

 

 

 

 

 

Sommario: 1. Introduzione; 2. Il rapporto tra etica ed economia; 3. I fondamenti teorici dell'etica aziendale e della responsabilità sociale di impresa; 4. Il rapporto tra etica e profitto; 5. Etica di impresa e responsabilità sociale di impresa: definizioni e differenze; 6. I vantaggi di una gestione etica; 7. Conclusioni.

 

 

 

 

1. Introduzione

Il presente lavoro si incentra sull'indissolubile legame che da sempre esiste tra etica ed economia e ripercorrere, seppur con la necessaria sintesi, il sentiero che ha condotto la dottrina aziendalista a riconoscere, in capo alle imprese, l'esistenza di una responsabilità sociale nonché il dovere di agire nel rispetto di valori e principi eticamente connotati.

A tal fine, non ci si potrà esimere dal tracciare i confini, per la verità molto labili e per nulla definiti, dei concetti di etica di impresa e responsabilità sociale di impresa, richiamando i principali contributi teorici che hanno portato detti concetti a divenire principi ispiratori di una sana gestione aziendale.

 

 

2. Il rapporto tra etica ed economia

La crisi globale[1] che oramai da anni affligge le economie di tutto il mondo ha ridato vigore al dibattito sul delicato rapporto tra etica ed economia, il cui ricongiungimento appare non più procrastinabile (Fiore e Vecchi, 2009). Prima ancora, però, di porsi l'obiettivo di giungere a modelli di sviluppo economico socialmente responsabili e fondati su valori etici, sembra doveroso ricordare che l'economia nasce, con l'Etica a Nicomaco di Aristotele, come scienza sociale e branca dell'etica: nell'ambito della filosofia teoretica medievale, l'etica, l'economia e la politica rappresentano saperi inscindibili che orientano l'agire individuale, nella casa e nella comunità (Niccoli, 1990). Mentre l'economia si occupa delle allocazioni di risorse scarse rispetto a preferenze e fini dati, l'etica valuta la "bontà" dei fini sociali e individuali e la "giustificabilità" delle scelte che, oggi più di prima, non possono più trascurare le evidenti distonie della disuguaglianza.

Il distacco dell'etica dall'economia trae origine, essenzialmente, dagli studi sull'efficienza delle scelte individuali e collettive che hanno offuscato e trascurato, nel tempo, l'analisi dei diritti umani e dei comportamenti sociali[2], determinando un progressivo processo di "economizzazione" dell'etica. In particolare, è possibile individuare almeno cinque fattori alla base del progressivo distacco che si è venuto a creare nel tempo tra etica ed economia:

a) errata e insufficiente interpretazione di assunzioni alla base di modelli e teorie economiche. Alla base dell'allontanamento dell'economia dall'etica (e viceversa), vi è, in primo luogo, l'interpretazione, spesso superficiale[3], del pensiero smithiano, che ha portato alla teorizzazione dell'esistenza di comportamenti autointeressati solo alla massimizzazione di benefici economici in termini di efficienza in un mercato normativo e regolatore assurto a deus ex machina, onde giustificarne successi e fallimenti. L'agire economico, quindi, sarebbe di per sé stesso etico in quanto orientato al benessere e determinerebbe l'identità tra obiettivi economici individuali e sociali. L'errata applicazione del pensiero smithiano è stata certamente favorita dall'insufficiente analisi, particolarmente durante l'ultimo secolo, del comportamento umano nelle attività di tipo economico[4]: concetti dominanti nella teoria economica quali quello di homo oeconomicus (sviluppato soprattutto dagli economisti politici e che riporta ai principi smithiani di comportamento razionale e massimizzante profitti e utilità degli individui) e di human resource (che deriva dal business management) hanno omologato gli esseri umani a macchine con stessi desideri e bisogni, negandogli l'identità di soggetti capaci di agire moralmente e nella loro specifica dignità[5];

b) sviluppo dell'etica utilitaristica. Con Jeremy Bentham (1781) prima e John Stuart Mill (1848) dopo, prende consistenza l'"utilitarismo" quale particolare teoria etica volta a ritenere "giusto" qualsiasi comportamento che rende massimo il benessere sociale, determinato quale sommatoria della felicità - misurata in termini di "utilità" - dei singoli individui[6]. Secondo tale impostazione, l'utilità è una misura cardinale della felicità ed è quindi aggregabile mediante l'operazione di somma[7]. L'utilità, in tale ottica, diventa il perno del ragionamento etico, mentre la valutazione morale di un atto è ricondotta alla sua capacità di produrre felicità o piacere, senza alcuna aprioristica connotazione negativa. Per entrambi gli autori[8] l'utilitarismo, proprio per la sua agevole applicazione, diventa un principio guida della condotta umana in ambito economico, giuridico e politico, sfere dell'agire umano per le quali, quindi, si legittima l'indipendenza dal giudizio morale[9];

c) sviluppo di modellizzazioni matematiche per l'interpretazione dei fenomeni economici. L'interpretazione dei fatti economici avviene, sin dagli studi di Walras, attraverso strumenti di analisi fondati su modelli matematici in cui non trovano spazio diversità di comportamento e valutazioni di natura etica. In tal senso, l'economia positiva[10] sembra aver eluso, soprattutto nel corso dell'ultimo secolo, l'analisi normativa, finendo per trascurare l'influenza delle considerazioni di natura etica relative al comportamento e al giudizio umano, favorendo così il distacco dell'economia dall'etica;

d) autorevolezza e autoreferenzialità delle scienze. Nel ‘900 il susseguirsi continuo ed esponenziale di scoperte e invenzioni scientifiche ha determinato la contestuale perdita di rilevanza del sapere filosofico. Lo sviluppo scientifico, in cui ogni interferenza etica o tentativo di giudizio critico è letto e interpretato come intrusione, è progredito in assenza di quella verifica morale che solo negli anni più recenti si sta tentando di recuperare.

e) il funzionalismo della società. A causa del tramonto delle grandi concezioni metafisiche-religiose e delle ideologie rivoluzionarie e utopiche (che avevano caratterizzato il primo dopoguerra), la società si evolve lungo due percorsi diversi: di differenziazione in innumerevoli sotto sistemi e di individualizzazione, nel quale interessi e bisogni individuali sono in netta posizione di supremazia rispetto alla dimensione sociale e comunitaria. Se prima, nelle società arcaiche, polis, tribù e famiglie rappresentavano il fulcro del sistema in un tutto organico con l'uomo (che non viveva di vita propria al di fuori di tali piccoli aggregati), adesso l'uomo è a latere e non rappresenta più una misura della società (Luhmann, 1990).

Ma se il progressivo allontanamento dell'economia dall'etica ha radici lontane e ben identificabili, il necessario ricongiungimento parte dalla storia dell'ultimo secolo.

Con la Grande Crisi del 1929-'39, il tecnicismo e il rigore strumentale della nuova Economia del Benessere e l'inadeguatezza delle formulazioni paretiane portarono ad una significativa crisi dell'economia neoclassica (di mercato o marshalliana) e marginalista, favorendo lo sviluppo della "filosofia sociale collettiva" di Keynes e del Welfare State di Beveridge, una riqualificazione dell'intervento dello Stato necessaria per l'impossibilità del meccanismo del libero mercato di raggiungere e garantire l'equilibrio, la stabilità monetaria e la piena occupazione.

Successivamente, negli anni '70, gli shock petroliferi e delle materie prime, il crollo del sistema monetario internazionale e la contemporanea presenza di inflazione e disoccupazione determinarono il fallimento delle teorie keynesiane, incapaci di affrontare problemi a carattere distributivo dai risvolti etico-morali (Niccoli, 1990).

Tutti questi input hanno dato una svolta al processo di cambiamento delle teorie - fino ad allora dominanti - per le quali l'obiettivo prioritario era l'efficienza, mentre un ruolo subordinato assumeva l'equità; teorie in cui "gli ineludibili problemi dell'interdipendenza in gioco nella valutazione dei diritti in seno a una società" non sono considerati (Sen, 2002) [11].

E' in questo scenario che in ambito economico nasce un nuovo ambito di ricerca denominato "Economia e Felicità" (Easterlin, 2001; Frey e Stutzer, 2006; Kahneman e Krueger, 2006; Di Tella e McCulloch, 2006). Come già propugnato dal "paradosso della felicità" di Easterlin (1974), non è possibile asserire che al crescere del reddito pro-capite l'indice di benessere soggettivo medio (SWB) assume sempre un andamento crescente; talvolta tale indicatore rimane costante e, in talune osservazioni, evidenzia un andamento addirittura decrescente. Ne consegue che maggior reddito non significa necessariamente maggior benessere e felicità[12] (Galbraith K., 1958; Frank, 1999; Diener e Oishi, 2000) [13].

Prende sempre maggior consistenza, quindi, la consapevolezza che l'economia, seppur disciplina scientifica, "è legata contemporaneamente all'etica e alla razionalità" (Husman e McPherson, 1994). In tal senso, McCoy (1985) chiarisce che l'etica, lungi dall'essere solo un rigido insieme di regole, deve essere intesa come "una continua riflessione sul significato delle azioni...persone e organismi economici non possono non essere chiamati ad acquisire coscienza di svolgere costantemente tale riflessione".

Qualsiasi comportamento umano (anche economico) richiede una valutazione etica; qualsiasi teoria economica, il cui fascino è proprio quello di "non essere mai esclusivamente economica" (Ricossa, 1988), postula una direzione entro la quale muoversi resa più efficiente, in termini di obiettivi, da comportamenti corretti. La scienza economica, dunque, non può procedere da sola, senza il contributo dell'etica o meglio il connubio con l'etica[14], "dal momento che è ormai ai più chiaro che le teorie economiche non sono strumenti neutrali...sono anche, direttamente e indirettamente, strumenti di modificazione degli assetti economici e sociali esistenti" (Zamagni, 1994).

E' su tale presupposto che alla crescente consapevolezza dell'interdipendenza esistente tra etica ed economia si accompagna, inevitabilmente, il recupero della centralità della società: per l'armonizzazione dei pluridiversificati interessi in gioco, non si può non considerare che la comunità non è un semplice aggregato di individui, bensì un corpus strutturato che influenza le relazioni tra gli individui (Etzioni, 1981); "nelle formazioni sociali artificiali, in cui gli uomini hanno rapporti con gli altri uomini, l'intelligenza deve unirsi alla moralità, perché quest'ultima è l'anima della sua esistenza" (Jonas, 1990).

La letteratura egualitaria di fine secolo giunge, quale massima espressione del percorso seguito, ad accordare un ruolo particolarmente importante al principio di responsabilità: sorge un'insolita "responsabilità" verso l'ambiente naturale e umano, una responsabilità etica e ontologica verso le generazioni future e svaniscono le certezze sul modello di sviluppo fondato sull'euforia del sogno "faustiano".

In tale contesto, Hans Jonas (1990), prima di altri, propone di delineare un'etica globale ontologica, diretta e "costruita" per il benessere dell'umanità, minato dalla civiltà tecnologica, attraverso la strutturazione di un modus agendi "compatibile con la continuazione di una vita autenticamente umana". Grazie ai suoi studi filosofici e teologici, Jonas ha sviluppato una originale filosofia della natura e dell'ecologia fondata sul principio di responsabilità quale valore portante delle azioni di oggi per un domani possibile.

L'economia, al termine di evoluzioni teoriche durate svariati secoli, recupera la sua componente etico-sociale.

 

 

3. I fondamenti teorici dell'etica aziendale e della responsabilità sociale di impresa

Chiarito che il ricongiungimento tra valori etici e principi economici rappresenta, oramai, un'improcrastinabile esigenza, non vi è dubbio che il raggiungimento di tale ambizioso obiettivo impone una profonda riflessione sui comportamenti imprenditoriali e sulle condotte manageriali essendo, le imprese, il cuore pulsante di qualsiasi economia.

Ma perché le imprese dovrebbero assumere condotte etiche e socialmente connotate? Tali condotte vanno assunte anche a scapito dell'obiettivo, tipico dell'imprenditore, della massimizzazione del profitto? Quali sono i benefici, per l'impresa e per l'imprenditore, dell'assunzione di comportamenti etici e socialmente rilevanti?

L'analisi, essendo finalizzata a comprendere se ed entro quali limiti sia giusto attribuire alle imprese una responsabilità sociale ed etica, deve necessariamente partire dalla rivisitazione della stessa nozione di impresa, sempre più lontana da una visione arcaica -  benché sostenuta con vigore da autorevolissima dottrina (Friedman, 1962, 1970[15]; Jensen e Meckling, 1979; Sternberg, 1994) - tesa a considerare l'impresa come semplice strumento per il raggiungimento del profitto quale remunerazione del capitale investito dalla proprietà. Oggi, invero, è sostanzialmente condivisa l'idea che l'impresa assume una rilevanza sociale in quanto centro di legittime aspettative maturate da una pluralità di stakeholder[16]. L'impresa, infatti, secondo una visione più moderna, è concepita anzitutto quale sistema di relazioni che si vengono ad instaurare tra una molteplicità di soggetti - definiti appunto stakeholder - ciascuno portatore di propri interessi e specifiche aspettative. E' proprio la gestione di questo complesso sistema di relazioni, spesso basate su interessi divergenti se non conflittuali, che richiede, quale criterio guida, l'adozione di principi e valori etici volti a definire il corretto equilibrio tra gli interessi in gioco. Pertanto, la concezione dell'impresa come "sistema economico e sociale, a cui prende parte una pluralità di attori, che deve essere guidato in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi economici e responsabilità sociali" (Sciarelli, 2002), ampliando il sistema degli interlocutori da considerare, attribuisce nuove responsabilità all'impresa che, nella gestione delle relazioni che si vengono ad instaurare tra i diversi portatori di interesse, è chiamata ad assumere, in virtù dell'applicazione di valori e principi etici, decisioni giuste ed equilibrate che consentano di raggiungere un opportuno bilanciamento tra gli interessi dei diversi stakeholder. Seguendo tale approccio, una definizione di impresa più moderna e attuale è quella proposta da Post, Preston e Sachs (2002), che definiscono l'impresa quale "organizzazione impegnata ad impiegare risorse per attività produttive allo scopo di creare ricchezza e altri vantaggi per la molteplicità dei suoi costituenti o stakeholder".

E' dunque anzitutto alla teoria degli stakeholder (Freeman, 1984) che occorre fare riferimento per comprendere l'importanza dell'introduzione, nella gestione di impresa, di valori etici e di responsabilità sociale. Invero, il problema della condotta etica del management era già implicito negli studi sulla teoria dell'agenzia (Williamson, 1975; Jensen e Meckling, 1976), sebbene limitata ai rapporti tra la proprietà (principal) e il management (agent)[17].

La prima teoria organica[18], incentrata sull'analisi dei rapporti tra l'impresa e le differenti categorie di stakeholder, è attribuibile a Freeman, per il quale gli stakeholder sono tutti quei soggetti "che abbiano diritti, interessi o rivendicazioni verso un'azienda o che, comunque, ne possano influenzare la performance attuale e futura" (Freeman, 1984)[19].

Secondo questo approccio l'impresa, quindi, può essere vista come un complesso sistema di relazioni tra gruppi di interesse con differenti diritti, obiettivi, aspettative e responsabilità, la cui sopravvivenza e il cui successo dipendono dalla capacità del management di creare e distribuire valore a tutti gli stakeholder. Dunque, "la condotta morale diventa un imperativo per le imprese che desiderano fondare la loro sopravvivenza e il loro sviluppo sulla corretta amministrazione dei rapporti con gli stakeholder" (Sciarelli, 2007).

La visione sociale dell'impresa comporta un inevitabile allargamento delle istanze a questa rivolte e quindi una maggiore richiesta di socialità nella gestione che, a sua volta, genera un nuovo "modo di governare" (Bestini, 1984). L'evoluzione fondamentale della teoria dell'impresa, dunque, è segnata dal passaggio dalla visione imprenditoriale a quella sociale dell'impresa stessa. In tal senso, secondo Bartels (1967) "l'attività di un'impresa può essere intesa come un processo sociale all'interno del quale si viene a realizzare un processo economico".

Il descritto cambiamento di prospettiva, da una visione volta a riconoscere gli interessi della proprietà quale obiettivo prioritario della gestione di impresa ad una visione multi-relazionale, in cui l'interesse di ciascuno stakeholder diviene meritevole di tutela, segna il passaggio da una finalità di impresa volta alla creazione e diffusione del valore (Guatri, 1991) alla finalità della creazione (e diffusione) del valore in senso allargato (Sciarelli, 2002), ossia rivolta a tutti gli stakeholder aziendali.

Dunque l'essenza dell'imprenditorialità non può più riconoscersi nella sola finalità di massimizzazione del profitto: secondo la teoria del successo sociale (Sciarelli, 1997) l'imprenditore, soprattutto quello "visibile", punta ad acquisire una posizione di prestigio il cui raggiungimento richiede, inevitabilmente, l'implementazione di condotte che siano socialmente ed eticamente connotate.

Ma se il raggiungimento del prestigio da parte dell'imprenditore può spiegare la volontaria adozione di condotte etiche e socialmente responsabili, è su un piano diverso che occorre ragionare per arrivare a riconoscere una responsabilità sociale in capo alle imprese.

In tal senso occorre anzitutto osservare che un'azienda svolge una funzione sociale per il fatto stesso di esistere, di essere composta da uomini e di porsi in relazione con l'esterno. I concetti di fondo sui quali si giustificano la responsabilità e il ruolo sociale dell'impresa sarebbero, quindi, essenzialmente due. Da un lato l'azienda, una volta creata, diviene patrimonio di tutti coloro che, direttamente e indirettamente, vi partecipano: essa finisce così per trascendere la proprietà e, se economicamente valida, raggiunge la legittimazione[20] a sopravvivere indipendentemente dal volere della stessa proprietà. Dall'altro l'azienda è responsabile verso la comunità, a cui addossa dei costi e verso cui assume dei doveri da soddisfare per bilanciare i primi[21].

Importante contributo in questa direzione è giunto dalla teoria del contratto sociale del Donaldson (1982): l'autore, adattando alle imprese le argomentazioni sostenute già da decenni da importanti contrattualisti quali Hobbes, Locke e Rousseau, attribuisce alle imprese un diritto/dovere di cittadinanza[22]. Le imprese, al pari delle persone fisiche, utilizzano le risorse che la società mette a loro disposizione sostenendo dei costi che in linea di massima risultano inferiori al valore di cui beneficiano e, per questo, assumono l'obbligo di contribuire a risolvere i problemi sociali (Bowie, 1991)[23]. Si può sostenere, dunque, che "all'impresa viene sempre più insistentemente richiesto di perseguire finalità economiche socialmente qualificate e di concorrere alla salvaguardia ambientale" (Sciarelli, 2007). In tal senso, sembrano non più attuali le tesi volte ad attribuire all'impresa un ruolo sociale per la semplice generazione del profitto. Finché il contesto sociale consentiva all'azienda di occuparsi unicamente degli interessi degli stockholder, l'unica responsabilità sociale impostale era quella di conformarsi ai limiti derivanti dal rispetto della legalità. Dal momento che, invece, è diventato necessario agire in termini di stakeholder management nel risolvere gli inevitabili conflitti tra i vari gruppi di interesse, l'assunzione di decisioni che entrano nell'ambito della responsabilità sociale d'impresa sono divenute un problema di importanza strategica.

La condotta aziendale, pertanto, deve ispirarsi ad un principio di solidarietà, per il quale l'impresa deve contribuire alla soluzione dei problemi della comunità in cui è inserita e ad un principio di fiduciarietà, per il quale l'impresa, amministrando risorse di tutti gli stakeholder, deve agire nell'interesse generale (Post, Frederick, Lawrence e Weber, 1996). "L'assolvimento della responsabilità sociale, d'altro canto, costituisce un riscontro primario per l'etica d'impresa che, nei suoi profili di correttezza, giustizia ed equità, deve puntare all'interesse generale di tutti gli stakeholder ovvero ad esigenze di socialità" (Sciarelli, 1999).

A questo punto occorre porsi un interrogativo che deve servire ad introdurre con maggiore convinzione l'etica nella gestione d'impresa: come può l'impresa trovare il giusto equilibrio tra interessi talvolta profondamente divergenti? La risposta è, ancora una volta, da ricercare nella condotta etica del management che, nel proprio agire, deve ricercare quell'equilibrio dinamico tra interessi diversi che consente all'impresa di sopravvivere nel tempo[24].

Ovviamente, la semplice presa di coscienza di un sistema multi-stakeholder non basta a ritenere che il governo dell'impresa sia necessariamente un governo etico (Goodpaster, 1991). Ancora in tempi recenti, infatti, clamorosi crack finanziari con rilevanti ricadute sociali sono la dimostrazione di condotte manageriali che, lungi dall'essere etiche, risultano addirittura illegali. Allora il discorso deve spostarsi sulla relazione esistente tra principi etici e norme di legge, in modo da capire se basta il semplice rigoroso rispetto della legge per consentire l'introduzione dell'etica nella gestione delle imprese.

Sebbene nelle norme di legge siano ravvisabili componenti etiche di base, ciò non consente di affermare che il rispetto di leggi e regolamenti sia di per sé sufficiente ad assicurare comportamenti eticamente corretti, i quali di norma incorporano, ma talvolta prescindono dagli aspetti prettamente giuridici. La legge, cioè, non interviene nelle questioni etiche; le sue fattispecie astratte riguardano per lo più quelle ipotesi di violazioni "gravi" che si risolvono spesso in un pregiudizio altrui[25].  Se la vera "fonte legittimante" dell'attività d'impresa risiede nello svolgimento della sua intrinseca funzione sociale, e se è l'etica a garantirne il corretto assolvimento, allora la stretta osservanza delle leggi sarebbe di per sé inadeguata ad assicurare all'impresa quell'indispensabile "diritto di cittadinanza" che si pone ormai "come precondizione che porta all'esistenza dell'impresa stessa e, al medesimo tempo, come l'attributo che ne assicura la sopravvivenza" (Sciarelli, 1999).

La normativa, in tal senso, definisce i principi minimi da rispettare per il benessere della società, il livello minimo di condotta etica, ma non indica quale sia o quale potrebbe essere il comportamento più desiderabile (Cavanagh, 1987). Infatti, non esistono sanzioni legali esplicite per la mancanza di un orientamento all'eccellenza o dell'assunzione di responsabilità addizionali[26], ma il giudizio dell'opinione pubblica e del mercato può risultare ancora più penalizzante di semplici sanzioni economiche[27]. In tale prospettiva, l'etica rappresenta la via per la ri-legittimazione[28] sociale delle imprese.

 

 

4. Il rapporto tra etica e profitto

Compreso che l'evoluzione del concetto di impresa porta ad attribuirle delle responsabilità sociali e un dovere di comportamento etico, occorre capire fino a che punto si estendono questi doveri.

Il ragionamento non può che partire da una doppia constatazione. La prima è rappresentata dall'esigenza, da parte dell'impresa, di mantenere un equilibrio economico funzionale alla sua stessa sopravvivenza. Un'impresa che produce perdite non genera utilità per la collettività ma, anzi, finisce per addossarle i propri costi. Non è quindi legittimata a sopravvivere, sebbene considerazioni di ordine diverso portano in alcuni casi a mantenere artificialmente in vita aziende senza una propria autonomia economica.

La seconda considerazione rappresenta una presa di coscienza: l'adozione di condotte etiche e socialmente responsabili ha una rilevante incidenza sul conto economico delle imprese. Da qui nasce l'esigenza di capire fino a che punto le imprese risultino obbligate a tenere determinati comportamenti che, al limite, potrebbero comprometterne la stessa sopravvivenza. In pratica, le imprese sono costrette a mantenere condotte pienamente etiche e socialmente responsabili anche quando il vincolo di bilancio non lo consente?

La risposta va ricercata, in primo luogo, nel rapporto che intercorre tra etica e regolamentazione, la quale rappresenta il livello minimo di eticità delle condotte manageriali. Neanche in virtù di una presunta sopravvivenza le imprese possono assumere condotte contra legem. Ma se il rispetto della legge definisce solo il livello minimo di eticità delle condotte manageriali occorre capire qual è il livello massimo e come è possibile arrivarci.

Tra i contributi più autorevoli volti a definire le diverse dimensioni della responsabilità del management occorre segnalare quelli di Carroll (1979, 1991), che giunge ad elaborare una definizione quadripartita di responsabilità sociale con la quale cerca di conciliare l'esigenza di obiettivi sia economici sia sociali, statuendo che la responsabilità sociale include le aspettative economiche, legali, etiche e discrezionali della società nei confronti delle imprese in un determinato momento storico.

L'autore riconosce che l'impresa ha quattro tipi di responsabilità, intese in senso gerarchico:

§  responsabilità economiche di creazione del valore;

§  responsabilità giuridiche legate, appunto, al rispetto della normativa;

§  responsabilità etica, legata alle conformità ai valori e alle norme sociali e all'obbligo dell'impresa di agire con equità, giustizia, imparzialità;

§  responsabilità discrezionale, che implica investimenti puramente volontari a favore della comunità.

Le prime due definiscono da un lato il vincolo di bilancio dell'impresa e dall'altro il livello minimo di correttezza delle condotte aziendali che non possono in nessun caso contravvenire alla legge.

La responsabilità economica, quindi, si pone quale precondizione indispensabile per qualsiasi considerazione di equità sociale e di etica nel comportamento aziendale, anche perché in mancanza di un durevole equilibrio economico la vita aziendale è destinata ad estinguersi.

Ha senso chiedere all'impresa di farsi carico di problemi sociali solo in quanto essa riesca ad inserire il suo impegno sociale in un disegno strategico coerente, dotato di una sua validità sul piano economico, e perciò capace di assicurare la funzionalità e lo sviluppo duraturo dell'impresa.

Seguendo un altro approccio (Sciarelli, 2007), è possibile sostenere che la responsabilità sociale di impresa si compone di un presupposto, un corollario, un complemento e un'opzione.

Il presupposto è determinato dalla responsabilità economica dell'impresa, ossia dall'esigenza che la gestione sia in grado di garantire sempre il rispetto dell'equilibrio economico, senza il quale l'impresa non sarebbe legittimata ad esistere. L'impresa, dunque, deve anzitutto creare valore (in senso economico) agendo pur sempre nel rispetto delle leggi vigenti.

Il corollario è insito nella stessa funzione di impresa (secondo le concezioni più moderne richiamate in precedenza), che le attribuisce una responsabilità sociale volta all'equa distribuzione tra i vari stakeholder del valore creato dalla gestione aziendale. È già a questo livello che l'etica di impresa assume la sua massima valenza in quanto unica via per ricercare il giusto equilibrio tra interessi inevitabilmente differenti e divergenti. Per distribuire il valore creato tra tutti gli stakeholder (il richiamo è ovviamente alla teoria di creazione del valore in senso allargato - Sciarelli, 2002) è necessario capire qual è il giusto prezzo di vendita dei prodotti o servizi, qual è la giusta retribuzione dei lavoratori, qual è il giusto compenso da riconoscere ai finanziatori e così via. Sembra evidente che la definizione di una delle citate dimensioni, direttamente riferibile all'interesse di una specifica categoria di stakeholder, finisce per condizionare la determinazione delle altre in quanto tutte legate da una ineliminabile logica sistemica. E' già a questo livello, quindi, che l'applicazione di principi etici nel governo di impresa diviene irrinunciabile via per raggiungere il giusto equilibrio tra interessi differenti e divergenti. Solo un imprenditore etico può decidere di sacrificare parte del profitto aziendale per garantire ai lavoratori un salario maggiore a quello garantito dalla normativa; può accettare di contenere il prezzo dei propri prodotti pur essendo in una situazione di mercato tale da poterli aumentare per conseguire un profitto maggiore; può decidere di non esercitare il proprio potere contrattuale nei confronti dei fornitori per imporre condizioni di scambio vessatorie e via discorrendo.

Il complemento è definito dalla responsabilità comunitaria, volta da un lato ad evitare il più possibile di produrre esternalità negative che danneggerebbero l'ambiente circostante, dall'altro a contribuire a risolvere i problemi della comunità di riferimento. Sembra evidente che la responsabilità comunitaria, involgendo comportamenti che non possono considerarsi imposti dalla legge, presuppone l'esistenza di un solido equilibrio economico da parte dell'impresa. La responsabilità comunitaria, quindi, non può attribuirsi alle imprese che sopravvivono, ma solo a quelle che vivono, solo a quelle, cioè, che se lo possono permettere in considerazione di un solido equilibrio economico-finanziario.

Vi è infine l'opzione, ossia la responsabilità filantropica che pone in capo all'impresa non un vero e proprio obbligo ma una discrezionalità di intervento a favore della collettività. Secondo alcuni autori (McAlister, Ferrell e Ferrell, 2005) la responsabilità filantropica non dovrebbe essere intesa unicamente come impegno a sostenere finanziariamente determinate iniziative, ma dovrebbe concretizzarsi nella filantropia strategica, ossia nella messa a disposizione della comunità anche di proprie competenze e risorse organizzative. In tal modo l'impresa, a fronte del costo sostenuto per la cessione o la messa a disposizione di terzi di proprie competenze e risorse otterrebbe un ritorno di immagine che, in qualche modo, risulterebbe legittimo nell'ottica dello stesso legame tra etica ed economia di cui si sta discorrendo: se l'economia deve essere etica e socialmente responsabile, non è detto che l'etica e la responsabilità sociale non possano determinare ritorni economici in favore dell'impresa.

Per quanto fin qui detto, sembra chiaro che la responsabilità dell'impresa verso comportamenti etici e socialmente responsabili è soggetta a precise condizioni quali (Post, Frederick, Lawrence e Weber, 1996):

v  esigenza di non darsi carico di problemi sociali a cui sono istituzionalmente deputati altri organismi (come la famiglia, le istituzioni sociali o gli organi governativi)[29];

v  esigenza di incorrere in costi sopportabili, senza compromettere l'equilibrio economico di lungo periodo e senza pregiudicare la continuità dell'impresa;

v  evitare che l'assunzione di decisioni socialmente utili possa porre in pericolo l'efficienza operativa dell'organizzazione[30];

v  la quarta condizione, infine, si correla all'ampiezza e complessità dei problemi sociali da affrontare, che non potrebbero essere soddisfatti nemmeno dall'impresa più eticamente orientata e, quindi, si sostanzia nella necessità di porre comunque dei confini agli sforzi che l'impresa è tenuta a profondere in tali ambiti.

 

 

5. Etica di impresa e responsabilità sociale di impresa: definizioni e differenze

Finora si è parlato in maniera quasi indifferente di etica di impresa e responsabilità sociale di impresa trattandosi di aspetti, dell'agire imprenditoriale, estremamente interconnessi la cui precisa distinzione generalmente non rileva dal punto di vista pratico. Ciò nonostante, e sebbene anche ai fini della presente analisi non assuma particolare rilievo la rigorosa distinzione tra tali espressioni, sembra opportuno provare a definire i confini di tali due dimensioni della vita di impresa.

Per quanto attiene alla definizione dell'etica aziendale occorre anzitutto considerare che l'etica rappresenta la "scienza della condotta"[31], in quanto detta le regole morali da seguire nell'assunzione delle scelte e dei comportamenti[32]. Partendo da tale definizione è possibile sostenere che "l'etica aziendale è il complesso dei valori capace di conciliare, in modo più equo e durevole, interessi interni ed esterni all'impresa. L'etica sarebbe, pertanto, un elemento integrativo (rispetto all'economica), da utilizzare nella composizione di tali interessi in una visione di lungo termine dell'attività aziendale" (Sciarelli, 2007, p.68).

In pratica, l'etica aziendale è rappresentata dall'insieme di valori che devono porsi alla base dei processi decisionali affinché qualsiasi azione posta in essere dall'impresa determini un equo bilanciamento degli interessi, generalmente diversi e sovente divergenti, coinvolti. Ovviamente l'equilibrio da ricercare nel bilanciamento degli interessi dei diversi stakeholder va perseguito nell'ottica del lungo periodo, essendo l'impresa, per sua natura, un'entità volta, almeno in linea teorica, a perdurare nel tempo. La stessa finalità di sopravvivenza nel tempo dell'impresa determina, altresì, la necessità di un'etica di impresa "economica", ossia sempre e comunque rispettosa dei vincoli di bilancio dell'impresa. E' pertanto necessario - affinché dalle teorie etiche si passi all'etica aziendale - tenere conto dell'esigenza di mantenere comunque un corretto equilibrio tra costi e ricavi e tra obiettivi economici e sociali; considerare la pluralità e multiformità degli aspetti da valutare per ciascuna decisione da assumere; avere presente le inevitabili interdipendente tra le decisioni da assumere.

L'etica di impresa, quindi, rappresenta un'etica derivata, relativa, e condizionata. E' derivata in quanto è funzione sia dei valori etici e morali delle persone che lavorano nell'impresa, sia della cultura organizzativa e dei valori aziendali sedimentatisi nel tempo. In riferimento al primo aspetto, è forse più corretto parlare di "etica nell'impresa" che di "etica di impresa". Mentre la prima espressione fa riferimento al sistema di valori etici propri di chi opera per l'azienda, sistema di valori che in ogni caso non dovrebbe mai porsi in contrasto con le norme di comportamento statuite dai vertici aziendali, con l'espressione "etica di impresa" si tende ad identificare quel sistema di valori propri dell'impresa, determinato dai valori etici dell'imprenditore o comunque del top management, in quanto adottati da tutti i soggetti che in essa e per essa operano. Posta in tal senso la differenza tra le due diverse espressioni, sembra chiaro che l'etica di impresa rappresenta un obiettivo quasi impossibile da raggiungere, essendo il comportamento aziendale per lo più determinato dagli specifici valori di chi per essa opera, valori che, seppur eticamente connotati, difficilmente caratterizzano alla stessa maniera il comportamento di tutti i soggetti che operano per l'impresa.  

Il carattere della relatività è diretta conseguenza di quello della derivazione. L'etica di impresa è relativa perché risente dei valori morali dell'ambiente di riferimento; è quindi relativa ad uno specifico contesto storico ed economico. Il carattere della relatività fa sì che l'etica di impresa sia essenzialmente dinamica risentendo dell'evoluzione del contesto di riferimento.

Infine, richiamando quanto già detto, l'etica di impresa è condizionata al rispetto del vincolo di bilancio. Non è lecito aspettarsi dall'impresa l'assunzione di condotte che vadano oltre a quanto prescritto dalla legge se ciò ne comprometterebbe la sopravvivenza. E' quindi possibile affermare che "il vero problema per l'imprenditore e il manager non è dunque se introdurre o no l'etica nell'impresa, ma quello di individuare le modalità secondo cui quest'ultima possa essere rispettata senza minacciare i fondamentali equilibri economici, patrimoniali e finanziari" (Sciarelli, 2007, p.83).

In virtù delle richiamate caratteristiche, i confini dell'etica di impresa appaiono mobili, in quanto devono necessariamente adattarsi al contesto di riferimento, al vincolo di bilancio e alla struttura organizzativa dell'impresa.

In definitiva, non vi è dubbio che l'etica applicata al mondo delle imprese si differenzi da un'etica di tipo più generale, dove taluni principi tendono ad assumere una valenza incondizionata.

Per quanto attiene alla responsabilità sociale di impresa (o corporate social responsibility), una prima definizione la diede già nel 1953 Bowen, per il quale "it refers to the obbligations of businessmen to pursue those policies, to make those decisions or to follow those lines of action which are desirable in terms of the objectives and values of our society".

Dalla metà del secolo scorso ad oggi il concetto di responsabilità sociale di impresa si è evoluto in considerazione della crescente attenzione rivolta verso uno sviluppo sostenibile dell'economia, assumendo una dimensione sempre più globale, tant'è che anche la Commissione Europea, nel Libro verde realizzato nel luglio 2001, ha provveduto a fornire una propria definizione di responsabilità sociale quale "integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate".

Ritenendo sostanzialmente poco utile, ai fini del presente contributo, l'analisi delle innumerevoli definizioni di responsabilità sociale di impresa presenti in letteratura[33], è possibile limitarsi alla definizione proposta da Molteni (2004), per il quale "per responsabilità sociale di impresa si intende la tensione dell'impresa - e, dunque, in primis dei vertici aziendali - a soddisfare in misura sempre crescente, andando al di là degli obblighi di legge, le legittime attese sociali e ambientali, oltre che economiche, dei vari portatori di interesse (o stakeholder) interni ed esterni, mediante lo svolgimento delle proprie attività". La responsabilità sociale di impresa, così definita, proponendo un approccio multi-stakeholder alla gestione di impresa, rappresenta il superamento di quelle posizioni, a lungo propugnate (Friedman, 1962, 1970; Jensen e Meckling, 1979; Sternberg, 1994), per le quali l'unico obiettivo dell'impresa eticamente connotato è la generazione di profitto per gli azionisti[34]: un'impresa che destinasse risorse in favore di stakeholder diversi dalla proprietà assumerebbe un atteggiamento irresponsabile. Secondo tale approccio, la soddisfazione degli interessi degli stockholder, ottenuta operando nel rispetto delle leggi vigenti, rappresenta l'unica responsabilità del management che, viceversa, non deve preoccuparsi di dare risposte a questioni di carattere sociale che non appartengono alle imprese. In tal senso, l'adozione di principi etici nella gestione aziendale può giustificarsi quando si sostanzia in una sorta di "egoismo illuminato" (Di Toro, 1993), quando cioè, per effetto dei benefici connessi al virtuosismo aziendale, favorisce il conseguimento di risultati economici positivi.

Si è già avuto modo di illustrare come questa concezione di impresa abbia oramai lasciato spazio ad una visione di impresa più moderna, in cui l'assunzione di una responsabilità sociale non può rappresentare un corollario, bensì un elemento strutturale della vita dell'impresa che, nelle normali decisioni aziendali, crea o distrugge valore per ciascuna tipologia di stakeholder con cui entra in contatto. E' dunque per lo stesso sviluppo dell'impresa che la soddisfazione delle attese socio-ambientali (oltre che economiche) dei diversi portatori di interesse diviene parte integrante della strategia aziendale. In tale accezione, tra responsabilità sociale di impresa e performance aziendali non deve intravedersi un rapporto antagonistico bensì complementare: la responsabilità sociale, migliorando il benessere dei diversi stakeholder, avvia un circolo virtuoso che favorisce lo stesso sviluppo dell'impresa. Dunque la responsabilità sociale di impresa perde il suo carattere filantropico per divenire elemento di connotazione dell'identità aziendale[35]. Il dilemma, quindi, non è "nel riconoscimento o meno di una funzione sociale in senso ampio, ma nel perseguimento di una ridefinizione delle responsabilità aziendali, che veda però la socialità quale elemento collegato nel tempo alla redditività dell'impresa" (Sciarelli, 2003).

In tal senso è possibile richiamare la posizione di Moon, Crane e Matten (2003) sulla cittadinanza delle imprese. Gli autori sostengono che la cittadinanza rappresenta uno status non riferibile alle imprese, per le quali è più corretto parlare di "similitudine".  In tal senso le imprese non sono dei cittadini, con i conseguenti diritti e doveri, ma dovrebbero comportarsi come se lo fossero nel senso che assumono comunque una obbligazione, ma condizionata al mantenimento dell'equilibrio economico.

La definizione di responsabilità sociale accolta in questa sede, facendo esplicito riferimento anche alle problematiche di tipo ambientale, attribuisce importanza alle generazioni future quale particolare tipologia di stakeholder caratterizzata dall'impossibilità di esercitare, in maniera diretta, pressioni sul management.

L'ampliamento delle responsabilità dell'impresa anche alle problematiche ambientali conduce alla logica della triple bottom line, per la quale l'impresa deve perseguire, ad un tempo, tre distinti obiettivi: risultati economici per la sopravvivenza e lo sviluppo dell'impresa; risultati sociali per il benessere delle diverse tipologie di portatori di interessi (interni ed esterni all'impresa); risultati ambientali quali espressione di uno sviluppo aziendale sostenibile, ossia "che soddisfa i bisogni del mondo presente senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare, a loro volta, i propri bisogni"[36]. Lo sviluppo sostenibile e duraturo dell'impresa richiede di considerare i tre risultati in maniera congiunta, in quanto ognuno incide sugli altri ed è influenzato dagli altri: è necessario, dunque, assumere un'ottica sistemica in cui gli interessi e le influenze dei diversi stakeholder assumono un continuo dinamismo. Proprio questo dinamismo è alla base dell'ampliamento del concetto di responsabilità sociale di impresa, laddove all'attenzione verso l'impatto sociale dei comportamenti aziendali (corporate social responsibility - CSR1), si affianca la corporate social responsiveness (CSR2) quale attitudine dell'impresa a comprendere le (e a farsi carico delle) istanze provenienti dall'ambiente di riferimento (Frederick, 1978). Ad un concetto statico di responsabilità sociale, dato dalla consapevolezza dell'impresa degli obblighi che le derivano per l'impatto della propria attività nel contesto sociale di riferimento, si contrappone un concetto dinamico incarnato nella sensibilità sociale, ovvero nella capacità di percepire le istanze, sempre mutevoli, che provengono dall'ambiente esterno (Sciarelli, 2007). In particolare, la corporate social responsiveness richiede la revisione dei processi interni (Epstein, 1974) affinché l'impresa da un lato maturi la capacità di percepire quali siano i problemi sociali di maggiore attualità e dall'altro possa concretamente attivarsi per contribuire alla risoluzione degli stessi adottando un'approccio di  social issues management (Wartick e Cochran, 1985).

Definiti i concetti di etica di impresa e responsabilità sociale di impresa, è possibile evidenziarne le differenze: mentre l'etica è volta ad indirizzare il comportamento individuale, e quindi riguarda l'individuo in quanto tale e le relazioni che lo stesso intesse con i propri interlocutori, la responsabilità sociale riguarda l'atteggiamento dell'impresa nei confronti dell'ambiente di riferimento. Da ciò consegue che l'etica di impresa, proprio perché strettamente connesso con la condotta dei singoli che in essa e per essa operano, assume un approccio prevalentemente interno laddove la responsabilità sociale assume una dimensione prevalentemente esterna.

 

 

6. I vantaggi di una gestione etica

Sebbene non possano più sollevarsi grossi dubbi circa l'opportunità di assumere condotte imprenditoriali che siano, ad un tempo, eticamente connotate e socialmente responsabili, è in ogni caso lecito chiedersi se e quali benefici derivino all'impresa dall'assunzione di atteggiamenti virtuosi.

L'interrogativo appare pertinente soprattutto perché, come si è avuto modo di osservare, l'assunzione di comportamenti etici e socialmente responsabili comporta il sostenimento di costi che possono anche essere rilevanti, al punto da incidere sensibilmente sul conto economico dell'impresa determinando la riduzione del profitto. La proprietà, dunque, deve attendersi dei benefici per l'assunzione di un comportamento imprenditoriale etico e socialmente responsabile e di che natura sono tali benefici?

La questione, che appare molto complessa e assai dibattuta e che non conduce a risposte unanimemente condivise, deve essere affrontata sotto due profili differenti.

Il primo concerne valutazioni di natura prettamente economica volte a capire se l'onerosità di comportamenti virtuosi trovi compensazione in benefici economicamente valutabili.

Il secondo, invece, è volto a verificare quali siano gli eventuali benefici, di natura non economica, che derivino dall'assunzione di comportamenti virtuosi.

In merito alla prima questione, se da un lato bisogna verificare se l'etica di impresa e la responsabilità sociale determinino benefici - economicamente valutabili - che eccedano i relativi costi, generando un maggior profitto per l'impresa o comunque un accrescimento del proprio valore, dall'altro lato occorre chiedersi se, pur in assenza di un maggior profitto, i costi connessi all'assunzione di comportamenti virtuosi non rappresentino un investimento oramai ineludibile per la sopravvivenza dell'impresa (sebbene, magari, con un profitto inferiore).

E' proprio da quest'ultimo aspetto che è più agevole prendere le mosse, atteso che, oggi più di prima, il livello di sensibilità maturato nei confronti della responsabilità sociale di impresa da parte dei clienti e dell'opinione pubblica in genere determina il livello di consenso di cui gode l'impresa: una gestione non corretta ed equilibrata dei rapporti con i diversi stakeholder potrebbe determinare l'insorgere di tensioni, fratture, contrapposizioni e conflitti che rischierebbero di minare la stessa sopravvivenza dell'azienda. Un'impresa senza clientela affezionata, dipendenti fedeli e fornitori affidabili difficilmente può sopravvivere in un contesto caratterizzato da ipercompetizione su scala globale. E' evidente, dunque, che un atteggiamento manageriale volto a privilegiare la massimizzazione del profitto nel breve periodo eludendo gli inevitabili costi dell'etica e della responsabilità sociale appare oramai troppo miope e incurante dell'obiettivo prioritario che è e resta quello della sopravvivenza aziendale nel tempo. Le tensioni e i conflitti che deriverebbero da condotte imprenditoriali assunte senza tener conto degli interessi dei diversi stakeholder potrebbero generare diseconomie che, nel tempo, finirebbero per compromettere la capacità dell'impresa di generare profitti, decretandone il dissesto o potrebbero, più semplicemente, ledere all'immagine dell'impresa, privandola di consenso sociale e legittimazione.

Per quanto concerne, invece, l'analisi costi-ricavi, sebbene siano diverse le ricerche in tal senso condotte negli ultimi anni, non è agevole giungere a risposte unanimemente condivise e scientificamente incontrovertibili. Sebbene, infatti, non appaia impossibile misurare, con un inevitabile grado di approssimazione, i costi connessi all'impegno etico e sociale, molto più complessa risulta la stima degli eventuali benefici economici delle imprese virtuose.

La stima dell'onerosità delle pratiche manageriali virtuose può essere fatta riconducendo i maggiori costi alle seguenti categorie[37]:

 

ü   investimenti posti in essere per soddisfare istanze di ordine sociale e ambientale che incidono sul conto economico per effetto dell'incremento delle quote di ammortamento. Si pensi all'investimento, magari molto consistente, posto in essere dall'impresa per rendere meno inquinante il proprio processo produttivo;

 

ü   costi di funzionamento connessi al soddisfacimento delle istanze degli stakehoder. Si pensi, banalmente, ad un incremento di stipendio in favore dei dipendenti. Oltre che ai dipendenti, i maggiori oneri riconnessi a tale tipologia di spesa sono da attribuire soprattutto agli interessi di clienti e fornitori;

 

ü    impiego di risorse aziendali (non monetarie) nei programmi di sviluppo dell'etica e della responsabilità sociale. Si pensi all'impresa che mette ore lavoro a disposizione di un determinato programma sociale o all'impresa che destina allo sviluppo del progetto l'utilizzo di proprie attrezzature. In questa categoria di spesa deve essere ricompreso anche il tempo che il management sottrae alle proprie mansioni quotidiane per destinarlo allo sviluppo di una cultura aziendale etica e socialmente responsabile;

 

ü   limitazione delle alternative strategiche. Si pensi all'impresa che rinuncia a delocalizzare la propria produzione verso aree dove il costo del lavoro è più economico o anche all'impresa che rinuncia ad entrare in business redditizi che  generano disvalori o diseconomie sociali (produzione e commercio di armi, alcolici, tabacchi, etc.);

 

ü   donazioni e sponsorizzazioni finalizzate allo sviluppo di programmi sociali.

 

Per quanto riguarda i benefici economici connessi alle pratiche manageriali etiche e socialmente responsabili, nonostante debba ritenersi che il virtuosismo incida in maniera diretta sul conto economico dell'azienda, determinando un aumento delle vendite oltre alla riduzione di talune voci di costo, non è affatto semplice quantificare la misura di tali effetti. Oggi più di prima i modelli di acquisto dei consumatori tendono a premiare le imprese virtuose, ma a quanto ammontano i maggiori ricavi di cui può godere l'impresa eticamente e socialmente connotata? Anche sul fronte dei costi l'impresa virtuosa ha certamente dei benefici: una corretta gestione dei rapporti con i dipendenti, determinando una maggiore soddisfazione degli stessi, certamente determina una minore esigenza di controlli e riduce il rischio di scioperi e assenteismo ingiustificato; una relazione equilibrata e corretta con i fornitori riduce il rischio di comportamenti opportunistici da parte di questi ultimi e fa ridurre i costi di transazione; la trasparenza nei rapporti con i finanziatori riduce l'onerosità complessiva del capitale preso a prestito e così via. Ma a quanto ammontano i risparmi di costo derivanti dall'assunzione di comportamenti virtuosi? I maggiori ricavi e i minori costi di cui si avvantaggia un'impresa eticamente connotata, riescono a compensare i costi dell'etica e della responsabilità sociale, determinando un maggior profitto per l'impresa? Si tratta, come si vede, di interrogativi a cui non è agevole dare risposte certe, precise e, soprattutto, scientificamente dimostrate[38]. Del resto, dalla semplice osservazione della realtà emerge che sono sostanzialmente poche (se non pochissime) le imprese virtuose e ciò suggerisce quantomeno una doverosa cautela prima di affermare che il virtuosismo, anche solo nel lungo periodo, paghi dal punto di vista economico.

E' in ogni caso possibile ritenere che l'adozione di comportamenti etici e socialmente responsabili determinando, nel lungo periodo, ritorni di immagine da un lato e fidelizzazione di clienti, dipendenti e fornitori dall'altro, rappresenta una leva importante sulla quale insistere non solo per legittimare il diritto alla propria esistenza godendo, perché no, del supporto dello Stato in periodi di particolari crisi economiche, ma anche per far crescere il valore di particolari risorse intangibili (fiducia, reputazione[39], avviamento) che sono alla base del valore economico delle imprese: secondo Edvinsson e Malone (1997) l'etica di impresa dovrebbe avere effetti positivi sul capitale organizzativo, sul capitale umano e sul capitale relazionale dell'impresa, assumendo grande importanza soprattutto nell'ottica della crescita del valore dell'impresa nel tempo. Il cambiamento da una prospettiva di breve periodo, rivolta essenzialmente al profitto, ad una prospettiva di medio-lungo termine, in cui il valore economico dell'impresa assume prioritaria importanza, diviene ancor più rilevante in riferimento alle imprese quotate, il cui valore è comunemente determinato mediante l'attualizzazione dei flussi finanziari attesi per il futuro (in un arco temporale medio-lungo). Per tali imprese, infatti, l'assunzione di pratiche virtuose dovrebbe determinare la riduzione del rischio percepito dagli investitori e, quindi, del costo del capitale che esprime il tasso al quale attualizzare i flussi prospettici (Perrini, 2002). Il valore di impresa, dunque, si arricchisce di una dimensione sociale che si affianca alla dimensione economica (reddituale, finanziaria e patrimoniale) e a quella competitiva.

In ogni caso, il dibattito sui vantaggi di una gestione imprenditoriale virtuosa non può risolversi unicamente in valutazioni di natura economica, ma occorre chiedersi se non esistano altri benefici in favore dell'imprenditore eticamente e socialmente orientato.

Per provare a rispondere all'interrogativo è necessario partire nuovamente dalle teorie sulle finalità imprenditoriali. Si è già detto che oggi non si pongono più dubbi sul superamento della concezione di impresa quale semplice mezzo per la massimizzazione del profitto a beneficio della proprietà. Si è infatti fatto ricorso alla teoria degli stakeholder per evidenziare come, spesso, la ricerca del profitto sia condizionata dall'esigenza di trovare il giusto equilibrio tra gli interessi dei vari interlocutori aziendali[40]. Il ricorso alla teoria degli stakeholder, tuttavia, non consente di chiarire quali siano i benefici che derivino all'imprenditore dall'adozione di comportamenti virtuosi, risultando utile unicamente per spiegare le motivazioni dell'introduzione dell'etica nelle imprese.

Per comprendere se l'adozione di comportamenti etici determini dei benefici non di natura economica per l'imprenditore occorre anzitutto chiedersi se il profitto sia realmente l'unica finalità che egli persegue. Il discorso, tuttavia, non può riferirisi in maniera indistinta a qualsiasi imprenditore, dovendosi distinguere almeno tre situazioni (Sciarelli, 2007):

a)      imprenditore visibile (per dimensione aziendale) e integrato nell'impresa, che tende al successo sociale;

b)     imprenditore non visibile e meno integrato nell'impresa, che tende alla massimizzazione del valore economico nel lungo periodo;

c)      imprenditore delegato (manager), che tende a massimizzare i risultati economici nel minor tempo possibile per favorire la propria mobilità interaziendale.

Secondo la teoria del successo sociale (Sciarelli, 1997), riferibile agli imprenditori impegnati attivamente nella gestione della propria azienda e che hanno raggiunto una rilevante visibilità sul mercato, le finalità imprenditoriali sono almeno tre - profitto, potere, prestigio - da raggiungere in via progressiva[41]. In primo luogo l'imprenditore è mosso dall'obiettivo di ottenere un soddisfacente livello di profitto. Il perseguimento del profitto, soprattutto quando si adotta un'ottica di breve periodo, può senz'altro ostacolare l'adozione di comportamenti etici e socialmente responsabili che, come visto, possono avere una forte incidenza sui costi aziendali.

Ottenuto un soddisfacente livello di profitto l'imprenditore, in maniera fisiologica, tende a raggiungere un apprezzabile potere nella sua comunità. Già questo primo passaggio impone un'apertura verso logiche non strettamente economiche in quanto l'ottenimento del potere può richiedere l'adozione di comportamenti costosi. Ma è l'ottenimento del prestigio sociale che richiede il sostenimento di significativi investimenti in condotte dalla chiara valenza etica e socialmente responsabili. In tal senso, l'adozione di comportamenti moralmente apprezzabili rappresenta la via, forse economicamente costosa, per il perseguimento di una finalità non di lucro. Seguendo questo approccio, quindi, è possibile ritenere che l'adozione di comportamenti etici determini rilevanti benefici per l'imprenditore, sebbene tali benefici non siano misurabili in senso economico bensì in termini di riconoscimento sociale.

In ogni caso, qualunque siano i benefici attribuiti all'adozione di condotte etiche, economici o di affermazione sociale, è opportuno mettere in evidenza che occorre riferirsi ad una prospettiva di lungo periodo in quanto solo nel tempo l'etica di impresa può portare dei vantaggi a fronte di investimenti che possono assumere una rilevanza economica non trascurabile.

Soltanto seguendo un'impostazione di questo tipo l'etica d'impresa può essere intesa quale opportunità di sviluppo e non come vincolo posto alla gestione aziendale.

 

 

7. Conclusioni

Il presente capitolo è servito, principalmente, per legittimare il ruolo dell'etica e della responsabilità sociale nella gestione delle imprese. Oggi più di prima, il rispetto di valori etici e di equità sociale rappresenta un prerequisito dell'azione di qualsiasi impresa che abbia una visione strategica di medio-lungo periodo.

L'inquadramento dell'impresa quale sistema di relazioni tra una molteplicità di stakeholder rappresenta il fondamento teorico principale dell'introduzione dell'etica nella gestione dell'impresa; il concetto di cittadinanza e la teoria del contratto sociale, invece, rappresentano gli sviluppi teorici che hanno consentito di riconoscere in capo alle imprese una sorta di responsabilità per l'impatto sociale e ambientale del proprio operato.

Non vi è dubbio, in ogni caso, che il rispetto di valori etici e l'adozione di comportamenti socialmente responsabili debbano trovare equo bilanciamento nella primaria esigenza dell'impresa: il mantenimento di una situazione di economicità e profittabilità che ne giustifichi la sopravvivenza. La ricerca del virtuosismo aziendale, quindi, non può tramutarsi in un atteggiamento ossessivo al punto da divenire causa di diseconomicità della gestione: un'impresa che non abbia la capacità di autofinanziarsi  non è legittimata ad esistere, in quanto finirebbe per ribaltare sul contesto socio-ambientale in cui opera i suoi costi. Etica e responsabilità sociale, dunque, devono progredire nel rispetto dell'equilibrio economico dell'impresa, ma non per questo devono necessariamente diventare leva di ulteriori profitti per l'impresa. I vantaggi del virtuosismo aziendale, infatti, vanno ricercati soprattutto nel prestigio e nel riconoscimento sociale di cui gode l'imprenditore virtuoso. 


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[1] Il termine "globalizzazione" acquista uno spazio sempre maggiore nelle scienze politiche ed economiche e nella disciplina delle Relazioni Internazionali. L'IPE - l'International Political Economy - analizza il processo di globalizzazione e i suoi effetti sulla sovranità e autonomia degli Stati e le conseguenze della ristrutturazione della politica economica globale con particolare attenzione al caso dei paesi in via di sviluppo. Al concetto tradizionale di globalizzazione (maggiori scambi commerciali e finanziari e crescenti movimenti di capitale), ultimamente si aggiunge un elemento qualitativo, ossia il contesto politico della crescente attività economica e, di converso, la notevole importanza delle istituzioni internazionali (quali FMI e la Banca mondiale) e dei programmi di aggiustamento strutturale (Hurrell e Woods, 2000).

[2] "Economics as a social science must also understand what people mean to do with what they actually do in the economy...- it is relationship-in-itself, relationship to the other as itself or to itself as the other -...must be able to integrate ethics into its framework of utility and profit maximisation, unless it would want to leave out important features and determinants of economic behaviour and decision making" (Koslowsky, 1992). L'autore mette in evidenza come l'economia, in quanto scienza sociale, dovrebbe allargare i suoi scopi analizzando, oltre agli aspetti quantitativi e empirici, i significati culturali, etici e simbolici delle azioni sociali e, quindi, i rapporti tra gli individui e tra questi e le azioni; tale dimensione influenza l'analisi normativa in questioni relative alla distribuzione, alla elasticità della domanda e alle istituzioni e politiche economiche.

[3] Sen (2002), chiarisce tale errata e superficiale interpretazione del pensiero di Smith, riportando alla luce gli scritti smithiani, relativamente trascurati perché non di moda, sulla povertà, la necessità della simpatia e il ruolo delle considerazioni di natura etica nel comportamento umano.

[4] L'ipotesi di adozione di un modello troppo semplicistico del comportamento umano nelle teorie economiche è discusso in Hirschman (1981), il quale, invece, sposta l'attenzione su risorse "rinnovabili" come l'amore e il senso civico.

[5] Kleinfeld-Wernicke (1992) ha dimostrato come, in considerazione dello stretto legame tra etica e antropologia, l'introduzione del concetto di persona nella teoria economica risulti una estensione, utile tanto per gli aspetti descrittivi e teorici economici (in quanto la persona, nella sua dimensione individuale e sociale, è il soggetto della vita economica) tanto per quelli normativi etici, che rende giustizia all'ideale kantiano di dignità e all'essenza degli umani in quanto persone.

[6] L'utilitarismo è quindi una "teoria della giustizia" secondo la quale è giusto compiere l'atto che, tra le possibili alternative, massimizza la felicità complessiva, misurata tramite l'utilità.

[7] Il pensiero dei primi utilitaristi è alla base dell'Economia del Benessere, i cui cardini fondamentali sono il benesserismo, il conseguenzialismo e la sum-ranking (ordinamento-somma) delle utilità individuali (più tardi sostituito dal criterio di Pareto) (Pigou, 1920).

[8] Per una completa disamina del pensiero di Bentham si può fare riferimento a Lecaldano (1998) e Loche (1999), mentre il pensiero di Mill è ripercorso in Casellato (1951) e Cressanti (1988).

[9] L'utilitarismo classico viene messo in discussione già da Henry Sidgwick con l'opera The Methods of Ethics (1874). Per l'autore, che pone le basi per il successivo ripensamento della teoria, l'edonismo psicologico non può essere considerato un principio morale in grado di prescrivere le azioni, limitandosi solo a descrivere quel che di fatto gli individui desiderano, senza indicare ciò che essi devono desiderare. Per una chiara disamina del pensiero di Sidgwick si vedano Barreca (2007) e Pellegrino (2003).

[10] Si vedano Hicks (1934) e Robbins (1935). Quest'ultimo, in particolare, del tutto fuori moda oggi, affermava l'esistenza di una relazione solo di giustapposizione fra l'etica e l'economia, in quanto quest'ultima avrebbe solo il compito di strutturare conoscenze e dati senza nessun valore prescrittivo e senza legami di natura etico-morale.

[11] Sen parla di "deprivazione assoluta" (soglia minima al di sotto della quale a nessun individuo della collettività dovrebbe essere permesso di cadere) per indicare la mancanza assoluta delle capacità basilari (basic capabilities) quali: sopravvivere, essere ben nutriti, liberi da malattie, poter ricevere cure mediche, istruirsi. Esistono, però, anche deprivazioni in senso relativo quando, pur essendo presenti opportunità di scelta per tutti gli individui, queste non siano distribuite in modo egualitario (2000).

[12] Si vedano, in particolare, i lavori di Lane (1998) e Myers (2000). Questi ultimi hanno dimostrato come, negli ultimi decenni, in corrispondenza di redditi superiori negli USA la percezione di benessere sia andata diminuendo notevolmente. Questo fenomeno è stato anticipato dai lavori di Brickman e Campbell (1971) che teorizzavano la presenza di una specie di hedonic treadmill (tapis roulante edonico); un processo di adattamento assuefa gli individui alle migliori condizioni economiche fino a non riuscire a percepire nessun aumento di felicità e beneficio.

[13] Altre ricerche hanno dimostrato che a determinati gap di reddito fra paesi ricchi e poveri non corrisponde il medesimo gap in termini di benessere  (Argyle, 2001; Nettle, 2005; Layard, 2005) poiché intervengono diversi fattori. Headey (1991) individua quattro gruppi di variabili: i tratti della personalità, la salute, i network interpersonali e le variabili demografiche ed economiche. Altri autori spiegano la differenza chiamando in causa le istituzioni (Frey e Stutzer, 2002) o le caratteristiche individuali e il paese di residenza (Clark et Alia, 2005). Diversi studi hanno poi dimostrato l'effetto positivo e significativo sulla percezione di benessere dei beni relazionali (Bruni, 2004).

[14] La stessa Chiesa, con l'enciclica Centesimus annus di Papa Giovanni Paolo II (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, 2004), pur affermando la centralità del libero mercato, quale strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni, chiarisce come non si possa prescindere dai fini che persegue e dai valori che trasmette a livello sociale: spetta alla coscienza individuale e alla responsabilità pubblica stabilire un giusto rapporto tra mezzi e fini.

[15] Il premio Nobel nel 1970 scriveva che "l'amministratore è un dipendente dei proprietari dell'impresa e nei loro confronti ha quindi una diretta responsabilità, quella di condurre l'impresa secondo i loro desideri, che generalmente consistono nel conseguire quanti più proventi possibili, attenendosi alle regole di base della società, così come espresse nella legge e nelle consuetudini etiche". L'autore poi, cercando di evitare che il suo ragionamento possa essere inteso quale approvazione di una classe manageriale immorale, chiarisce che "un amministratore è anche una persona....egli potrà sentirsi spinto a spendere parte delle sue entrate per cause che egli considera meritevoli.....ma in tali casi egli sta usando i suoi soldi...Assumendo (invece) una ‘responsabilità sociale' come uomo d'affari....egli sta agendo in un modo che non è nell'interesse dei suoi datori di lavoro...Nella misura in cui le sue azioni, svolte in accordo alla sua ‘responsabilità sociale', riducono i dividendi degli azionisti, egli sta spendendo i loro soldi; in quanto tali suoi atti determinano un aumento del prezzo di vendita, egli sta usando i soldi dei consumatori; laddove le sue gesta provocano un abbassamento delle retribuzioni dei dipendenti, egli sta impiegando i loro soldi. E' come se si stessero imponendo tasse da una parte e decidendo cosa farne dall'altra....e queste sono funzioni per le quali abbiamo stabilito un elaborato controllo costituzionale, parlamentare e giurisdizionale" (pp.33 e 122).

[16] Il primo utilizzo del termine stakeholder è fatto risalire ad un memorandum interno dello Stanford Research Institute.

[17] Jensen, difendendo la validità della teoria dell'agenzia, ritiene che la teoria degli stakeholder non assuma carattere normativo e, pertanto, non fornisca al management indicazioni precise sulla condotta da assumere (Jensen, 2001).

[18] Tra i contributi pioneristici sui rapporti tra management e stakeholder si segnala il lavoro di Rhenman (1964).

[19] In maniera più ristretta, il Clarkson (1995) definisce stakeholder "chiunque sopporta i rischi di impresa e, con il proprio contributo, ne assicuri la sopravvivenza".

[20] "La legittimità di un'impresa riposa sulla percezione pubblica di una congruenza tra i fini dell'impresa e i fini della società. Non c'è nessun diritto, indipendente e non fondato sull'autonomia pubblica, delle imprese a fare affari. Il diritto di fare affari è subordinato alla volontà delle persone e al processo politico. Le decisioni delle imprese sono di interesse pubblico e non privato" (Manzone, 2003).

[21] "Quando un'organizzazione distribuisce reddito a centinaia di famiglie, crea problemi urbani per la sistemazione e la mobilità di queste persone, sviluppa rapporti d'affari con varie migliaia di interlocutori (consumatori, fornitori di beni e di servizi, amministrazioni locali e centrali ecc.), come si possono delimitare i suoi obiettivi solo all'area economica e disconoscere il ruolo sociale ch'essa sostanzialmente è chiamata ad esercitare ?" (Sciarelli, 2002).

[22] La teoria del contratto sociale di Donaldson è stata approfondita da parte della dottrina (Dunfee, Smith e Ross, 1999) per la quale il "contratto sociale" si compone di macro e microcontratti.  Secondo gli autori i macrocontratti hanno una validità di portata generale e assoluta e consentono di definire ipernorme etiche, mentre i microcontratti hanno una valenza relativa e sono funzione della cultura prevalente nel dato contesto storico e sociale.

[23] Moon, Crane e Matten (2003) sostengono che la cittadinanza rappresenti uno status non riferibile alle imprese, per le quali è più corretto parlare di "similitudine".  In tal senso le imprese non sarebbero dei cittadini, con i conseguenti diritti e doveri, ma dovrebbero comportarsi come se lo fossero. Questa impostazione, che sarà richiamata più avanti, consente agli autori di sostenere che in capo alle imprese si configura una obbligazione condizionata al mantenimento dell'equilibrio economico.

[24] I contributi sulla visione dinamica degli stakeholder sono autorevoli e molteplici (Mitchell, Agle e Wood, 1997; Jawahar e Mclaughlin, 2001).

[25]"There are matters of ethics about which the law has nothing to say. Law, in general, is concerned with conduct which is wrongful, which results in relatively serious harm, and which is not an everyday occurrence" (Paine, 2002).

[26] "The law does not generally seek to inspire human excellence or distinction. There is not legal sanction for failing to be the best or for failing to make a positive contribution to society" (Paine, 2002).

[27] "The consequences of neglecting, or failing to deal adequately with ethical issues can be very hard indeed, prompting not only social concern but serious external sanctions. The sanctions of public opinion and the marketplace can be much more costly than the damages and fines imposed by the legal system" (Paine, 2002).

[28] "L'impresa concreta non può essere legittimata "in quanto tale" per il ruolo che le si attribuisce e che svolge in generale, ma si trova, di fatto, sottoposta a un processo continuo di legittimazione, sia da parte di tutti coloro che, da un lato, hanno in essa interessi riconosciuti da salvaguardare e, dall'altro, detengono un certo potere diretto di influenza sulla sua evoluzione (gli stakeholders), sia da parte di tutti gli altri attori dell'ambiente sociale entro il quale si trova inserita l'impresa" (Rispoli, 1993).

[29] "Responsabilità sociale non significa costringere l'impresa a perseguire obiettivi diversi da quelli che le sono propri istituzionalmente, cioè in un determinato momento storico ed in un determinato contesto. Del pari, non significa imporre comportamenti ostili ed innaturali" (Caselli, 1998). 

[30] "La parte realmente creativa dell'etica degli affari consiste nella scoperta dei modi per fare quello che è moralmente giusto e socialmente responsabile senza rovinare la propria carriera e la propria azienda" (Stark, 1994). 

[31] "Etica" è un termine di etimologia greca cui generalmente viene attribuito una molteplicità di significati molto simili che differiscono tra loro per piccole sfumature. 

[32] Secondo Hosmer (1991, p.103) "c'è differenza tra moralità ed etica. La moralità indica gli standard di comportamento assunti da una persona, a motivo dei quali le persone sono giudicate nelle loro relazioni con gli altri...L'etica, invece, comprende il sistema di credenze che supporta un particolar modo di essere...La differenza tra moralità ed etica può facilmente essere ricordata se si parla di standard (o livelli) morali di comportamento e di sistema etico di valori e credenze".  In maniera probabilmente più efficace, Velasquez (2002) spiega che mentre la moralità è legata alle pratiche sociali in virtù delle quali in una determinata comunità viene distinto ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in funzione del sistema di credenze, regole, usanze della comunità stessa, l'etica rappresenta il filtro personale che traduce la moralità in comportamenti individuali .

[33] Per una approfondita analisi del concetto di responsabilità sociale si veda Chirieleison (2002).

[34] La Sternberg, in particolare, sostiene che l'impresa è etica (socialmente responsabile) solo se massimizza il valore di lungo termine dell'investimento azionario, essendo soggetta unicamente all'equa distribuzione delle ricompense all'interno dell'organizzazione (in funzione del contributo apportato da ciascuno al perseguimento dell'obiettivo della massimizzazione del profitto) e delle ordinary decency (onestà e assenza di coercizione e violenza fisica) (Sternberg, 1994, cit. in Molteni).

[35] Secondo alcuni autori, "una concezione di RSI ridotta a filantropia, attuata destinando a fini sociali una quota - di norma assai ridotta - delle risorse generate, sostanzialmente sganciata dai processi di produzione, può addirittura risultare controproducente: può infatti spostare l'attenzione dei vertici aziendali dai propri compiti fondamentali; può tacitare le coscienze, eludendo le vere responsabilità sociali; può danneggiare la reputazione aziendale, ricevendo l'accusa di costituire una mera operazione di facciata, attenta a cavalcare le moda del momento, alla quale non è estraneo un intento manipolatorio" (Molteni, 2004, p.15).

[36] La definizione è riportata nel Brundtland Report, pubblicato nel 1987 dalla World Commission on Environment and Development.

[37] Molteni (2004), adottando un approccio parzialmente differente, non considera le donazioni e le sponsorizzazioni e classifica in maniera autonoma il tempo che i manager dedicano allo sviluppo dell'etica e della responsabilità sociale sottraendolo alle proprie mansioni. Per un'analisi dei costi dell'etica e della responsabilità sociale si veda anche Angel e Rivoli (1997).

[38] Perrini (2002), richiamando una molteplicità di ricerche sul tema della correlazione tra performance economico-finanziarie e responsabilità sociale di impresa, sostiene che "i risultati, da un punto di vista quantitativo, sono ancora ambigui".

[39] La reputazione, in particolare, intesa quale "stima che gli interlocutori nutrono verso l'impresa, anche in comparazione con la percezione che essi hanno dei diretti concorrenti" (Fombrun, 1996, p.37), assume grande valenza strategica in quanto capace di alimentare un vantaggio di differenziazione (Hart, 1995; Russo e Fouts, 1997).

[40] Simon (1961), superando il concetto di "massimizzazione del profitto" discorre di "profitto soddisfacente".

 

[41] L'autore percorre il sentiero tracciato già da altri autori. La trattazione più nota del tema è fatta risalire alla teoria dell'utilità manageriale di Marris (1964), sebbene contributi in tale direzione erano già stati elaborati da Barnard (1938), Gordon (1961), Galbraith (1963) e altri.