Religione e Democrazia
Emilio D’Agostino
In un periodo di crisi della democrazia rappresentativa come l'attuale, cui seguono in Italia continui "strappi" istituzionali derivanti da tentazioni bonapartiste, non è certo inopportuno interrogarsi sull'idea di "democrazia" e sulla stessa parola democrazia. Un linguista non può sottrarsi all'obbligo civile di offrire il proprio contributo al dibattito. L'occasione è fornita da una sorta di dialogo a distanza tra Luciano Canfora e Massimo Cacciari. Mi riferisco ai saggi del primo sulla storia e sulla retorica del termine, da un lato, e a una conferenza tenuta dal secondo a Siena nel 2004.[1]
1. Dēmokratía
Comunemente anche persone colte tendono a dare per acquisita e assolutizzata una definizione di "democrazia" come "governo del popolo" e fanno risalire il modello democratico alla pólis di Atene. In ogni caso, l'origine storica è stata sempre comunemente fatta risalire alla "democrazia ateniese" e nell'immaginario contemporaneo tale identificazione è stata ovunque vigente: la forma latina medioevale democratĭa(m) dal greco dēmokratía composto di dēmo- ("popolo") e -kratía ("forza", "potere"), cioè "potere del popolo". In apparenza, ma soltanto in apparenza, una parola dal significato chiaro, forte e netto. Non potendo qui seguire, per forza di cose, tutta la ricchissima argomentazione di Luciano Canfora, mi limiterò a riprenderne gli aspetti, a mio avviso, più sostanziali.[2]
2. Il popolo e la maggioranza
In primo luogo: il discorso attribuito a Pericle da Tucidite e cioè:
La parola che adoperiamo per definire il nostro sistema politico è democrazia per il fatto che, nell'amministrazione, esso si qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto alla maggioranza [...] Però nelle controversie private attribuiamo a ciascuno ugual peso e comunque nella nostra vita pubblica vige la libertà.[3]
Canfora, allora, nota subito due questioni rilevanti contenute nel discorso di Pericle e cioè: più che da "forza" o "potere", la democrazia ateniese è caratterizzata da "maggioranza" cioè dall'uso di far affidamento sul criterio della maggioranza, da un lato, e, dall'altro, dal fatto che lo stesso Pericle pone in antitesi "democrazia" e "libertà" ("... comunque... vige la libertà"). La storia di Pericle ne è conferma: egli governò Atene per circa trenta anni, nonostante gli insuccessi militari, grazie a un consolidato consenso, e la governò, secondo Tucidite, da pròtos anèr: da princeps. Come molto più tardi lo sarà Augusto che rivendicherà anche di aver rinnovato le virtù della Repubblica romana. I suoi avversari indicavano proprio con il termine democrazia il suo governo, volendo così mettere in luce i suo carattere violento, come testimonia il suffisso -kratía: kràtos non è altro che "la forza nel suo violento esplicarsi".
Se per le complesse dinamiche interne della politica ateniese del periodo non è possibile far altro che rimandare al saggio di Canfora, ancora tre aspetti è opportuno evidenziare. Il primo: se Pericle pròtos anèr formalmente governa in nome della "maggioranza", questa da chi è costituita? Oppure, riformulando in altro modo la questione: il "popolo", in nome della cui maggioranza, Pericle governa, da chi è formato? "Popolo", il Volk poi romantico, altro non è che nozione vaga e imprecisa e, dunque, va chiarita. La stessa risposta che la rende equivalente a "cittadini" è una pura tautologia, in quanto la stessa domanda può essere così riformulata: allora chi sono i "cittadini" di Atene? Seguendo l'argomentazione di Canfora, ci si rende conto che il loro numero - o, se si preferisce, il loro "gruppo sociale" - è assai ridotto o, meglio, molto chiaramente definito: i cittadini ateniesi sono rappresentati soltanto dai maschi in età militare, purchè figli di padre e madre ateniesi, e "liberi" (i. e. non schiavi) sin dalla nascita. Essi rappresentano, grosso modo, un quarto dell'intera popolazione ateniese. Essi, dunque, rappresentano quel gruppo sociale che ha la disponibilità economica del possesso di armi proveniente dalla rendita fondiaria. In termini contemporanei, diremmo che ci si trova dinanzi a una democrazia strettamente "di classe". Con lo stesso allargamento ai "non possidenti" - cioè ai maschi in età militare in condizione di remare sulle navi una volta che Atene ebbe necessità di una flotta - non cambia il sistema politico, ma soltanto il numero dei suoi beneficiari.
2.1. La maggioranza
C'e un secondo aspetto che appare evidente nell'argomentazione di Luciano Canfora: la maggioranza dei cittadini - o dei cittadini aventi diritto di voto - ha per ciò stesso di essere maggioranza sempre ragione e la sua volontà va sempre seguita? E' giusto che Socrate muoia? In termini più moderni: il fatto stesso che si sia costituita una "maggioranza di governo" è condizione sufficiente affinchè il potere che essa esercita sia considerato a priori democratico? Più che la scelta individuale di Socrate di tipo morale prima ancora che politica, e moltissimo tempo prima delle attuali perplessità sullo stato delle moderne democrazie rappresentative attuali, sono gli stessi filosofi greci post-socratici a manifestare dissenso. In primo luogo Platone: come spiegare, infatti, il giudizio negativo - o quanto meno lo scetticismo - sulla dēmokratía da lui manifestato, pur senza essere appartenuto ad alcuna etherìa?
3. Il disprezzo di Platone
John Dunn (2005), nella sua interpretazione "della straordinaria storia della parola democrazia", ripercorre le ragioni di tale disprezzo. Poco condivisibili, a mio avviso, quelle legate alle relazioni personali e familiari intrattenute da Platone, alla sua collocazione certa nella classe dei "possidenti". In particolare, ritengo che, se si seguisse tale strada, si ridurrebbe l'opposizione platonica a un puro riflesso dell'interesse personale, sminuendo così la portata teorica e filosofica delle valutazioni espresse nel Critone, nella Repubblica e nell'Apologia di Socrate. Certamente accettabili, invece, quelle relative alla reazione al tragico destino del suo maestro Socrate. Certe - sempre a mio avviso - quelle associate alla posizione di Platone sul piano della "morale". Dunn, infatti, sostiene:
Platone muove molte accuse al governo democratico e al modo di vita che da esso deriva. In sostanza, egli vede in esso la dissennata dissoluzione di ogni valore, decenza e retto giudizio, un governo di individui folli, viziosi e sempre potenzialmente brutali, nonché un attacco diretto alla possibilità di una buona vita, condotta con gli altri in una dimensione comunitaria. Il principio su cui si basa il governo democratico è l'uguaglianza, l'assunto secondo il giudizio di ognuno merita lo stesso peso di quello di chiunque altro [...] Lo stesso identico principio si applica, con effetti altrettanto catastrofici, alla personalità e all'esistenza individuale. Nella vita dell'uomo democratico (la personalità individuale formata da una democrazia e a essa appropriata) non è presente né ordine né costrizione (taxis oute anagke). Ai suoi occhi, è proprio questa informe mancanza di controllo che rende una vita libera, piacevole e felice [...] Per il filosofo, però, il desiderio insaziabile di libertà che accompagna la promessa di uguaglianza [...] inevitabilmente comprometterà il governo democratico dissolvendo ogni forma di autorità presente al suo interno. Vengono così disgregati e alla fine distrutti i legami tra maestro e allievo, padre e figlio, figli e genitori, giovani e anziani, stranieri (meteci) e cittadini, persone libere e schiavi, persino tra esseri umani e animali. Anche la minima forma di limitazione giunge a essere considerata schiavitù. Il caos che ciò scatena inevitabilmente conduce a un governo arbitrario (tirannide): un'improvvisa degenerazione della democrazia, il vertice della libertà, si volge nella più completa e dura schiavitù.[4]
Ciò che mi colpisce dell'interpretazione del Platone di Dunn è il citato passaggio della Repubblica:
Anche la minima forma di limitazione giunge a essere considerata schiavitù. (563 D)
Sorvolando su qualche marginale problema interpretativo legato alle edizioni delle opere platoniche usate, mi pare di poter leggere nella "minima forma di limitazione", alla propria libertà individuale, al proprio desiderio, alla propria volontà, uno dei caratteri che ritengo propri del mondo contemporaneo e cioè: il rifiuto di ogni tipo di regola, di autorità intesa come "autorevolezza", di ogni principio fondante.[5] E' in questo momento che si produce la rottura tra "saggezza" e "libertà". Caduta la transcendenza della ontologia religiosa, gli individui non sono più riusciti a trovare un principio, mondano questa volta, al di là di se stessi: l'unico principio generale è rappresentato dal particolare.
In ogni caso, devo, però, richiamare l'attenzione sul fatto che, come si è detto, La Repubblica di Platone non è un trattato politico, ma un'opera che concerne in primo luogo la Morale. Tutte le considerazioni su "oligarchia", "democrazia", "anarchia" e "tirannide" sono vincolate da tale prospettiva. Inoltre, in merito al discorso di Dunn, credo di dover notare, in particolare che, nel Libro VIII dell'opera, Platone manifesta la propria totale avversione verso la degenerazione del sistema democratico che produce l'inevitabile passaggio alla tirannide e osserva che è insito nella dēmokratía ateniese il germe stesso del suo pervertimento. La posizione "anti-democratica" di Platone è, vale la pena sottolinearlo, pienamente coerente con quanto egli sostiene in altre occasioni e per altri argomenti. Mi riferisco al caso di due passi della famosa Settima Lettera (340B-345C).
Come è noto, Platone nella lettera esprime la propria avversione all'uso della scrittura. Sulla scrittura pesa una sorta di condanna legata ad un "peccato originale" che spinge Platone a formulare un giudizio negativo nei suoi confronti. Tale giudizio è stato indagato, prima ancora che dalla cosiddetta "Scuola di Tubinga" e da T. A. Szlezak, da Giorgio Colli, ormai quasi quaranta anni fa.[6] Le indicazioni platoniche dell'insufficienza della scrittura si muovono sia sul piano "conoscitivo" (cioè, rispetto alla conoscenza dei principi supremi della realtà: akra kai prota peri physeos), sia su quello "comunicativo". In ragione dei limiti della scrittura, Platone avrebbe rinunciato ad esporre in forma scritta i supremi contenuti della sua filosofia, riservandoli all'oralità dialettica, cioè alle lezioni accademiche. Tracce del contenuto di queste misteriose dottrine non scritte (agrapha dogmata) sarebbero rinvenibili nella testimonianza di Aristotele e di alcuni tardi commentatori aristotelici (es. Alessandro e Simplicio). In tal senso, nel Fedro Platone attribuisce a Socrate una complessa analisi della natura e delle funzioni della scrittura, che i tubinghesi interpretano nel senso di un rinvio alla superiorità dell'oralità. In particolare, il limite maggiore della parola scritta consiste nell'assoluta assenza di controllo del destinatario. Un libro, una volta scritto, finisce nelle mani di chiunque, di chi è adatto e di chi è inadatto alla filo-sofia. Quest'ultima deve istituirsi nel rapporto tra maestro e discepolo, cioè nella possibilità del maestro di scegliersi un'anima adatta e di modulare su di essa le procedure e i metodi di insegnamento. Tutto ciò sarebbe impossibile nel caso del testo scritto, che ripete sempre la stessa cosa, non adattandosi all'anima di chi legge. Inoltre il testo scritto necessita del costante aiuto del padre, ossia dell'autore che può evitare fraintendimenti. La sola funzione che per i tubinghesi Platone attribuisce alla scrittura è ipomnemmatica, cioè di ausilio alla memoria di chi già sa; al massimo il testo scritto, in questo caso i dialoghi di Platone, possono assolvere anche a una funzione protrettica di introduzione alla filosofia. Quest'ultima si realizza in forma compiuta solo oralmente.[7]
4. La non-uguaglianza
Non siamo "uguali": a maggior ragione, per Platone, c'è il rischio che le "cose più importanti" che abbiamo da dire finiscano per essere travisate, tradite, incomprese.[8] Al mito rassicurante dell'eguaglianza, Platone, in questa interpretazione, contrappone la più perturbante "disuguaglianza" tra gli uomini. Infatti, per il filosofo ateniese, la forma più adeguata di comunicazione è quella che nasce da una consolidata frequentazione tra gli interlocutori. Non c'è bisogno di parlare per comprendersi: senza parole, perché si potrebbe dire, giocando, è solo questione di feeling![9] La disuguaglianza è il dato di partenza, l'uguaglianza - relativa e non assoluta - è soltanto un punto di arrivo, ma, piaccia o non piaccia, giammai un punto finale raggiungibile una volta per tutte. Non lo è stato finora e non lo sarà mai. Finirà la mia vita, finirà la tua, ma la vita sarà comunque. La storia non finisce qui, a dispetto di Fukuyama e del post-muro di Berlino. Ovviamente, Platone - se è corretta questa interpretazione - parla della morale e non immediatamente della politica, che ne discende, con i suoi momenti elettorali, ma molte difficoltà degli attuali sistemi dmocratici di tipo rappresentativo - credo - possano essere spiegati anche a partire da tali affermazioni.
Quanto ho sostenuto qui sinora invoca evidentemente il principio della "responsabilità individuale", quale sia il punto di vista assunto per la sua affermazione. Esso presuppone due questioni preliminari. La prima: l'orfanità dell'uomo, nel senso dello svincolamento attuale, condiviso o meno, della legge morale e dell'etica dal metafisico e dal trascendente. Sebbene questione posta, anche se in altri termini, in più occasioni già in Friedrich Nietzsche[10], questo è il senso, a mio avviso, di buona parte della riflessione in merito e della stessa formula del "dopo Auschwitz".[11] D'altronde al senso dell'abbandono si ricollega la questione del riconoscimento dell'altro e da parte dell'altro. Così l'urlo di Giobbe:
Io Ti invoco, ma Tu non mi rispondi, son fermo in piedi, Tu siolo mi osservi! Sei diventato crudele on me, con la tua mano possente mi avversi! Mi sollevi, a cavallo del vento, mi fai ricadere dissolto ed esausto! So bene che mi riconduci alla morte, alla casa di convegno dei vivi.[12]
Massimo Cacciari, a tale riguardo, interpreta la disperata lamentazione di Giobbe come quella di colui che vuole riconoscer-si nell'altro e sa che la conoscenza di se stesso non può che passare attraverso ciò.[13]
5. Città romana e città greca
Ancora qualche chiarimento. Massimo Cacciari, in un breve saggio del 2004, distingue tra "città" romana e "città" greca nel modo seguente:
Quando un greco parla di pólis intende anzitutto la sede, la dimora, il luogo in cui un determinato génos, una determinata stirpe, una gente (gens/génos) ha la propria radice. Nella lingua greca il termine pólis risuona immediatamente di un'idea forte di radicamento. La pólis è quel luogo dove una gente determinata, specifica per tradizioni, per costumi, ha sede, ha il proprio éthos. In greco éthos è un termine che indica la stessa radice del latino sedes, e non ha nessun significato semplicemente morale, come invece il latino mos [...] E la pólis è proprio il luogo dell'éthos, il luogo che dà sede ad una gente. Questa determinatezza ontologica e genealogica del termine pólis non è presente nel latino civitas. La differenza è radicale, perché il latino civitas, se si riflette bene, indica la sua provenienza dal cives, cioè da un insieme di persone che si sono raccolte per dar vita alla città [...] Civitas è un termine che deriva da civis, quindi in qualche modo appare come un prodotto dei cives nel loro convenire insieme in uno stesso luogo, darsi le medesime leggi [...] Il primo dio a cui viene eretto un tempio a Roma è il dio Asylum. Roma si fonda attraverso l'opera concorde di persone che addirittura dalle loro città, che erano dunque esuli, raminghi, profughi, banditi, e che confluiscono in un medesimo luogo, fondando Roma. Quest'aspetto domina tutta la storia romana: l'idea di cittadinanza non ha ha alcuna radice di carattere etnico-religioso. Certo c'erano gli schiavi, che sono un caso a sé, ma tra liberi si è cittadini al di là di ogni distinzione di stirpe o di credenze.
Lo stesso mito fondativo di Roma, l'arrivo di Aenēās nel Lazio, il successivo matrimonio con Lavinia da cui nacque Silvio, sta alla base delle affermazioni di Cacciari. Tale carattere iniziale implica un altro aspetto distintivo della civitas romana rispetto alla pólis greca: il carattere includente contrapposto al carattere escludente. Mentre la città romana accoglie chiunque sia "libero" - ne è prova la stessa storia degli imperatori - quella greca esclude tutti coloro che, oltre agli schiavi, non appartengano al génos.
In realtà, la distinzione individuata da Cacciari non deve essere interpretata rigidamente. Infatti, alla civitas romana non sono estranei tratti legati alla nozione di génos, sia nel senso della "famiglia" di tipo parentale, sia nel senso di "famiglia" come "potentato". Canfora (1999) nota infatti come Caio Giulio Cesare abbia legato a sé personaggi influenti e meno influenti con l'elarginazione di danaro, nella ricerca di consenso. La conquista della carica di Pontefice Massimo nel 63 gli costò un fortissimo indebitamento, che seguiva altri costosi impegni. La soluzione, egli sapeva e andava sostenendo, era la guerra civile. Ma tutto ciò era il frutto di una pratica costante:
L'indebitamento cesariano, divenuto un baratro con le due campagne elettorali per il pontificato e per la pretura, aveva anche altre cause. La politica di un "potentato", nella pratica quotidiana, aveva un continuo bisogno di denaro. "Aveva legato a sé - informa Svetonio - tutto l'ambiente attorno a Pompeo e gran parte del Senato con prestiti a basso interesse, o addirittura senza alcun interesse.[14]
L'origine di queste informazioni è sempre Svetonio. Se si ha la pazienza di dare una sguardo alla sua opera sui Cesari, si vedrà come quanto detto su Caio Giulio Cesare viene ripetuto costantemente anche per lo stesso Ottaviano. Stesse pratiche, stessi metodi.
La rilevanza di tali fonti, dunque, permette di sfumare l'opposizione di Cacciari tra polis e civitas, nel senso che esse rappresentano non due realtà paradigmatiche contrapposte, ma piuttosto i punti estremi di una polarità di comportamenti pubblici e politici. Cesare, allora, come Pericle.
6. Babele
All'inizio ho citato un passo di Pier Paolo Pasolini in cui egli accennava con rimpianto alla "Babele linguistica" nell'Italia pre-democratica. Giunti alla chiusura di questo intervento, credo sia utile chiarire tale questione, visto che la parola Babele si associa a due interpretazioni: una positiva e una negativa. In particolare, devo osservare che la seconda è certamente quella più comune e che, in base a essa, il termine è sinonimo di confusione (linguistica), di impossibilità di mutua comprensione. Non sarà impossibile, su tale base, ascoltare espressioni di denigrazione della democrazia: la democrazia è una babele, il parlamento è una babele e simili. Ma, come è noto, c'è anche un'altra interpretazione, quella per cui essa è sinonimo di ricchezza (linguistica) e di pluralità delle culture. Ma veniamo alla narrazione biblica in Genesi 11, 1-9:
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese del Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cuciniamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non dispenderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.[15]
Si deve allo splendido saggio di Apel (1963) la messa in evidenza della seconda interpretazione: quella legata alla festività della Pentecoste.[16] La discesa dello Spirito Santo comporta l'elargizione di una serie di doni, come si celebra nel Veni Creator:
Veni,
creator Spiritus,
...
Qui diceris Paraclitus,
donum Dei altissimi,
fons vivus, ignis, caritas
et spiritalis unctio.
...
Hostem repellas longius
pacemque dones protinus;
ductore sic te praevio
vitemus omne noxium.
...
Negli Atti degli Apostoli (Atti. 2,1-21), un segno caratterizzante della Pentecoste è il dono delle lingue che si contrappone, in una sorta di parallelismo, all'episodio della Torre di Babele nell'Antico Testamento. Esso è un dono di Dio che dà pace, unità e comunione. Apel sottolinea come questo cambiamento sia particolarmente significativo nella concezione del linguaggio e delle lingue: queste, in particolare, non sono più viste come segno del castivo divino, ma come ricchezza benefica. La stessa diversità delle varie comunità è interpretata come sovrabbondanza dell'umanità. Non c'è più l'indistinta comunità originaria, ma una poliforme moltitudine di società, etnie, civiltà. In un certo senso, si può dire che è da questo momento che inizia la "storia umana" come la intendiamo noi. E' l'inizio di una negoziata fratellanza, oppure il primo momento di una dis-graziata conflittualità: la storia umana contraddistinta da una potenziale positività, oppure sempre da una potenziale negatività. Anche in questo caso, il tema della "scelta" (aut-aut), come quello della "responsabilità", riappare.
Lo psicoanalista junghiano James Hillman, più di recente, ha ripreso la questione "Babele", in occasione di una conferenza in Italia nel 1999. Pur riprendendo nella sostanza l'argomentazione di Apel, Hillman aggiunge alcune considerazioni che mi consentono di approfondire la "Babele" pasoliniana. Egli affronta tre temi. Il primo: quello dell'origine di un così gran numero di lingue. Il secondo: quello della molteplicità dei popoli su tutta la terra. Il terzo: il problema della hybris. In particolare, in riferimento alla terza questione:
[...] quando il popolo è ancora un unico popolo che concepisce l'idea di arrivare fino al cielo o, come dicono più tardi i commentatori ebrei, che matura l'intenzione di attaccare il cielo, di ingaggiare una guerra con Dio, di innalzare idoli o di distruggere il cielo con lance e frecce.
La punizione fu: a ogni popolo[17] fu assegnata una lingua particolare, e mentre prima tutta la terra aveva un unico modo di esprimersi, ora gli uomini furono dispersi, occuparono l'intera geografia del pianeta, ed ebbero molte lingue. Quindi la dispersione su tutto il pianeta e la grande varietà dei luoghi geografici sono legate alla molteplicità delle lingue, e costituiscono una risposta alla hybris dell'unificazione.[18]
E' quando c'è unicità che si
realizza la hybris della torre, ed è allora che si ha un'unica lingua. E
quando si ha un'unica lingua, si ha la hybris.
La punizione divina non consiste nella
distruzione degli uomini, come avviene nel caso di Sodoma e Gomorra o nel caso
del Diluvio: non si distrugge il mondo, ma si disperdono gli uomini per tutto
il mondo. In altri termini, si crea la
varietà. Hillman annota:
E' difficile dire che si tratti davvero di una punizione. E' per impedire l'atto di hybris, per impedire l'uniformità che si ha la diversità. E' un elemento su cui riflettere, in mezzo a tante poderose spinte verso l'uniformità, nella scienza e nell'economia, negli affari, nella politica, e via dicendo.
Per Hillman, l'aspirazione ad una scienza
unificata, a un diritto internazionale, a una Chiesa e a una lingua universali,
esprime l'idea di aspirazione. Speranza
in una pace universale e nella possibilità di soluzione di tutti i conflitti
attraverso l'unità:
Ma non è questa la lezione che ci viene da Babele. Babele ci dice che l'unità produce una torre, e non è questo che il Signore vuole: lui vuole la diversità, la varietà.
Da una considerazione come questa nasce quella, ormai non tanto immaginaria, analisi di George Orwell nel suo 1984: la Neolingua in opposizione alla Archelingua' che viene ironicamente derisa per ciò che Orwell definisce "la sua vaghezza e inutilità di significato". Se l'obiettivo della Neolingua è quello di restringere il margine di errore, ogni concetto di cui possiamo aver bisogno sarà espresso precisamente da una sola parola, con un significato rigidamente definito e tutti i significati accessori tagliati fuori e dimenticati. Anno dopo anno, sempre meno parole, e il margine di consapevolezza sempre più ridotto. Errore, unicità dei significati, conseguente eliminazione dell'ambiguità, della polisemia e dell'opacità: in sintesi eliminazione della varietà e di quello che molte pagine fa ho richiamato come tratto fondamentale del linguaggio e delle lingue. Distruzione di quella "abbondanza dell'essere" associato alla "abbondanza delle lingue": dstruzione della consapevolezza. Il riferimento al tanto amato da me Feyrabend è obbligatorio. Orwell prevedeva, ma prima di lui lo avevano già fatto gli Atti degli Apostoli. Hillman annota:
Che dire, allora, del bisogno di ambiguità, di suggestività, di enfasi, di ironia, di lusinga, di insulto, di complessità, di fantasia? Che dire degli effetti retorici? Cosa accade alle immagini nella lingua quando, come dice Orwell, "il significato è definito rigidamente, e tutti i significati accessori vengono tagliati fuori"? [...] Saremo ancora capaci di leggere Ariosto, Tasso o Shakespeare, visto che la loro forza sta nell'eccesso, nell'esagerazione, nell'iperbole?
E l'Italia descritta da Pasolini? Essa è per Hillman storia di luoghi, insediamenti locali, città, e il modo di parlare di ogni luogo. I sapori e gli odori di ogni luogo: la lingua della anima mundi e la lingua della anima dei luoghi. Con massima brevità: ricchezza della varietà. E come ben sanno i sociolinguisti della "competenza multipla". E come ben aveva predetto Pier Paolo Pasolini: un pervertimento delle idee di democrazia e di progresso che avrebbe portato all'anemia linguistica, all'uniformazione del sorriso stupido, al ritrarsi impaurito in case isolate pur se in grandi condomini. All'uniformità della politica, all'assenza di idee, magari anche sbagliate, all'assenza di regole. Al Grande Fratello cellularizzato, alla dimensione politica della maggioranza omologata che offre il proprio consenso a un Princeps, alla crisi della democrazia, al significato unico e, comunque, impreciso, della corrispondente parola: democrazia.
Conclusioni
Preferisco, arrivato alla fine, lasciare nuovamente la parola a Luciano Canfora. Nel suo saggio del (2002), Canfora ripropone il tema della morte di Socrate. La maggioranza con il verdetto di condanna è nel giusto? Certamente no: Socrate è condannato perché mette sotto accusa la politica. La legge dei numeri, come ho detto nel corso del mio intervento, non è sufficiente: in quel caso non fa che legittimare una oligarchia dominante. Fare appello ad essa può produrre anche la condanna di Chi è venuto in Gerusalemme a fissare un nuovo patto: sei tu il re dei giudei? dici questo da te oppure altri te l'hanno detto di me? Così molto più tardi Antonio Machado in Campos de Castilla avrà modo di scrivere: ¿Quién me presta una escalera, / para subir al madero, / para quitarle los clavos / a Jesús el Nazareno?
Per tornare ad Atene, Luciano Canfora rileva come, in Erodoto, Senofonte e nello stesso Euripide, il dibattito sul sistema "monarchia" e sul sistema "democrazia" rileva l'assoluta irrilevanza delle forme politiche in quanto forme. Pur essendo nella forma una "democrazia", la città di Atene è governata da un pròtos anèr, dal Princeps Pericle generatore di consenso. "Principe": è questo il termine che Mauro Calise a inizio XXI secolo utilizza per descrivere la contemporanea leadership politica, specie a livello amministrativo.[19] Più di recente è stata impiegata la parola cacicco, meno colta, più brutale ma certamente efficace, vista anche la scarsa qualità dei personaggi in gioco.[20] I cacicchi di oggi sono diversi da Pericle oratore e da Antonio tribuno: essi controllano grandi apparati di comunicazione, giornali e televisioni, dalle quali sorridono oppure ghignano. Minacciando di fare oppure di non fare.
Canfora, nella sua analisi del disprezzo di Platone nei confronti della democrazia ateniese, non ha nessun dubbio nel liberare il filosofo dal pregiudizio dei suoi denigratori democraticistici:
Anomalo, in questo panorama, il caso di Platone, il quale non propugna affatto un governo di casta o di nobiltà del "sangue". Il suo ideale è il più difficile anche se, forse, il più lucido. Il suo "comunismo" infatti presuppone distinzioni etiche di ruoli tra dirigenti e diretti. Ed i filosofi che egli pone al vertice dell'assetto sociale che ha in animo non hanno nulla a che fare con le antiche caste nobiliari: sono i più selezionati e disinteressati cultori del "sommo bene".[21]
E' questo quanto io credo non abbia compreso Cornelius Castoriadis (1993) nella sua ricostruzione della democrazia ateniese e nella sua critica violenta a Socrate e a Platone. Ma con lui si può essere pienamente d'accordo allorchè sembra richiamare il principio di responsabilità qui più volte citato:
La democrazia è l'auto-istituzione [nota mia: non è un regalo] della collettività da parte della collettività - è auto-istituzione in quanto movimento. Certo, questo movimento si radica in e viene di volta in volta promosso da istituzioni precise, ma anche dalla consapevolezza diffusa nella collettività che le nostre leggi sono state fatte da noi e che noi possiamo cambiarle.[22]
Questa è una storia del gran Mar Mediterraneo da dove, per secoli, per mare o per terra tutti i viaggi sono cominciati. Spesso molti, salpati con tempo sereno, sono morti durante la traversata per gli uragani e i fortunali. Tempi nei quali Napoli era la sintesi del Mediterraneo e dell'Oriente.
Bibliografia
K. O. Apel (1963), Die Idee der Sprache in der tradition des Humanismus von dante bis Vico, Bouvier Verlag, Bonn, trad. it. L'idea di lingua nell'umanesimo da Dante a Vico, il Mulino, Bologna, 1963
M. Cacciari (2004), La città, Pazzini ed., Ravenna
M. Cacciari (2004a), Della cosa ultima, Adelphi, Milano
L. Canfora (1999), Cesare. Il dittatore democratico, Laterza, Bari
L. Canfora (2002), Critica della retorica democratica, Laterza, Bari
L. Canfora (2004), La democrazia. Storia di un'ideologia, Laterza, Bari
C. Castoriadis (1993), La democrazia ateniese e i suoi limiti, ristampato in "Lettera internazionale", 4° trimestre, 2008
G. Colli (1971), La nascita della filosofia, Adelphi, Milano
G. Daverio Rocchi, Il mondo dei greci. Profilo di storia, cviltà e costume, B. Mondadori, 2008
J. Dunn (2005), Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, Univ. Bocconi Ed., Milano
F. Ferrari (2006) a. c. di, I miti di Platone, BUR, Milano
M. Foucault (1971), L'ordre du discours, Gallimard, Paris, trad. it. L'ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972
J. Hillman (1999), In lode di Babele, conferenza tenuta presso il Centro interdipartimentale di Studi Antropologici sulla Cultura Antica, 17 novembre 1999, Univ. di Siena
[1] Si vedano Canfora (1999) e (2004) e Cacciari (2004). Rimando anche al recente Daverio Rocchi (2008).
[2] Si tenga presente che la prima parte di Canfora (2004) rappresenta una forte critica contro la Commissione europea presieduta da Giscard d'Estaing che ha elaborato il testo della Costituzione Europea.
[3] Cito da Canfora (2004) p. 12.
[4] Cfr. Dunn (2005) pp. 33-34. Per la modificazione del concetto di "autorità paterna" e di patria potestas, si veda M. Cavina, Il padre spodestato. L'antichità paterna dall'antichità ad oggi, Laterza, Bari, 2007.
[5] Ciò non soltanto in relazione ai giganteschi "scandali" finanziari ed economici che hanno contraddistinto l'età del trionfo (finito molto male) del "libero mercato" che ha messo in discussione la stessa sopravvivenza dell'economia capitalistica contemporanea, ma la stessa interpretazione semplicistica del "relativismo", per la quale sempre tout va bien madama la marchesa e tutto è accettabile perché qualcuno l'ha pensato, l'ha detto, anche se non è mai riuscito ad argomentarlo seriamente. E' cio che è. Anzi: il confronto, il dibattito è respinto in quanto tale, in nome di una presunta necessità di "rispetto". Il semplice individuale dissentire, prima ancora dell'organizzato dissenso, è ritenuto "non normale" o offensivo. Ciò è rilevabile anche nei più quotidiani comportamenti.
[6] Si veda Colli (1971). Si veda anche Ferrari (2006.)
[7] Platone è per certo uno dei filosofi classici che ha lasciato un numero elevato di testi scritti e, quindi, viene da porsi il seguente interrogativo: come si concilia la sua posizione sull'insegnamento della filo-sofia e sulla scrittura con i suoi testi? Si può rispondere che non è casuale il fatto che egli abbia elaborato i propri insegnamenti sotto la forma del "dialogo", cioè sotto quella specie discorsiva per definizione più prossima alla rappresentazione dell'oralità.
[8] A mio avviso, si comprende bene il senso semiologico delle affermazioni platoniche sul piano ermeneutico. Si comprendono, altresì, le preoccupazioni "morali" e, a discendere, quelle "politiche. Ma si capiscono anche i limiti delle interpretazioni "psicologistiche" legate alla funzione autoriale nell'analisi di un testo, quelle semplicisticamente "storicistiche" e/o "sociologistiche" e, ovviamente, di quelle legate alla "oggettività delle affermazioni" contenute in esso. Alle caratteristiche della definizionale limitatezza (Platone) e del potenziale occultamento (Roland Barthes) legati alla scrittura, in realtà, va aggiunto un altro aspetto, a mio avviso, non secondario: la scrittura può esaltare quei tratti propri del linguaggio verbale umano e cioè l'ambiguità e la polisemia. Ciò non nel senso superficiale dato dalla "opera aperta", quanto piuttosto in un senso di per sé più complesso e più semplice allo stesso tempo. Contrariamente al testo prodotto in un'interazione faccia a faccia il cui tasso potenziale di ambiguità (sempre comunque presente) si vede ridotto dalla compresenza degli interlocutori che, sulla base della reciproca osservazione e conoscenza, riescono a sciogliere i nodi legati alla non-comprensione, nel caso, invece, di un testo scritto tale possibilità non è data, specie in quei casi in cui la tensione dell'autore all'esplicitezza e alla formalizzazione sia molto bassa, per volontà o per incapacità. Cioè: nell'assoluta maggioranza dei testi scritti.
[9] Gli studiosi della comunicazione inter-personale, sanno perfettamente che il problema non è comunichiamo?-non comunichiamo?, ma più semplicemente: quanto e che cosa riusciamo a comunicar-ci?
[10] Il richiamo qui è alla massima nietschiana della "morte di Dio": si tenga presente che essa va interpretata, come è noto, nel senso che (a) Dio è la rappresentazione simbolica dell'essere al di là dell'essere, cioè tutto quanto consista in un altro mondo contrapposto a questo mondo e (b) esso è altresì la rappresentazione personificata di tutte le "certezze" metafisiche che sono servite a costruire senso e dare ordine all'esistenza umana. Il richiamo bibliografico è a Nietsche (1882), (1885) e (1988).
[11] Per tale formulazione si veda, ad esempio, Jonas (1987). Va notato che, nella Prefazione al breve testo di Jonas, C. Angelino riprende il salmo di Paul Celan Tenebrae ("Siamo vicini, Signore, vicini e afferrabili [...] Prega, Signore, siamo vicini") e nota, a proposito della lettura della poesia da parte di Hans Gadamer, come la volontà di dimenticare Auschwitz sia diventato nella cultura europea un "riflesso condizionato".
[12] Cfr Il libro di Giobbe, trad. e cura di Amos Luzzatto, Feltrinelli, Milano, 2006, 30, 20-24, p. 104.
[13] Cfr. Cacciari (2004) pp. 174-177. Il Libro di Giobbe appartiene a quella letteratura vetero-testamentaria che pone il problema della "distribuzione equa della giustizia", cioè del rapporto tra virtù e ricompensa, da un lato, e tra empietà e punizione, dall'altro. Mentre, però, il Qoelét (o Ecclesiaste in latino) si risolve nello scetticismo del tutto è fumo di fumi, Giobbe, invece, si rivela come la ricerca disperata di quanti cercano un rapporto senza mediazione con l'Onnipotente. Giobbe è, infatti, colui che più di chiunque altro crede nella Sua giustizia. Vale la pena ricordare, allora, il Salmo 22 dove si può leggere, nella traduzione di Ceronetti: "[...] TU MI HAI RISPOSTO! / grido il tuo nome tra i miei fratelli / tra i radunati alzo la mia lode /Laudatelo tementi del Signore! / Glorificatelo serme di Iacòb! / Stupitene o prole d'Israel! / La mieria di un miserabile (non gli fa orrore né schifo / non gli volta la faccia / accoglie il grido che gli è gettato [...]". Cfr. G. Ceronetti, Trafitture di tenerezza. Poesia tradotta 1963-2008, Einaudi, Torino, 2008.
[14] Cfr. Canfora (2002) p. 31
[15] Dal punto di vista archeologico, si fa corrispondere la biblica Torre di Babele alla gigantesca ziqqurat iniziata dal sovrano babilonese Nabucodonosor I (XII secolo a.C.). L'opera rimase incompiuta fino a qualche secolo dopo, con i sovrani della dinastia caldea Nabopolassar e soprattutto Nabucodonosor II (VII secolo a.C.). La ziqqurat Etemenanki, dedicata al dio Marduk, nel periodo di Nabopolassar era alta 30 cubiti (circa 15,30 o 22,90 m), come si deduce dalle descrizioni del figlio Nabucodonosor II. Fu visitata anche da Erodoto, che, nonostante le distruzioni causate dal re persiano Serse I, la descrive come un monumento ancora imponente.
[16] La festività della Pentecoste è di origine ebraica ed è una delle tre festività, dette Shalosh regalim, di pellegrinaggio a Gerusalemme. Essa si riferisce allo Shavuot (lett. "settimane"), celebrato sette settimane dopo La Pasqua ebraica, iniziando a contare dal secondo giorno di Pasqua, il 16 di Nisan. La festività ebraica era legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul Monte Sinai. Nella successiva tradizione cristiana, la Pentecoste celebra la discesa dello Spirito Santo interpretato come la nuova legge donata da Dio ai suoi fedeli e la nascita della Chiesa. Questa festa viene quindi detta anche Festa dello Spirito Santo e conclude le festività del Tempo pasquale.
[17] In realtà, Apel ricorda come a ogni "mestiere" fu assegnata una lingua. Ciò mi pare più significativo, giacchè questa precisazione consente di attribuire a ogni "popolo" una sua specificità, in particolare quella relazione tra Volk e Sprachgeist celebrata, molto più tardi, Da W. Von Humboldt in Über den Nationalcharakter ded Sprachen (Heidelberg, 1808).
[18] Hillman nota come esistano moltissimi miti delle origini; non dell'origine della lingua, ma della costruzione di una torre che arrivi a toccare il cielo - i Nyambi ne hanno una in Messico, a Cholula, e in Messico ne hanno una pure i Toltechi, nell'Assam ce l'hanno i Cuki, in Birmania ce l'hanno i Karen: si tratta sempre di manifestazioni di hybris, di superbia, di arroganza, del tentativo di scalare e di aggredire la potenza di Dio.
[19] M. Calise, Il partito personale, Laterza, Bari, 2001.
[20] Cacique o cazique (italianizzato in cacicco) è un termine con cui si definivano tradizionalmente i capi di alcune comunità tribali in America latina. Ancora oggi viene usato in Messico per indicare il capo del villaggio. La parola originariamente apparteneva alla lingua dei taino (etnia caraibica appartenente al gruppo degli arawak). Il termine è entrato poi in uso anche in altri contesti, per indicare capi in grado di controllare personalmente intere comunità. In particolare in Spagna, esso ha preso ad indicare quei grandi proprietari che, avendo ridotto in una situazione di totale dipendenza le comunità locali, per lo più rurali, finivano per controllare la vita politica, economica e sociale di intere regioni. Da qui il fenomeno del caciquismo.
[21] Si veda Canfora (2002), p. 36.
[22] Cfr. Castoriadis (1993), ristampato (2008), p. 4.