Storia Economica dell'etą contempor


Rita Mascolo*

La convergenza mancata. Radici storiche, governance europea e polarizzazione territoriale

 

 

*Lecturer in Storia economica presso la LUISS University di Roma e Assegnista di ricerca presso l'Università di Catania.  


 

 

 

Abstract: L'articolo indaga le radici storiche della persistente divergenza territoriale nell'Europa integrata, adottando un approccio di storia economica comparata. Attraverso una ricostruzione di lungo periodo, evidenzia che istituzioni, capitale umano e specializzazioni produttive hanno generato traiettorie cumulative, path dependence e fenomeni di lock-in, sfociando in configurazioni di club convergence, in cui solo alcune regioni riescono a colmare i divari mentre altre restano intrappolate in percorsi di stagnazione. Il processo di integrazione economica e monetaria europea, privo di una compiuta unione fiscale e politica, ha cristallizzato vincoli macro-istituzionali che hanno avvantaggiato i sistemi regionali più competitivi, accentuando la polarizzazione tra aree metropolitane e periferie. Le evidenze più recenti mostrano che strumenti, quali Next Generation EU e Green Deal europeo, incidono sui divari solo se integrati in strategie place-based di specializzazione intelligente, sostenute da investimenti in capitale umano, rafforzamento delle capacità amministrative e avanzamento dell'architettura fiscale comune; in assenza di tali condizioni, essi rischiano di consolidare rendite localizzate e rafforzare le dinamiche di club convergence, perpetuando una geografia europea dello sviluppo a più velocità.

 

 

Abstract: This article investigates the historical roots of persistent territorial divergence in integrated Europe, adopting a comparative economic history approach. Through a long-term reconstruction, it shows that institutions, human capital, and productive specializations have generated cumulative trajectories, path dependence, and lock-in phenomena, resulting in club convergence configurations, where only some regions bridge the gaps while others remain trapped in stagnation. The process of European economic and monetary integration, lacking a complete fiscal and political union, has crystallized macro-institutional constraints that have favored the most competitive regional systems, accentuating the polarization between metropolitan areas and peripheries. The most recent evidence shows that instruments such as Next Generation EU and the European Green Deal affect these gaps only when integrated into place-based smart specialization strategies, supported by investments in human capital, strengthened administrative capacity, and progress toward a common fiscal architecture. In the absence of such conditions, they risk consolidating localized rents and reinforcing the dynamics of club convergence, thus perpetuating a multi-speed European geography of development.

 

Parole chiave: divari territoriali; club convergence; path dependence storica; integrazione economica europea; politiche di coesione.

 

Keywords: territorial disparities; club convergence; historical path dependence; European economic integration; cohesion policies.

 

 

Sommario: 1. Introduzione; 2. Modelli di crescita e dinamiche dei divari regionali; 3. Le radici storiche della diseguaglianza territoriale in Europa; 4. Governance economica europea e traiettorie divergenti; 5. Conclusioni.

 

1.      Introduzione

I divari territoriali in Europa restano profondi e persistenti, nonostante oltre sei decenni di integrazione economica, avviata con i Trattati di Roma e consolidata attraverso la creazione del Mercato Unico, l'istituzione dell'Unione Monetaria e gli allargamenti verso l'Europa centro-orientale. Le politiche di coesione e convergenza, sancite dall'art. 174 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea e attuate attraverso i Fondi strutturali e di investimento europei, insieme alle più recenti strategie per la transizione digitale ed ecologica promosse dal Next Generation EU e dal Green Deal europeo, hanno inciso solo parzialmente sulle disparità regionali, mostrando risultati limitati rispetto agli obiettivi dichiarati (European Commission, 2024; Monfort, 2020).

Questo articolo si colloca nel dibattito sulla convergenza regionale, integrando prospettive teoriche differenti. I modelli neoclassici prevedono che l'integrazione economica favorisca la convergenza, grazie ai rendimenti decrescenti del capitale e alla diffusione delle tecnologie (Barro & Sala-i-Martin, 1992; Solow, 1956; Swan, 1956). Tuttavia, le evidenze empiriche mostrano dinamiche più lente e disomogenee. Le teorie della crescita endogena sottolineano, invece, il ruolo del capitale umano e dell'innovazione, mentre la prospettiva istituzionale evidenzia l'impatto della qualità della governance (Acemoglu & Robinson, 2012; North, 1990). Secondo l'economia geografica evolutiva, le economie di agglomerazione e i processi di path dependence favoriscono la formazione di concentrazioni territoriali di conoscenza e opportunità (Iammarino et al., 2019). Ulteriori studi segnalano anche il rischio di lock-in tecnologico e istituzionale (Arthur, 1989; David, 1985) e suggeriscono che la convergenza possa assumere una natura selettiva, generando fenomeni di club convergence, in cui solo alcuni gruppi di regioni riescono a colmare i divari.

Questi elementi teorici si intrecciano con il percorso dell'integrazione europea, che ha privilegiato la liberalizzazione dei mercati rispetto a una compiuta unione fiscale e politica; tale squilibrio istituzionale ha favorito i territori più competitivi, lasciando maggiormente esposte le regioni periferiche e le aree a specializzazione manifatturiera tradizionale. Le recenti politiche europee intervengono in un contesto segnato da traiettorie di lungo periodo difficili da invertire. Le storiche differenze negli assetti agrari, nei regimi fiscali e nei modelli di urbanizzazione, così come l'impatto differenziato delle rivoluzioni industriali, hanno consolidato e amplificato divari strutturali, generando percorsi cumulativi di sviluppo regionale che l'integrazione europea non è riuscita a ricomporre (Glawe & Wagner, 2021; Broadberry, 2021).

In sintesi, la crescente polarizzazione territoriale pone oggi l'Unione Europea di fronte a un duplice obiettivo: da un lato, sostenere la competitività delle regioni più dinamiche; dall'altro, contrastare l'instabilità derivante da diseguaglianze persistenti. Come sottolineano Iammarino et al. (2017, p. 4), "Europe's economic future now is, more than ever, the future of its regions".

Alla luce di queste dinamiche, il presente contributo adotta un approccio di storia economica comparata, combinando la ricostruzione delle politiche europee con l'analisi delle trasformazioni strutturali dei sistemi produttivi regionali di lungo periodo. L'analisi utilizza dati Eurostat a livello NUTS-2, confrontati con le principali evidenze della letteratura recente, e interpreta le disparità territoriali attraverso i concetti di path dependence, resilienza e club convergence. Il paper intende rispondere a una domanda centrale: perché, nonostante oltre sei decenni di integrazione e più di trent'anni di politiche di coesione, i divari territoriali europei persistono e quali fattori storici, istituzionali e tecnologici ne hanno determinato la recente evoluzione?

L'articolo è organizzato come segue: il paragrafo 2 presenta il dibattito teorico sui divari regionali; il paragrafo 3 ricostruisce le radici storiche delle disuguaglianze territoriali in Europa; il paragrafo 4 analizza il ruolo del path dependence e il sequenziamento del processo di integrazione europea, mostrando come l'ordine delle riforme abbia inciso sui divari territoriali; seguono le dovute osservazioni conclusive.

 

2.      Modelli di crescita e dinamiche dei divari regionali

La riflessione teorica sui divari territoriali in Europa trova una delle sue prime e più influenti formalizzazioni nell'ambito dell'economia neoclassica della crescita, in particolare attraverso il modello di Solow-Swan (Solow, 1956; Swan, 1956). Questo quadro analitico si fonda sull'assunto che, a parità di parametri strutturali - come tassi di risparmio, crescita demografica, progresso tecnico ed efficienza produttiva - le economie, e per estensione le regioni, con minore capitale pro capite tendono a registrare tassi di crescita più elevati rispetto a quelle più ricche, in virtù dei rendimenti marginali decrescenti del capitale fisico. Tale meccanismo, nel lungo periodo, dovrebbe condurre a una convergenza assoluta dei livelli di reddito pro capite, fino al raggiungimento di un comune stato stazionario.

In questo modello, un ruolo determinante è attribuito alla diffusione tecnologica. Le regioni a sviluppo ritardato possono beneficiare di un "latecomer advantage" (Abramovitz, 1986; Gerschenkron, 1962), importando innovazioni e pratiche produttive già consolidate nei contesti leader e sfruttando una maggiore capacità di assorbimento tecnologico (absorptive capacity), evitando così parte dei costi e dei rischi legati alle attività di ricerca e sviluppo (R&S). In questo quadro, il catching-up consente alle aree arretrate di sperimentare fasi temporanee di crescita accelerata, riducendo progressivamente il divario con le regioni più avanzate (Abramovitz, 1986; Bernard & Jones, 1996). Dunque, secondo la prospettiva neoclassica, la riduzione delle disparità territoriali costituisce un esito naturale dei processi di integrazione economica e di libera circolazione dei fattori produttivi.

Il dibattito teorico si arricchisce con il contributo di Barro e Sala-i-Martin (1992), che formalizzano il concetto di β-convergenza, distinguendo tra convergenza assoluta e convergenza condizionata. Nel primo caso, se i parametri strutturali sono simili, le regioni con livelli iniziali di reddito pro capite più bassi dovrebbero crescere più rapidamente di quelle più ricche, conducendo nel lungo periodo a una sostanziale omogeneità dei livelli di reddito. Tuttavia, le evidenze empiriche mostrano che questa ipotesi è raramente confermata a livello interregionale, mentre trovano maggiore supporto i modelli di convergenza condizionata (Sala-i-Martin, 1996; Islam, 1995). Secondo quest'ultima prospettiva, i territori convergono non verso un unico equilibrio comune, ma verso stati stazionari differenziati, determinati da specifiche dotazioni di capitale umano, qualità istituzionale, struttura produttiva e capacità innovativa. In altre parole, le regioni meno sviluppate possono sperimentare tassi di crescita relativamente più elevati solo a condizione di disporre di istituzioni solide, sistemi educativi efficienti, politiche di investimento orientate all'innovazione e un'adeguata capacità di assorbimento delle conoscenze (Mankiw et al., 1992).

Le analisi empiriche sulla β-convergenza di Barro e Sala-i-Martin, condotte a livello di Stati membri e su serie storiche comprese tra gli anni Sessanta e Novanta, hanno evidenziato segnali di convergenza moderata nell'Europa occidentale, con un coefficiente di β negativo, ma statisticamente significativo, stimato intorno all'1,5-2% annuo (Sala-i-Martin, 1996; Barro & Sala-i-Martin, 1995). In questa fase, le dinamiche di catching-up risultavano particolarmente visibili nei paesi periferici come Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia, beneficiari sia della modernizzazione industriale sia dei primi fondi strutturali (Boldrin & Canova, 2001). A partire dagli anni Duemila, tuttavia, la velocità della β-convergenza tende a ridursi sensibilmente, mentre la dispersione dei redditi regionali aumenta, soprattutto dopo gli allargamenti a Est del 2004 e 2007 (Monfort, 2008). È utile distinguere qui tra le due misure: la β-convergenza indica la velocità di avvicinamento dei redditi medi, mentre la σ-convergenza misura la dispersione complessiva tra regioni. Le evidenze mostrano che la riduzione dei divari medi non si è tradotta in una contrazione della varianza interregionale, che risulta stabile o crescente nel nuovo millennio.

La crisi finanziaria globale del 2008, seguita dalla crisi dei debiti sovrani (2010-2012), ha ulteriormente modificato le dinamiche. Se, da un lato, alcune economie dell'Europa centrale e orientale hanno proseguito un percorso di catching-up trainato dagli investimenti diretti esteri (IDE) e dalla delocalizzazione produttiva, come in Ungheria, Polonia e Slovacchia, dall'altro, molte regioni periferiche hanno subito contrazioni durature di PIL, occupazione e capitale umano (Dall'Erba & Fang, 2017). Negli anni più recenti, la pandemia di COVID-19 e gli shock geopolitici - in particolare, la guerra in Ucraina, la transizione energetica e l'inasprimento dei dazi e delle misure protezionistiche nelle principali relazioni commerciali - hanno ulteriormente amplificato tali divergenze, producendo una crescente polarizzazione tra regioni leader e aree marginali (Ferreiro & Gómez, 2025; Diemer et al., 2022).

Nel complesso, l'evidenza empirica conferma che la β-convergenza osservata nelle prime fasi dell'integrazione europea ha progressivamente rallentato, fino quasi ad arrestarsi negli ultimi due decenni. Tale dinamica è coerente con l'ipotesi delle trappole di sviluppo regionale, secondo cui la persistenza di gap tecnologici, le differenze nella qualità delle istituzioni e la capacità diseguale di attrarre capitale umano e innovazione generano traiettorie cumulative che tendono a rafforzare le divergenze territoriali (Rodríguez-Pose & Ketterer, 2020; Iammarino et al., 2019). Invero, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, la letteratura sulla crescita ha progressivamente superato i limiti dell'approccio neoclassico con lo sviluppo di modelli endogeni, nei quali progresso tecnologico, accumulazione di capitale umano e innovazione non sono più considerati fattori esogeni, ma esiti di decisioni e investimenti intenzionali (Romer, 1986; 1990; Lucas, 1988). In questa prospettiva, la produttività di lungo periodo dipende dalla capacità dei territori di generare, diffondere e assorbire conoscenza, poiché le esternalità legate a istruzione, ricerca e sviluppo alimentano rendimenti crescenti e traiettorie auto-rinforzanti di crescita (Aghion & Howitt, 1992).

Il capitale umano assume un ruolo decisivo: competenze qualificate e livelli elevati di istruzione non solo favoriscono l'adozione di tecnologie esistenti, ma determinano anche la capacità di generare innovazione. La distribuzione storicamente diseguale del capitale umano ha inciso in modo diretto sulla possibilità dei sistemi produttivi regionali di avviare percorsi sostenuti di crescita e di adattarsi alle trasformazioni tecnologiche. Istruzione e struttura produttiva emergono, dunque, come variabili interdipendenti, la cui evoluzione congiunta ha prodotto configurazioni territoriali profondamente divergenti. Ad esempio, le regioni europee che hanno beneficiato di una precoce alfabetizzazione e di sistemi di istruzione tecnica avanzata - come la Prussia nell'Ottocento o il Nord Italia nella fase post-unitaria - hanno mantenuto nel tempo un vantaggio cumulativo in termini di produttività e diversificazione industriale (Squicciarini & Voigtländer, 2015). Al contrario, territori caratterizzati da ritardi educativi e da una limitata diffusione della formazione tecnica - come il Mezzogiorno italiano o alcune regioni balcaniche - hanno incontrato persistenti difficoltà nel passaggio verso settori ad alta intensità di conoscenza, anche quando sostenuti da trasferimenti pubblici.

Tuttavia, queste dinamiche non possono essere comprese appieno senza considerare il contesto istituzionale entro cui si sviluppano. Le istituzioni modellano gli incentivi economici e condizionano in misura decisiva l'efficacia degli investimenti in capitale umano, innovazione e infrastrutture. In questo piano di analisi si inserisce l'approccio istituzionalista di North (1990), che interpreta le istituzioni come l'insieme di regole - formali e informali - che strutturano le interazioni economiche e sociali e che, nel lungo periodo, plasmano le traiettorie di sviluppo territoriale. Esse definiscono gli incentivi, regolano l'allocazione dei diritti di proprietà, influenzano la qualità dell'amministrazione pubblica, la prevedibilità normativa e la capacità dello Stato di fornire beni pubblici. Sviluppando questa impostazione, Acemoglu e Robinson (2012) hanno collegato la divergenza dei percorsi di crescita alla natura inclusiva o estrattiva delle istituzioni. Le prime favoriscono la crescita diffusa attraverso la tutela dei diritti di proprietà, la stabilità normativa e un ampio accesso alle opportunità economiche; le seconde, invece, concentrano potere e risorse, limitano la partecipazione economica e ostacolano la capacità innovativa.

Le istituzioni incidono, inoltre, non solo sulla dotazione di beni pubblici e infrastrutture, ma anche sulla capacità di assorbire e utilizzare efficacemente i fondi di coesione. Studi recenti mostrano che le aree inizialmente più svantaggiate ottengono benefici più consistenti dai fondi strutturali, soprattutto nei primi sette anni di accesso (Becker et al., 2023). Tuttavia, la complessità amministrativa e la cosiddetta beneficiary capacity ne limitano l'efficacia in molte regioni (OECD, 2025), e solo una parte delle risorse disponibili viene effettivamente spesa (European Commission, 2025a; Charron et al., 2024). Inoltre, in diversi casi, i fondi non raggiungono i destinatari ottimali o i territori che ne avrebbero maggiore necessità (Rodríguez-Pose & Garcilazo, 2015). Ne consegue che il successo delle politiche di coesione dipende non solo dalla disponibilità di risorse finanziarie, ma anche dalla capacità istituzionale di trasformarle in investimenti produttivi e durevoli. Per affrontare queste criticità, la Commissione e il Consiglio europeo sottolineano l'importanza di un approccio di governance plurilivello, orientato ai risultati e capace di affrontare le nuove sfide globali attraverso un coordinamento efficace tra attori istituzionali e un rapido adattamento ai cambiamenti tecnologici e demografici (European Commission, 2025b).

Comprendere l'impatto della qualità istituzionale diventa, quindi, imprescindibile per spiegare perché, a parità di capitale umano e infrastrutture, alcune regioni riescano a innescare processi di crescita sostenibile, mentre altre restano intrappolate in percorsi di sottosviluppo. Tuttavia, la dimensione istituzionale non esaurisce l'analisi, poiché le disparità regionali dipendono anche da processi di concentrazione spaziale e dinamiche cumulative, che richiedono un diverso approccio interpretativo. La geografia economica contemporanea amplia il quadro analitico integrando la prospettiva istituzionale con quella territoriale, ponendo al centro le dinamiche delle economie di agglomerazione, l'innovazione localizzata e le reti di conoscenza. In questa direzione, la New Economic Geography (Krugman, 1991) ha mostrato che la polarizzazione spaziale derivi dall'interazione tra dinamiche di mercato e scelte localizzate, mentre la geografia economica evolutiva (Boschma & Frenken, 2006) sottolinea l'importanza della path dependence e delle capacità innovative territoriali. Le disparità territoriali non derivano soltanto da dotazioni iniziali differenti o da scelte politiche specifiche, ma emergono come esito di processi self-reinforcing, legati alle economie di agglomerazione. Queste ultime operano secondo due logiche principali: marshalliane, basate sulla specializzazione settoriale, mercati del lavoro densi e circolazione di conoscenze tacite (Marshall, 1890; Glaeser, 2010); jacobiane, fondate sulla diversificazione produttiva e sull'innovazione cross-settoriale (Jacobs, 1969).

Il fenomeno era già evidente durante la prima e la seconda rivoluzione Industriale: distretti come la Manchester ottocentesca o la Ruhr tedesca tra fine XIX e inizio XX secolo concentravano capitali, infrastrutture e competenze, generando vantaggi localizzati che si autoalimentavano. Nella fase contemporanea, l'accelerazione tecnologica e la globalizzazione hanno amplificato tali processi. Secondo il Regional Innovation Scoreboard (European Commission, 2025a), le prime venti regioni europee per performance innovativa - tra cui Stoccolma, Île-de-France, Helsinki-Uusimaa, Berlino, Greater London e il Baden-Württemberg - generano oltre il 50% dei brevetti europei, delineando una geografia dell'innovazione altamente polarizzata. Le economie di agglomerazione producono effetti moltiplicativi non solo in termini di produttività e innovazione, ma anche nella capacità di attrarre capitale umano qualificato, IDE e imprese ad alto valore aggiunto. Tuttavia, generano anche rischi di esclusione per le aree periferiche: le regioni escluse dai poli innovativi sperimentano spesso un circolo vizioso di bassa produttività, fuga di competenze (brain drain) e dipendenza da settori maturi a limitata crescita (Carlino & Kerr, 2014).

Questo fenomeno si inserisce in logiche di path dependence, secondo le quali una volta acquisito un vantaggio localizzato, la densità di competenze, le infrastrutture e le relazioni di mercato tendono a rafforzarlo nel tempo, rendendo complesso l'ingresso di nuovi territori in questi circuiti senza interventi mirati di politica industriale e territoriale (Martin & Sunley, 2006; Arthur, 1989). Casi emblematici includono la regione di Eindhoven, che ha trasformato la storica specializzazione in elettronica in un polo globale dell'alta tecnologia, e l'area di Monaco di Baviera, capace di integrare manifattura avanzata, automotive e intelligenza artificiale, beneficiando di un ecosistema fortemente integrato tra imprese, università e amministrazioni locali. Parallelamente, l'analisi storica dei distretti industriali italiani evidenzia che l'assenza di branching tecnologico verso settori emergenti ha in alcuni casi determinato una perdita di competitività e una progressiva marginalizzazione nello scenario globale (Boschma & Iammarino, 2009; Becattini, 2000).

Combinando gli indicatori relativi a PIL pro capite, produttività, occupazione, spesa in R&S, istruzione terziaria e infrastrutture digitali, il profilo europeo 2020-2025 restituisce un'immagine a gradienti multipli: le regioni del Nord-Ovest e le capitali europee si caratterizzano per un'elevata densità di capitale umano e consistenti investimenti in R&S; i corridoi centro-orientali mostrano un catching-up selettivo, trainato da IDE e manifattura integrata nelle catene globali; ampie periferie restano, invece, intrappolate in specializzazioni produttive mature, con bassa intensità di conoscenza e incomplete dotazioni digitali. In questo contesto, le mappe della polarizzazione metropoli-periferia e le dinamiche di club convergence devono essere lette alla luce delle eredità storiche e del quadro istituzionale, poiché le disuguaglianze contemporanee riflettono traiettorie cumulative radicate nel lungo periodo.

 

3.      Le radici storiche della diseguaglianza territoriale in Europa

La persistenza dei divari territoriali in Europa trova spiegazione in un insieme di eredità storiche stratificate, sviluppatesi lungo tre direttrici principali: istituzioni, capitale umano e struttura produttiva. La letteratura storico-economica ha mostrato come queste dimensioni non operino in modo isolato, ma si rafforzino reciprocamente, generando traiettorie di sviluppo regionali cumulative e autoalimentate da dinamiche endogene (Iammarino et al., 2019; North, 1990). Le differenze nei regimi fondiari e mercantili, nei livelli di urbanizzazione, nell'accesso ai mercati e nella capacità fiscale degli Stati hanno creato, sin dal periodo preindustriale, un mosaico di disuguaglianze regionali. Questi squilibri iniziali furono successivamente amplificati dalla tempistica e dall'intensità delle rivoluzioni industriali, che concentrarono capitale e innovazione in specifiche aree dell'Europa nord-occidentale.

L'eterogeneità istituzionale in Europa affonda le sue radici già in epoca medievale, quando differenti modelli di governance locale hanno prodotto traiettorie divergenti di accumulazione e innovazione. Nelle aree dell'Europa centro-settentrionale, le città-stato mercantili del basso Medioevo - come Bruges, Lubecca o Amburgo - e le repubbliche comunali italiane - tra cui Venezia, Genova, Bologna e Firenze - svilupparono forme di autogoverno, autonomie giuridiche e ordinamenti civici che promuovevano cooperazione, fiducia interpersonale e credito commerciale. Le evidenze storiche confermano che contesti caratterizzati da assetti inclusivi, quali le province olandesi e la Lega Anseatica, abbiano beneficiato di processi cumulativi di crescita, sostenuti da capitale sociale, mercati aperti e autonomia amministrativa (De Moor, 2008; Greif, 2006). Al contrario, vaste aree dell'Europa meridionale e orientale - come la Spagna centrale, l'Italia meridionale o la Polonia della Confederazione nobiliare - furono dominate da istituzioni estrattive e regimi signorili che limitarono mobilità sociale, libertà economica e accumulazione capitalistica. Nei contesti dei latifundia iberici o dei folwark polacchi, il potere politico era concentrato nelle mani di élite aristocratiche spesso ostili all'urbanizzazione e all'innovazione, rallentando la formazione di mercati interni dinamici e indebolendo le basi di un'amministrazione fiscale moderna. Questa traiettoria ha lasciato un'eredità di debolezza istituzionale e fragilità economica che, in molti casi, si è protratta fino al Novecento (Puga & Trefler, 2014; Bertocchi & Canova, 2002).

Inevitabilmente, anche la capacità fiscale degli Stati - elemento essenziale per l'erogazione di beni pubblici e investimenti infrastrutturali - ha seguito traiettorie divergenti. Paesi come la Gran Bretagna, la Svezia o i Paesi Bassi hanno sviluppato precocemente fiscal-military states, ovvero apparati centrali in grado di raccogliere imposte, finanziare eserciti e investire in opere pubbliche, grazie a un equilibrio tra autorità statale e rappresentanza parlamentare (O'Brien, 2011). Questi sistemi contribuirono a favorire l'espansione della pubblica istruzione, della sanità e delle ferrovie già nel XIX secolo, alimentando la crescita industriale e l'urbanizzazione. Al contrario, in Italia meridionale o nei Balcani ottomani, l'assenza di strutture burocratiche stabili e la debole capacità di estrazione fiscale ostacolarono lo sviluppo infrastrutturale, l'accumulazione di capitale umano e la creazione di una classe media urbana. Inoltre, l'eredità di istituzioni municipali autonome, come quelle del Nord Italia, della Germania renana o della Catalogna, ha avuto effetti duraturi sulla crescita urbana e industriale nel lungo periodo (Dincecco & Katz, 2016). In Italia, in particolare, parte delle differenze tra Nord e Sud si spiegano con la maggiore continuità delle istituzioni comunali nel Settentrione e con una più precoce diffusione di scuole e reti associative, che hanno consolidato pratiche amministrative più efficaci nel periodo postunitario.

La persistenza di queste capacità amministrative riflette dinamiche di path dependence, radicate in sedimentazioni istituzionali di lungo periodo, spesso risalenti all'età premoderna. Questa eredità storica spiega perché i tentativi successivi di riequilibrio territoriale - dallo sviluppo regionale di ispirazione keynesiana nel secondo dopoguerra alle politiche di coesione europee - si siano spesso dovuti innestare su assetti locali preesistenti, talvolta rafforzandoli in senso disfunzionale e contribuendo a fenomeni di lock-in istituzionale (Arthur, 1989). Esemplari, in tal senso, sono i casi della Germania orientale e del Mezzogiorno italiano. Nel primo, il crollo del sistema socialista e la riunificazione con la Germania occidentale hanno comportato un massiccio trasferimento di risorse pubbliche e una piena armonizzazione legislativa; tuttavia, la debolezza delle reti istituzionali locali e la discontinuità amministrativa hanno limitato l'efficacia degli interventi, lasciando persistenti divari di produttività, innovazione e capitale umano rispetto ai Länder occidentali (Burda, 2008). Analogamente, nel Mezzogiorno d'Italia, gli interventi straordinari promossi dallo Stato a partire dagli anni Cinquanta - pur colmando alcune carenze infrastrutturali - non sono stati accompagnati da un rafforzamento stabile delle capacità amministrative locali, né da un'inversione delle dinamiche clientelari o estrattive preesistenti (Felice, 2019; Barca, 2006). In entrambi i casi, il peso delle eredità istituzionali pregresse ha contribuito a generare uno scollamento tra l'entità delle risorse stanziate e gli esiti di sviluppo conseguiti. Le istituzioni, dunque, non costituiscono semplicemente il contesto in cui si realizza lo sviluppo economico, esse ne sono parte integrante. La geografia economica europea riflette ancora oggi questi sentieri divergenti, che pongono limiti stringenti all'efficacia di politiche standardizzate e impongono una comprensione storicamente informata dei processi di divergenza territoriale.

Tutt'oggi, la qualità del governo a livello subnazionale si conferma una determinante principale della performance economica regionale. Indicatori, quali la legalità, l'imparzialità amministrativa, la trasparenza e il controllo della corruzione si associano sistematicamente a una maggiore capacità di attrarre investimenti, a migliori risultati in termini di innovazione e a una gestione più efficiente dei fondi europei, soprattutto nell'ambito delle politiche di coesione (Rodríguez-Pose & Di Cataldo, 2015). Secondo l'indicatore Quality of Government del QoG Institute (Charron et al., 2024), le regioni europee caratterizzate da livelli più elevati di legalità, imparzialità amministrativa e controllo della corruzione registrano, a parità di altre condizioni, un PIL pro capite superiore del 20-25% rispetto a quelle con performance istituzionali più deboli. I dati Eurostat mostrano che regioni come la Svezia meridionale, la Danimarca occidentale e i Länder tedeschi meridionali - contraddistinti da governance stabile e inclusiva - si collocano ai vertici europei per produttività del lavoro e capacità di attrarre IDE, mentre aree con indicatori istituzionali più bassi, come parte della Bulgaria, della Romania e del Mezzogiorno italiano, continuano a registrare ritardi significativi.

Accanto al ruolo delle istituzioni, il capitale umano rappresenta un'altra componente essenziale nella spiegazione delle disparità territoriali europee. Le divergenze attuali riflettono profonde discontinuità storiche nella diffusione dell'istruzione, nell'accumulazione di competenze e nella capacità dei sistemi produttivi di adattarsi al cambiamento tecnologico. Queste asimmetrie emersero già durante la prima rivoluzione industriale, quando la combinazione tra alfabetizzazione, innovazione e organizzazione del lavoro - dal putting-out system alla fabbrica meccanizzata - si diffuse in modo disomogeneo nello spazio europeo. Regioni come le Midlands britanniche, la Ruhr tedesca o il Nord della Francia furono in grado di concentrare capitale umano e infrastrutture produttive, mentre vaste aree dell'Europa meridionale ed orientale rimasero escluse da questi processi (Allen, 2009; Mokyr, 2002).  In particolare, la Prussia, con la sua rete di scuole primarie obbligatorie, e il Regno Unito, grazie al precoce legame tra formazione tecnica e manifattura, accumularono vantaggi cumulativi che si consolidarono durante la seconda rivoluzione industriale (Squicciarini & Voigtländer, 2015; A'Hearn et al., 2009). Al contrario, in molte aree mediterranee e balcaniche, l'analfabetismo e la debolezza dell'apparato educativo hanno ostacolato la formazione di un mercato del lavoro qualificato, generando effetti duraturi sulla produttività e sulla capacità innovativa.

Nel corso del Novecento, i modelli di state-led development fondati su politiche educative e industriali attive hanno contribuito, a seconda dei contesti, ad ampliare o ridurre le diseguaglianze territoriali interne agli Stati europei. Dopo la Seconda guerra mondiale, molti Paesi dell'Europa occidentale hanno avviato programmi di ricostruzione economica che includevano investimenti nell'istruzione, nella formazione tecnica e nella creazione di istituti di ricerca applicata. In Francia, l'espansione delle grandes écoles, il potenziamento del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e la pianificazione centralizzata hanno favorito un forte coordinamento tra Stato e imprese strategiche, sostenendo l'emergere di poli industriali ad alta intensità tecnologica, soprattutto nell'Île-de-France e nella regione di Lione. In Germania Ovest, la riforma del sistema scolastico e l'investimento nei Technologische Hochschulen, spesso collocati in aree già industrializzate come il Baden-Württemberg e la Renania Settentrionale-Vestfalia, hanno fornito il supporto formativo e tecnico al Wirtschaftswunder. Nei Paesi Bassi, la cooperazione tra governi locali, università e imprese ha promosso la crescita di distretti high-tech come quello di Eindhoven attorno a Philips, già dagli anni Cinquanta (Crouch et al., 2001).

In Italia, invece, la frattura Nord-Sud ha continuato a riflettersi anche nella geografia dell'istruzione: nel 1951, il tasso di analfabetismo era ancora superiore al 20% nel Mezzogiorno, contro valori inferiori al 5% nel Settentrione (Felice, 2019). Nonostante l'introduzione della scuola media unica nel 1962 e i programmi straordinari per il Sud, la diffusione del capitale umano e delle infrastrutture educative ha seguito traiettorie divergenti, consolidando diseguaglianze nella localizzazione degli investimenti, nella qualità dell'amministrazione pubblica e nelle opportunità di mobilità sociale. Processi analoghi si sono osservati in Spagna e Portogallo, dove la democratizzazione dell'istruzione di massa è arrivata più tardi, rallentando la convergenza rispetto ai paesi centro-settentrionali.

Dagli anni Ottanta in poi, con la terza rivoluzione industriale e l'ascesa dell'economia della conoscenza, il capitale umano è diventato un fattore ancora più discriminante. I territori dotati di università competitive, centri di ricerca applicata e reti di collaborazione pubblico-private rafforzano i propri ecosistemi innovativi, attraggono investimenti e trattengono talenti. Tuttavia, l'avvio dello European Research Area nel 2000 e i programmi di mobilità accademica transnazionale producono risultati molto diseguali; invero, regioni come il Baden-Württemberg, la Lombardia o la Catalogna consolidano il proprio vantaggio, mentre molte aree del Sud Italia, della Grecia continentale o dell'Est Europa faticano a trasformare gli investimenti in sviluppo duraturo, a causa del brain drain e della debolezza istituzionale (Rodríguez-Pose, 2018).

La fase più recente evidenzia un'ulteriore polarizzazione. L'accelerazione del progresso tecnologico, fortemente skill-biased, premia le regioni ad alta intensità di conoscenza, mentre penalizza quelle a bassa qualifica, soprattutto nelle aree deindustrializzate. La concentrazione di industrie digitali, intelligenza artificiale e tecnologie verdi nelle grandi aree metropolitane amplifica nuove fratture geografiche, accentuando il divario urbano-rurale e metropoli-periferia; infatti, le metropoli europee - da Stoccolma a Monaco, da Amsterdam a Lione - si affermano come hub globali di talenti e imprese knowledge-intensive, mentre le zone rurali e interne restano escluse dalla nuova economia digitale.

Secondo l'European Regional Innovation Scoreboard (European Commission, 2025a), le prime trenta regioni europee per performance innovativa concentrano oltre il 60% della spesa totale in R&S, lasciando ampie porzioni del territorio classificate come modest innovators o emerging innovators. I dati Eurostat (2024) confermano la persistenza di forti disparità nei livelli di istruzione terziaria tra le regioni NUTS-2: mentre in aree come l'Île-de-France, il Greater London o la regione di Stoccolma oltre il 50% della popolazione tra i 25 e i 34 anni possiede un titolo universitario, in molte regioni dell'Europa meridionale e orientale il tasso resta inferiore al 25%. Storicamente, poli come il Baden-Württemberg, la regione di Eindhoven o l'Île-de-France hanno saputo combinare specializzazione produttiva, capacità di ricerca e attrattività di capitale umano internazionale, consolidando la loro leadership in settori ad alta intensità tecnologica.

Le infrastrutture - materiali e immateriali - completano il quadro: l'accessibilità ai mercati, garantita da reti di trasporto efficienti, e la connettività digitale sono fattori essenziali per attrarre investimenti e sostenere l'innovazione. Come mostrano Pascali (2017) ed Eurostat (2024), le regioni con copertura a banda larga superiore al 95% e reti di trasporto integrate registrano, in media, un PIL pro capite del 30% più alto rispetto a quelle meno connesse. Tuttavia, la transizione digitale sta introducendo nuove linee di frattura. La diffusione delle reti VHCN (Very High Capacity Networks) e NGA (Next Generation Access) sta crescendo rapidamente a livello europeo, ma permangono disomogeneità significative, soprattutto nelle aree periferiche e rurali. Secondo il rapporto Digital Decade 2025 - Broadband Coverage in Europe 2024 (European Commission, 2025b), mentre la copertura urbana si avvicina a livelli prossimi alla saturazione, la disponibilità di VHCN nelle zone rurali rimane di gran lunga inferiore, limitando le opportunità di upgrading tecnologico, l'adozione di modelli produttivi innovativi e la capacità di attrarre investimenti ad alta intensità di conoscenza. Inoltre, tali divari di connettività si associano a differenze persistenti nei tassi di occupazione e nella specializzazione settoriale, evidenziando l'esistenza di un canale infrastrutturale che amplifica la polarizzazione metropoli-periferia e incide direttamente sulla competitività regionale.

Chiudendo lo sguardo di lungo periodo, le rivoluzioni industriali hanno agito da moltiplicatore delle asimmetrie preesistenti. Nella prima rivoluzione industriale, alcuni contesti - dalle Midlands britanniche alla Vallonia - combinarono carbone, mercati e disponibilità di lavoro con innovazioni tessili e metallurgiche, innescando crescite cumulative e i primi poli manifatturieri; nella seconda, nuovi centri dell'Europa continentale - Ruhr, Sassonia, Lombardia - capitalizzarono elettricità, meccanica e chimica, sostenuti da reti locali dell'innovazione e dell'apprendimento (Crafts & Wolf, 2014). Tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, l'industrializzazione, spesso promossa e guidata dall'intervento statale, si sviluppò attraverso la creazione di grandi imprese pubbliche, massicci investimenti infrastrutturali e politiche di protezionismo selettivo. Questo modello favorì le regioni dotate di una più solida capacità amministrativa e di un più elevato capitale umano, mentre vaste aree a vocazione agricola rimasero ancorate a specializzazioni primarie a bassa produttività. In numerosi contesti, la realizzazione di reti "a corridoio" pensate per estrarre risorse e convogliarle verso capitali e porti consolidò gerarchie centro-periferia, alimentando dinamiche che la letteratura ha ricondotto anche a forme di "colonialismo interno" (Rodríguez-Pose, 2018; Hechter, 1999; Pascali, 2017; Ciccarelli & Fenoaltea, 2013).

Nel secondo dopoguerra, i programmi di industrializzazione accelerata delle regioni meno sviluppate - realizzati attraverso imprese pubbliche o mediante incentivi agli investimenti privati - hanno raramente generato processi di upgrading duraturo. Laddove l'innesto produttivo è rimasto esogeno e scarsamente integrato nei sistemi locali, gli shock petroliferi degli anni Settanta, seguiti dalla globalizzazione e dalle liberalizzazioni degli anni Ottanta e Novanta, hanno colpito con particolare intensità le "sunset industries" (carbone, siderurgia, tessile), concentrando le perdite occupazionali in territori già strutturalmente fragili e innescando vere e proprie trappole di sviluppo (Iammarino et al., 2019). Una dinamica simile ha interessato numerosi distretti del Centro-Sud italiano, dove la concorrenza asiatica e la debolezza delle politiche di upgrading tecnologico hanno progressivamente eroso i vantaggi competitivi delle specializzazioni mature, non riconfigurate attraverso processi di branching verso settori a più alta produttività (Boschma & Frenken, 2011; Becattini, 2000).

Nella fase più recente, le regioni dotate di università specializzate, infrastrutture tecnologiche e governance multilivello - dall'Île-de-France al North Brabant, fino al Triveneto - appaiono meglio posizionate per intercettare opportunità connesse a Green Deal, Next Generation EU e Just Transition Fund. Tuttavia, in assenza di strategie mirate di investimento e smart specialisation nei territori in ritardo, tali leve rischiano di amplificare - non ridurre - i divari, data la natura cumulativa dei processi innovativi e la persistenza di colli di bottiglia istituzionali e infrastrutturali. Questa stratificazione di vantaggi e vincoli storici si intreccia con gli effetti di lungo periodo del processo di integrazione economica e monetaria europea, il cui impatto sulle dinamiche di convergenza e divergenza verrà analizzato nel paragrafo successivo.

 

4. Governance economica europea e traiettorie divergenti

L'evoluzione dell'integrazione europea può essere interpretata attraverso la lente della path dependence (Pierson, 2000; North, 1990), che nel caso europeo si manifesta soprattutto nel sequenziamento delle riforme: dalla creazione del Mercato Comune (1957) e il suo completamento con l'Atto Unico Europeo (1986), alla nascita dell'Unione Economica e Monetaria sancita dal Trattato di Maastricht (1992), fino alla definizione di un quadro di governance macroeconomica e fiscale rafforzato dal Patto di Stabilità e Crescita (1997) e dai successivi meccanismi introdotti dopo la crisi del debito sovrano (Six-Pack, Two-Pack, Fiscal Compact). Negli anni più recenti, la pandemia di COVID-19 e la guerra in Ucraina hanno segnato momenti di svolta, accelerando l'adozione di strumenti straordinari come il Next Generation EU e la Recovery and Resilience Facility (2020), che hanno introdotto, seppur temporaneamente, forme di mutualizzazione del debito pubblico. Parallelamente, le sfide connesse alla transizione digitale, alla sicurezza energetica e alla ristrutturazione delle catene globali del valore hanno spinto l'UE a rafforzare le politiche industriali e di coesione, con iniziative come l'EU Chips Act (2023) e il Green Deal Industrial Plan (2024). Questi sviluppi recenti confermano che le scelte compiute negli anni di Maastricht e consolidate nel periodo post-crisi continuano a condizionare le opzioni di policy attuali, mantenendo irrisolta la tensione fra integrazione economica, autonomia fiscale e coesione territoriale.

Il sequencing (Baldwin, 2011; Pelkmans, 2006) evidenzia come l'ordine e la priorità attribuita alle diverse dimensioni dell'integrazione abbiano generato effetti distributivi asimmetrici. La liberalizzazione dei mercati e dei flussi di beni, servizi e capitali è stata, infatti, anticipata rispetto alla creazione di un'unione politica e fiscale, determinando l'adozione di regole comuni in assenza di strumenti redistributivi comparabili a quelli degli Stati nazionali (Schimmelfennig, 2015; Fligstein & Stone Sweet, 2002). Le implicazioni territoriali di questo percorso istituzionale risultano significative: le scelte di liberalizzazione e di stabilità monetaria hanno favorito le aree già competitive, mentre le regioni con specializzazioni produttive mature hanno incontrato maggiori difficoltà di adattamento, soprattutto in assenza di strumenti di aggiustamento tradizionali come la svalutazione o politiche fiscali espansive (Krugman, 1993; Sapir et al., 2004). In particolare, l'assenza di un'unione di trasferimento (transfer union) e la scelta di ancorare la convergenza economica principalmente alla disciplina di bilancio hanno ridotto la capacità delle politiche comuni di contrastare gli effetti cumulativi degli shock asimmetrici. La crisi finanziaria del 2008 e la successiva crisi del debito sovrano hanno mostrato che la struttura della governance europea ha amplificato la vulnerabilità di alcune economie regionali: l'assenza di strumenti anticiclici comuni e i vincoli alla spesa pubblica hanno accentuato la divergenza tra regioni centrali e periferiche (Schimmelfennig, 2018). In questa prospettiva, la path dependence non spiega solo l'inerzia istituzionale, ma anche perché, nonostante decenni di politiche di coesione e ingenti trasferimenti, i divari territoriali si siano ridotti solo parzialmente e, in alcuni casi, si siano riaperti. Il sequenziamento delle riforme europee ha creato un sistema nel quale la convergenza regionale è condizionata non solo da fattori endogeni - capitale umano, innovazione e infrastrutture - ma anche da vincoli macroistituzionali che delimitano le possibilità di intervento.

I dati Eurostat (serie storiche NUTS2, 1995-2023) confermano questa divergenza: le regioni dell'Europa centro-settentrionale hanno registrato un aumento medio del PIL pro capite in Purchasing Power Standards (PPS) di oltre il 40% nel periodo 1995-2023, contro incrementi inferiori al 20% per molte regioni dell'Europa meridionale e orientale. Tale evidenza è coerente con l'ipotesi che la liberalizzazione anticipata dei mercati favorisca le aree già competitive. In questo quadro, il concetto di lock-in chiarisce perché le disparità territoriali siano così difficili da ridurre: una volta consolidato un assetto istituzionale basato sull'integrazione dei mercati e su vincoli fiscali stringenti, modificarne la struttura diventa politicamente e giuridicamente oneroso, come dimostra l'esperienza dell'unione monetaria europea, in cui l'introduzione della moneta unica senza un'unione fiscale e bancaria completa ha prodotto squilibri macroeconomici persistenti, riflettendosi in differenziali di competitività e divergenze nei tassi di crescita e occupazione tra regioni (De Grauwe, 2013).

In tale scenario, la Cohesion Policy dell'Unione Europea ha rappresentato il principale strumento di riequilibrio territoriale. Attraverso i Fondi strutturali e di investimento, ha perseguito l'obiettivo di stimolare la crescita economica, la modernizzazione infrastrutturale e l'innovazione tecnologica nelle aree meno sviluppate del continente. Tuttavia, la letteratura empirica evidenzia risultati fortemente eterogenei, determinati da condizioni locali e capacità istituzionali. Studi controfattuali - basati sul confronto tra regioni beneficiarie e regioni simili non trattate - mostrano un impatto mediamente positivo sulla crescita del PIL pro capite e sugli investimenti, soprattutto nelle regioni "Objective 1/Convergence" (reddito pro capite <75% della media UE), quando i fondi sono stati concentrati su poche priorità strategiche e gestiti da amministrazioni locali dotate di elevata capacità istituzionale (Crescenzi & Giua, 2020; Becker et al., 2010; 2013; 2018.). Viceversa, in assenza di condizioni istituzionali adeguate, le risorse rischiano di produrre effetti temporanei, generando fenomeni di "assorbimento senza trasformazione", in cui i fondi vengono spesi senza modificare le strutture produttive e innovative locali. La logica place-based del Barca Report (2009) è stata solo parzialmente implementata, ostacolata da frammentazione amministrativa, cicli politici brevi e scarsa capacità progettuale (European Commission, 2024). Come sottolinea Rodríguez-Pose (2018), ignorare le differenze territoriali e le capacità istituzionali locali rischia di alimentare fenomeni di "geografie del rancore" (geographies of discontent), producendo sfiducia verso le istituzioni e sostegno crescente a movimenti populisti ed euroscettici.

Nella fase iniziale dell'integrazione europea è stata registrata una parziale riduzione delle disparità territoriali, favorita dall'espansione del mercato unico, dall'aumento degli scambi e dagli investimenti infrastrutturali promossi dalle politiche comunitarie. Nei quindici Stati membri originari, il coefficiente di variazione del PIL pro capite è diminuito da 0,33 nel 1980 a 0,28 nel 1996, segnalando un riavvicinamento relativo, seppur incompleto. Dopo la metà degli anni Novanta, tuttavia, la dinamica di convergenza ha rallentato sensibilmente: il coefficiente si è stabilizzato intorno a 0,28-0,29 fino al 2005 (De Michelis & Monfort, 2008).

L'ampliamento a ventisette membri tra il 1995 e il 2005 ha delineato un quadro più articolato. A livello aggregato, le disparità tra le regioni dell'UE-27 si sono ridotte (coefficiente da 0,43 a 0,35), ma questa tendenza è stata trainata quasi esclusivamente dal rapido recupero delle economie più povere dell'Europa centrale e orientale, sostenute da IDE, delocalizzazione produttiva e accesso preferenziale ai fondi di coesione. Al contempo, sono emerse nuove divergenze interne agli Stati membri, con la localizzazione dei capitali e degli investimenti in poche aree metropolitane, mentre le periferie sono rimaste escluse dai benefici dell'integrazione. Il caso della Romania è risultato emblematico: tra il 1995 e il 2005, il coefficiente di variazione regionale è passato da 0,15 a 0,40, segnalando una polarizzazione crescente tra Bucarest e le aree rurali circostanti. Nonostante questi segnali di convergenza aggregata, la mobilità tra fasce di reddito regionale è rimasta limitata, tanto che nel 2005, circa il 76% delle regioni UE-27 ha mantenuto la stessa posizione del 1995, mentre solo il 24% delle regioni più povere ha migliorato la propria collocazione. Nell'UE-15, quasi il 45% delle regioni sotto il 60% della media europea ha registrato progressi, ma il loro peso complessivo è risultato troppo ridotto per incidere sugli aggregati.

Dopo il 2005, la combinazione di globalizzazione, transizione digitale e accelerazione tecnologica ha amplificato ulteriormente gli squilibri territoriali. I poli urbani e metropolitani hanno attratto una quota crescente di capitale umano qualificato, investimenti e attività ad alto contenuto di conoscenza, rafforzando il loro ruolo di hub dell'innovazione e dei servizi avanzati (Storper, 2013). Secondo i dati Eurostat (2024), nel 2021 il PIL pro capite delle aree prevalentemente urbane era 1,6 volte superiore rispetto a quello delle aree rurali. Questo divario persiste nonostante, tra il 2008 e il 2021, il tasso di crescita nominale del PIL pro capite sia stato leggermente più alto nelle aree rurali (+35,7%) rispetto a quello delle aree urbane (+32,1%): le aree rurali, pur crescendo in termini percentuali, non hanno ridotto significativamente la distanza in valore assoluto. Inoltre, tra il 2005 e il 2022, il PIL pro capite nelle principali aree metropolitane europee è aumentato mediamente del +23%, contro appena il +7% nelle aree rurali e nei distretti manifatturieri intermedi, segnalando un'accumulazione crescente di vantaggi competitivi nei centri urbani. Allo stesso tempo, gli investimenti in ricerca e sviluppo si sono fortemente concentrati: nel 2022 oltre il 60% della spesa europea in R&S era localizzato in sole dieci regioni, principalmente situate in Germania, Francia, Paesi Bassi e Scandinavia.

Anche il coefficiente di Gini calcolato sul PIL regionale dell'UE conferma la dinamica di club convergence, invero tra il 2005 e il 2022 è salito da 0,24 a 0,29, segnalando un aumento delle disuguaglianze territoriali nonostante l'intensificazione degli strumenti di coesione (Eurostat, 2024). Gli shock economici degli ultimi quindici anni hanno agito come veri e propri stress test delle traiettorie regionali; infatti, la crisi finanziaria globale del 2008 e la successiva crisi del debito sovrano hanno ampliato i gap Nord-Sud e Ovest-Est: le regioni caratterizzate da settori industriali maturi e bassa diversificazione produttiva hanno subito contrazioni più marcate dell'occupazione e del PIL, mentre le grandi aree metropolitane e i poli tecnologici hanno mostrato una maggiore capacità di resilienza. Secondo i dati Eurostat (2024), tra il 2008 e il 2013 il PIL pro capite è diminuito di oltre 10% nelle regioni dell'Europa meridionale (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo), mentre le regioni dell'Europa centrale e settentrionale, specializzate in settori ad alta produttività, hanno registrato cali più contenuti o addirittura una crescita moderata.

Il Nono Rapporto sulla Coesione della Commissione Europea (2024) conferma che, a più di un decennio dalla crisi dei mutui subprime, circa il 40% delle regioni europee non aveva ancora recuperato i livelli di PIL pro capite pre-2008, con ritardi particolarmente accentuati nelle regioni mediterranee e in parte dell'Europa orientale, dove bassa produttività, scarsa attrattività per investimenti esteri e limitata capacità innovativa hanno frenato la ripresa. L'altro shock sistemico della pandemia di COVID-19 (2020-2021) ha ulteriormente amplificato le disparità, ma con effetti eterogenei. Le regioni metropolitane più esposte al turismo e alla mobilità internazionale hanno subito un forte impatto iniziale, con una contrazione media del PIL pro capite pari a -7,8% nel 2020 (Eurostat, 2024). Tuttavia, il recupero è stato più rapido nei territori dotati di elevata digitalizzazione, alta intensità di capitale umano e integrazione nei settori tecnologici avanzati, mentre molte regioni periferiche e a bassa densità industriale hanno incontrato maggiori difficoltà, ampliando divari preesistenti. La guerra in Ucraina e la conseguente crisi energetica hanno introdotto un ulteriore fattore di polarizzazione. Secondo le stime, l'aumento dei costi energetici tra il 2021 e il 2023 ha colpito in modo sproporzionato le regioni dell'Europa orientale e meridionale, più dipendenti da fonti fossili importate, mentre i territori del Nord Europa, più avanzati nella transizione energetica, hanno mostrato una maggiore resilienza. Nel 2022, la spesa energetica pro capite ha raggiunto il 15% del reddito disponibile in Romania, Bulgaria e Grecia, contro una media UE del 7% (Eurostat, 2024).

In questo contesto, la spinta fiscale associata al Next Generation EU offre una potenziale opportunità di convergenza, ma le evidenze iniziali suggeriscono che l'esito dipenderà dalla capacità dei territori di trasformare gli investimenti - soprattutto in digitale, energia e capitale umano - in incrementi di produttività sostenibili e duraturi, evitando cicli di spesa inefficace. Nel complesso, le evidenze più recenti confermano la formazione di "gruppi di resilienza differenziata" (Iammarino et al., 2019), nei quali solo alcune regioni altamente competitive riescono a convergere tra loro, lasciando ampie porzioni d'Europa intrappolate in una traiettoria di stagnazione relativa

Tali dinamiche territoriali sono strettamente legate agli effetti della moneta unica, la cui introduzione, avvenuta formalmente nel 1999 e concretamente nel 2002, ha inciso profondamente sul processo di path dependence istituzionale. L'adozione dell'euro ha favorito i Paesi con una struttura produttiva già competitiva, capaci di sfruttare i benefici della stabilità monetaria e della riduzione dei costi di transazione, mentre ha imposto vincoli più rigidi alle economie caratterizzate da specializzazioni settoriali mature, produttività stagnante e scarsa integrazione nelle catene globali del valore. In assenza di strumenti di aggiustamento del tasso di cambio e di una politica fiscale comune, queste aree hanno visto limitata la capacità di sostenere la domanda interna e sono state maggiormente esposte a dinamiche di divergenza cumulativa.

Le analisi empiriche confermano questa traiettoria. Il rapporto del CEP Institute "20 Years of the Euro: Winners and Losers. An empirical study" (Gasparotti & Kullas, 2019), utilizzando una metodologia di controllo sintetico, stima l'impatto netto dell'euro sul PIL pro capite dei singoli Paesi membri rispetto a uno scenario controfattuale senza moneta unica. I risultati evidenziano una marcata eterogeneità: Germania (+€23.116 pro capite cumulati dal 1999 al 2017), Paesi Bassi (+€21.003) e Austria (+€17.630) figurano tra i principali beneficiari, mentre Italia (-€73.605 pro capite), Francia (-€55.996) e Portogallo (-€40.604) registrano perdite rilevanti, con un effetto particolarmente pronunciato nelle regioni meno integrate nelle catene del valore europee. Pur con le cautele metodologiche proprie delle analisi controfattuali, queste stime confermano come l'architettura dell'unione monetaria abbia teso a rafforzare le economie centrali dell'Europa continentale, dotate di un solido settore manifatturiero orientato all'export, penalizzando invece economie periferiche e semi-periferiche.

A livello territoriale, le statistiche Eurostat confermano che, nel ventennio successivo all'introduzione dell'euro, il PIL pro capite in standard di potere d'acquisto (PPS) per le regioni NUTS2 ha seguito un sentiero divergente tra macro-aree. Nel 2000, il coefficiente di variazione del PIL pro capite tra le regioni dell'area euro era pari a circa 0,27; nel 2021 è salito a 0,31, segnalando un aumento della dispersione. Le regioni dell'Europa settentrionale e centrale, in particolare quelle inserite nei corridoi industriali Reno-Alpino e Danubiano, hanno consolidato il proprio vantaggio, mentre le regioni dell'Europa meridionale e orientale - pur beneficiando dei fondi di coesione - hanno sperimentato una crescita più lenta e spesso inferiore alla media dell'area euro.

In assenza di strumenti di svalutazione monetaria, l'aggiustamento agli shock asimmetrici si è affidato a meccanismi di svalutazione interna, attraverso compressione dei salari e riduzione della spesa pubblica. Come mostrano Armingeon e Baccaro (2012), questo tipo di aggiustamento tende a generare effetti recessivi più marcati nelle aree con domanda interna debole, amplificando la polarizzazione territoriale. La sequenza storica conferma questa dinamica. Negli anni '90, la convergenza nominale richiesta dai criteri di Maastricht ha favorito politiche di disinflazione competitiva e di consolidamento fiscale, che hanno avuto costi differenziati a livello regionale. Con l'avvio dell'euro, le economie più competitive hanno accumulato surplus commerciali crescenti, mentre altre, soprattutto nell'area mediterranea, hanno visto ampliarsi deficit strutturali. La crisi finanziaria globale del 2008 e, soprattutto, la crisi del debito sovrano del 2010-2012 hanno reso manifeste queste fragilità: il vincolo esterno imposto dalla moneta unica ha limitato la capacità di risposta anticiclica e imposto politiche procicliche di consolidamento fiscale, con un impatto sproporzionato sulle regioni già più fragili.

Inoltre, come sottolinea Schimmelfennig (2018), le riforme della governance fiscale introdotte dopo la crisi del debito sovrano - Six-Pack, Two-Pack, Fiscal Compact - hanno inasprito i vincoli di bilancio, con impatti territoriali differenziati: le regioni già svantaggiate hanno registrato una contrazione più marcata della spesa pubblica in infrastrutture e istruzione, amplificando divari di lungo periodo. Tra il 2009 e il 2015, gli investimenti pubblici in conto capitale sono diminuiti del 37% in media nell'Europa meridionale, contro il -12% del Nord Europa (Commissione Europea, dati AMECO). I dati Eurostat (2023) confermano che il coefficiente di variazione del PIL pro capite in PPS tra regioni NUTS2 dell'UE è passato da 0,295 nel 2008 a 0,312 nel 2021, invertendo la tendenza alla convergenza degli anni Novanta e dei primi 2000. Questo andamento si osserva nonostante l'allocazione di circa 351,8 miliardi di euro di fondi di coesione nel periodo 2014-2020, evidenziando come l'architettura istituzionale e il sequenziamento delle riforme abbiano un effetto strutturale che le politiche compensative faticano a contrastare.

L'interazione tra protezionismo statunitense, shock energetico e guerra in Ucraina ha agito come un potente catalizzatore di divergenze regionali, rafforzando le economie dotate di resilienza strutturale - caratterizzate da diversificazione produttiva, autonomia energetica e capitale umano qualificato - e aggravando le fragilità dei territori più dipendenti da catene del valore globali vulnerabili o da approvvigionamenti energetici concentrati. Le regioni fortemente dipendenti dal gas e dal petrolio russi - in particolare nell'Europa centro-orientale e in alcune aree industriali dell'Italia settentrionale e della Germania orientale - hanno subito incrementi significativi dei costi di produzione, contrazioni dell'attività nei settori energivori e riduzioni dell'occupazione. Al contrario, territori con mix energetico diversificato o forte penetrazione di fonti rinnovabili, come la Spagna o la Francia, hanno mostrato maggiore resilienza, beneficiando in alcuni casi di nuove opportunità strategiche, come l'importazione e la distribuzione di GNL. L'effetto netto è stato un ampliamento del divario tra economie regionali dotate di infrastrutture adattive e quelle intrappolate in strutture produttive ad alta intensità energetica. L'effetto complessivo è stato l'ampliamento dei divari regionali, a conferma della path dependence nell'integrazione asimmetrica (Schimmelfennig, 2021; Börzel & Risse, 2018).

Parallelamente, l'attuale deterioramento della stabilità commerciale, accentuato dall'inasprimento delle politiche tariffarie, ha colpito settori strategici europei, dalla metallurgia all'automotive, generando un clima di incertezza strutturale per le catene del valore transatlantiche. Gli effetti si sono manifestati in modo asimmetrico, penalizzando soprattutto le regioni fortemente integrate nell'export verso gli Stati Uniti o dipendenti da componenti critiche extra-UE, mentre hanno favorito, seppur marginalmente, i territori dotati di capacità produttive interne sostitutive. In questo contesto, l'incertezza del quadro geopolitico internazionale si intreccia con la debolezza strutturale della governance europea, complicando l'efficace utilizzo dell'intero sistema di strumenti comunitari - dai fondi di coesione ai programmi di investimento, fino al Next Generation EU - e riducendo la capacità di colmare i divari regionali.

 

5.      Conclusioni

L'analisi condotta mostra che i divari territoriali in Europa non costituiscono un fenomeno congiunturale, ma il risultato di processi storici cumulativi e di vincoli istituzionali profondamente radicati. Nonostante decenni di integrazione economica e ingenti trasferimenti attraverso le politiche di coesione, l'evidenza empirica conferma la persistenza di forti asimmetrie nella distribuzione della ricchezza, dell'innovazione e delle opportunità occupazionali. La riduzione dei divari osservata negli anni Novanta ha lasciato progressivamente spazio, dagli anni Duemila, a una ricomposizione polarizzata: da un lato, poli metropolitani fortemente integrati nelle reti globali della conoscenza e della finanza; dall'altro, aree periferiche caratterizzate da stagnazione della produttività, bassa qualità del capitale umano e crescente vulnerabilità agli shock esterni.

Sul piano teorico, i risultati raccolti consentono di riconsiderare criticamente le ipotesi di convergenza. I modelli neoclassici di β-convergenza (Barro & Sala-i-Martin, 1992) trovano conferma solo parziale, infatti, l'avvicinamento dei redditi si è rivelato modesto, intermittente e circoscritto a sottogruppi omogenei di territori, in linea con la nozione di convergenza condizionata. Al contrario, le teorie della crescita endogena (Romer, 1990; Lucas, 1988) appaiono più efficaci nel descrivere un contesto in cui capitale umano, reti di conoscenza e infrastrutture immateriali costituiscono fattori determinanti per lo sviluppo cumulativo. La letteratura più recente rafforza questa prospettiva, mostrando che le economie di agglomerazione generino vantaggi competitivi persistenti per i territori inseriti nelle reti globali, mentre quelli esclusi da tali circuiti sperimentano rischi crescenti di marginalizzazione (Pirina & Perocco, 2025; Boschma & Iammarino, 2009).

Tuttavia, i limiti delle politiche di coesione non possono essere compresi senza considerare le tensioni interne al progetto di integrazione europea. L'architettura istituzionale dell'Unione si colloca entro un trilemma permanente tra stabilità macroeconomica, rigidità di bilancio nazionale e solidarietà redistributiva. L'assenza di un'unione fiscale compiuta e la persistenza di regole di bilancio restrittive hanno ridotto la capacità dell'UE di sostenere un riequilibrio territoriale efficace, costringendo le strategie di sviluppo a fare affidamento su strumenti finanziari frammentati e spesso insufficienti. Le riforme introdotte negli ultimi decenni, per lo più adottate in risposta a crisi sistemiche, hanno seguito la logica del failing forward, secondo la quale ogni emergenza ha prodotto nuove forme di governance senza affrontare in modo organico le cause strutturali delle divergenze (Schwab, 2024). Ne risulta un'Unione caratterizzata da un mercato unico altamente integrato ma da uno spazio economico profondamente frammentato, in cui la capacità di assorbire risorse, innovazione e investimenti dipende in larga misura dalla qualità delle istituzioni nazionali e locali (Acemoglu & Robinson, 2012; North, 1990).

Le sfide emergenti accentuano ulteriormente questa dinamica. La transizione digitale e la diffusione dell'intelligenza artificiale stanno ridisegnando la geografia della produttività europea, favorendo la concentrazione di conoscenza, capitale umano e tecnologie avanzate nelle grandi città globali. Parallelamente, la transizione ecologica e la ristrutturazione delle catene globali del valore - accelerate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina - impongono un rafforzamento della capacità di resilienza territoriale e una riflessione sulle specializzazioni produttive delle diverse aree europee. In questo contesto, i risultati più recenti mostrano che gli effetti delle politiche di coesione sono fortemente eterogenei: mentre alcune regioni beneficiano in modo significativo degli investimenti, altre restano intrappolate in percorsi di marginalizzazione (Alexopoulos et al., 2025). Questo conferma la necessità di superare l'approccio uniforme e adottare strategie più differenziate, orientate a sostenere percorsi territoriali di specializzazione ad alto valore aggiunto, in linea con una visione di sviluppo sostenibile e inclusivo (Jančová et al., 2024).

Le politiche più recenti - dal Next Generation EU al Green Deal Industrial Plan, dall'European Chips Act alle strategie per l'intelligenza artificiale - aprono nuove opportunità ma anche rischi di polarizzazione. I dati Eurostat (2024) e il monitoraggio DG CONNECT (European Commission, 2025) evidenziano che gli investimenti in digitale, R&S e transizione ecologica si concentrano soprattutto nelle regioni già integrate negli ecosistemi innovativi, mentre ampie aree periferiche registrano ritardi nell'assorbimento dei fondi e nella diffusione di infrastrutture avanzate, come reti VHCN e 5G. In assenza di politiche place-based più incisive, questi strumenti rischiano di amplificare divari già consolidati, generando fenomeni di club convergence.

L'evoluzione recente delle politiche di coesione europee mostra un progressivo spostamento verso un approccio place-based, testimoniato dall'adozione delle strategie di specializzazione intelligente e da un'attenzione crescente alle peculiarità regionali (Barca, 2009). Tuttavia, persistono tensioni tra le due visioni: da un lato, le esigenze di disciplina fiscale e armonizzazione regolatoria continuano a favorire interventi spatially-blind; dall'altro, le sfide emergenti della transizione digitale e verde impongono strategie territorialmente mirate (Rodríguez-Pose, 2018). Questo rende evidente la necessità di una coesione più differenziata e orientata a valorizzare la diversità territoriale come asset competitivo, piuttosto che considerarla un ostacolo da livellare.

Parallelamente, la competizione globale per il controllo delle tecnologie critiche - semiconduttori, intelligenza artificiale, infrastrutture digitali - si intensifica. Gli Stati Uniti, attraverso il CHIPS and Science Act, e la Cina, con i piani di autonomia nelle filiere strategiche, mobilitano risorse significativamente superiori a quelle europee, accelerando la corsa verso l'autosufficienza tecnologica. In questo scenario, l'UE rischia di restare intrappolata in una posizione intermedia se non rafforzerà la propria capacità di coordinare politica industriale, digitale e di coesione territoriale, integrando strumenti fiscali comuni e strategie di specializzazione produttiva mirata.

La possibilità di raggiungere una convergenza sostenibile dipenderà, dunque, dalla capacità dell'Unione di trasformare i grandi programmi strategici - Next Generation EU, Green Deal, Chips Act e iniziative sull'intelligenza artificiale - in produttività diffusa, anziché in rendite localizzate. In questa prospettiva, le linee di intervento risultano in larga misura coerenti con le raccomandazioni delineate nell'Agenda Draghi, che sottolinea la necessità di rafforzare gli investimenti strategici europei e di completare l'architettura istituzionale dell'Unione. Ciò implica la costruzione di una vera unione fiscale, capace di stabilizzare i cicli economici e colmare i divari strutturali, insieme a un aumento significativo delle risorse destinate a innovazione, capitale umano e infrastrutture digitali. Senza un rafforzamento sostanziale della governance e delle risorse, la doppia transizione digitale e verde rischia di consolidare una geografia economica europea a più velocità, con implicazioni profonde per la competitività globale, la coesione sociale e la legittimità politica del progetto europeo. Il problema scientifico diventa, quindi, non soltanto "se" la coesione funzioni, ma "dove, quando e perché" essa produca effetti, alla luce di radici storiche e vincoli di traiettoria che continuano a differenziare profondamente le regioni europee.

 

 

Bibliografia

A'Hearn, B., Baten, J., and Crayen, D. (2009). Quantifying Quantitative Literacy: Age Heaping and the History of Human Capital. The Journal of Economic History, 69(3), 783-808.

Abramovitz, M. (1986). Catching Up, Forging Ahead, and Falling Behind. Journal of Economic History, 46(2), 385-406.

Acemoglu, D., and Robinson, J. A. (2012). Why Nations Fail. The Origins of Power, Prosperity, and Poverty. New York: Crown Publishers.

Aghion, P., and Howitt, P. (1992). A Model of Growth through Creative Destruction. Econometrica, 60(2), 323-351.

Alexopoulos, A., Kostarakos, I., Mylonakis, C., and Varthalitis, P. (2025). The heterogeneous causal effects of the EU's Cohesion Fund, Working Paper no. 07-2025, Athens University of Economics and Business.

Allen, R. C. (2009). The British Industrial Revolution in Global Perspective. Cambridge: Cambridge University Press.

Armingeon, K., and Baccaro, L. (2012). Political Economy of the Sovereign Debt Crisis: The Limits of Internal Devaluation. Industrial Law Journal, 41(3), 254-275.

Arthur, W. B. (1989). Competing Technologies, Increasing Returns, and Lock-In by Historical Events. The Economic Journal, 99(394), 116-131.

Baldwin, R. E. (2011). Sequencing Regionalism: Theory, European Practice, and Lessons for Asia, ADB Working Paper Series on Regional Economic Integration, No. 80, Manila: Asian Development Bank.

Barca, F. (2006). Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo. Roma: Donzelli.

Barca, F. (2009). An Agenda for a Reformed Cohesion Policy: A Place-Based Approach to Meeting European Union Challenges and Expectations. Independent Report prepared at the request of Commissioner Danuta Hübner, Brussels: European Commission.

Barro, R. J., and Sala-i-Martin, X. (1992). Convergence. Journal of Political Economy, 100(2), 223-251.

Barro, R. J., and Sala-i-Martin, X. (1995). Economic Growth. New York: McGraw-Hill.

Becattini, G. (2000). Il distretto industriale. Un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico. Torino: Rosenberg & Sellier.

Becker, S. O., Egger, P. H., and von Ehrlich, M. (2010). Going NUTS: The effect of EU Structural Funds on regional performance. Journal of Public Economics, 94(9-10), 578-590.

Becker, S. O., Egger, P. H., and von Ehrlich, M. (2013). Absorptive Capacity and the Growth and Investment Effects of Regional Transfers: A Regression Discontinuity Design with Heterogeneous Treatment Effects. American Economic Journal: Economic Policy, 5(4), 29-77.

Becker, S. O., Egger, P. H., and von Ehrlich, M. (2018). Effects of EU Regional Policy: 1989-2013. Regional Science and Urban Economics, 69, 143-152.

Bernard, A. B., and Jones, C. I. (1996). Productivity and Convergence across U.S. States and Industries. Empirical Economics, 21(1), 113-135.

Bertocchi, G., and Canova, F. (2002). Did colonization matter for growth? An empirical exploration into the historical causes of Africa's underdevelopment. European Economic Review, 46(10), 1851-1871.

Boldrin, M., and Canova, F. (2001). Inequality and Convergence in Europe's Regions: Reconsidering European Regional Policies. Economic Policy, 16(32), 205-253.

Börzel, T. A., and Risse, T. (2018). From the Euro to the Schengen Crises: European integration theories, politicization, and identity politics. Journal of European Public Policy, 25(1), 83-108.

Boschma, R., and Frenken, K. (2006). Why is Economic Geography not an Evolutionary Science? Towards an Evolutionary Economic Geography. Journal of Economic Geography, 6(3), 273-302.

Boschma, R., and Frenken, K. (2011). Technological relatedness, related variety and economic geography. In P. Cooke, B. Asheim, R. Boschma, R. Martin, D. Schwartz, and F. Tödtling (Eds.), Handbook of Regional Innovation and Growth (187-197). Cheltenham: Edward Elgar.

Boschma, R., and Iammarino, S. (2009). Related Variety, Trade Linkages, and Regional Growth in Italy. Economic Geography, 85(3), 289-311.

Broadberry, S. N. (2021). Accounting for the Great Divergence: Recent Findings from Historical National Accounting. In A. Bisin, and G. Federico (Eds.), The Handbook of Historical Economics (749-771). Amsterdam: Elsevier.

Burda M. C. (2008). What kind of shock was it? Regional integration and structural change in Germany after unification. Journal of Comparative Economics. 36(4), 557-567.

Carlino, G., and Kerr, W. R. (2014). Agglomeration and Innovation. NBER Working Paper Series, No. 20367. National Bureau of Economic Research.

Charron, N., Lapuente, V., and Bauhr, M. (2024). The Geography of Quality of Government in Europe. Subnational variations in the 2024 European Quality of Government Index and Comparisons with Previous Rounds. QoG Working Paper Series 2024:2. Department of Political Science, University of Gothenburg.

Ciccarelli, C., and Fenoaltea, S. (2013). "Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy." Economic History Review, 66(1), 57-85.

Cooke, P., Uranga, M. G., and Etxebarria, G. (1997). Regional Innovation Systems: Institutional and Organisational Dimensions. Research Policy, 26(4-5), 475-491.

Crafts, N., and Wolf, N. (2014). "The Location of the UK Cotton Textiles Industry in 1838: A Quantitative Analysis." The Journal of Economic History, 74(4), 1103-1139.

Crescenzi, R., and Giua, M. (2020). One or many Cohesion Policies of the European Union? On the differential economic impacts of Cohesion Policy across member states. Regional Studies, 54(1), 10-20.

Crouch, C., Le Galès, P., Trigilia, C., and Voelzkow, H. (2001). Local Production Systems in Europe: Rise or Demise? Oxford: Oxford University Press.

Dall'Erba, S., and Fang, F. (2017). Meta-analysis of the impact of European Union Structural Funds on regional growth. Regional Studies, 51(6), 822-832.

David, P. A. (1985). Clio and the Economics of QWERTY. American Economic Review, 75(2), 332-337.

De Grauwe, P. (2013). Design Failures in the Eurozone: Can They Be Fixed? European Economy - Economic Papers 491. Brussels: European Commission.

De Michelis, N. & Monfort, P. (2008). Some reflections concerning GDP, regional convergence and European cohesion policy. Regional Science Policy & Practice, 1(1), 15-22.

De Moor, T. (2008). The Silent Revolution: A New Perspective on the Emergence of Commons, Guilds, and Other Forms of Corporate Collective Action in Western Europe. International Review of Social History, 53, 179-212.

Di Berardino, C., Doganieri, I., and Onesti, G. (2021). Deindustrialization in the EU between Transformation and Decline. Eastern European Economics, 59(3), 225-249.

Diemer, A., Iammarino, S., Rodríguez-Pose, A., and Storper, M. (2022). The Regional Development Trap in Europe. Economic Geography, 98(5), 487-509.

Dincecco, M., and Katz, G. (2016). State capacity and long-run economic performance. The Economic Journal, 126(590), 189-218.

European Commission (2024). Ninth Report on Economic, Social and Territorial Cohesion. Luxembourg: Publications Office of the European Union.

European Commission (2025a). Regional Innovation Scoreboard 2025. Brussels: Publications Office of the European Union.

European Commission (2025b). Broadband coverage in Europe 2024 - Mapping progress towards the coverage objectives of the digital decade - Final report. Directorate-General for Communications Networks Content and Technology, OMDIA and Point Topic. Brussels: Publications Office of the European Union.

Eurostat (2024). Regional Yearbook 2024. Bruxelles: Publications Office of the European Union.

Felice, E. (2019). Ascesa e declino. Storia economica d'Italia. Bologna: il Mulino.

Ferreiro, J., and Gomez, C. (2025). Patterns of industrialisation and deindustrialisation in Europe. PSL Quarterly Review, 78(312), 67-94.

Fligstein, N., and Stone Sweet, A. (2002). Constructing Polities and Markets: An Institutionalist Account of European Integration. American Journal of Sociology, 107(5), 1206-1243.

Gasparotti, A. & Kullas, M. (2019). 20 Years of the Euro: Winners and Losers. An empirical study. (cepStudy, Centre for European Policy). Freiburg, Germany: CEP.

Gerschenkron, A. (1962). Economic Backwardness in Historical Perspective: A Book of Essays. Cambridge: Harvard University Press.

Glawe, L., and Wagner, H. (2021). Divergence Tendencies in the European Integration Process: A Danger for the Sustainability of the E(M)U?. Journal of Risk and Financial Management, 14(3)/104, 1-22.

Greif, A. (2006). Institutions and the Path to the Modern Economy. Cambridge: Cambridge University Press.

Hechter, M. (1999). Internal Colonialism: The Celtic Fringe in British National Development. New Brunswick, New Jersey: Transaction Publishers.

Iammarino, S., Rodríguez-Pose, A., and Storper, M. (2017). Why Regional Development Matters for Europe's Economic Future. Working Paper 07/2017, Publications Office of the European Union.

Iammarino, S., Rodríguez‑Pose, A., and Storper, M. (2019). Regional inequality in Europe: evidence, theory and policy implications. Journal of Economic Geography, 19(2), 273-298.

Islam, N. (1995). Growth Empirics: A Panel Data Approach. Quarterly Journal of Economics, 110(4), 1127-1170.

Jacobs, J. (1969). The Economy of Cities. New York: Random House.

Jančová, L., Kammerhofer-Schlegel, C., and Centrone, M. (2024). The Future of EU Cohesion: Scenarios and Their Impacts on Regional Inequalities. Brussels: European Parliamentary Research Service.

Krugman, P. (1991). Increasing Returns and Economic Geography. Journal of Political Economy, 99(3), 483-499.

Krugman, P. (1993). Lessons of Massachusetts for EMU. In F. Torres, and. F. Giavazzi (Eds.), Adjustment and Growth in the European Monetary Union (241-261). Cambridge: Cambridge University Press.

Lucas, R. E. (1988). On the Mechanics of Economic Development. Journal of Monetary Economics, 22(1), 3-42.

Mankiw, N. G., Romer, D., and Weil, D. N. (1992). A Contribution to the Empirics of Economic Growth. Quarterly Journal of Economics, 107(2), 407-437.

Marshall, A. (1890). Principles of Economics. London: Macmillan.

Martin, R., and Sunley, P. (2006). Path Dependence and Regional Economic Evolution. Journal of Economic Geography, 6(4), 395-437.

Martin, R., Gardiner, B., Pike, A., Sunley, P., and Tyler, P. (2021). Levelling Up Left Behind Places: The Scale and Nature of the Economic and Policy Challenge. London: Routledge.

Mokyr, J. (2002). The Gifts of Athena: Historical Origins of the Knowledge Economy. Princeton: Princeton University Press.

Monfort, P. (2008). Convergence of EU regions: Measures and evolution. European Commission, DG REGIO, Working Paper 01/2008.

Monfort, P. (2020). Convergence of EU Regions Redux: Recent Trends in Regional Disparities. Working Paper 02/2020, Luxembourg: Publications Office of the European Union.

Moretti, E. (2012). The New Geography of Jobs. Boston: Houghton Mifflin Harcourt.

North, D. C. (1990). Institutions, Institutional Change and Economic Performance. Cambridge: Cambridge University Press.

O'Brien, P. K. (2011). The nature and historical evolution of an exceptional fiscal state and its possible significance for the precocious commercialization and industrialization of the British economy from Cromwell to Nelson. The Economic History Review, 64(2), 408-446.

OECD (2025). Building Beneficiary Capacity under EU Cohesion Policy: A Framework for Action for Managing Authorities, OECD Multi-level Governance Studies. Paris: OECD Publishing.

Pascali, L. (2017). The Wind of Change: Maritime Technology, Trade and Economic Development. American Economic Review, 107(9), 2821-2854.

Pelkmans, J. (2006). European Integration: Methods and Economic Analysis (3rd ed.). Harlow, England; New York: Financial Times/Prentice Hall.

Pierson, P. (2000). Increasing Returns, Path Dependence, and the Study of Politics. The American Political Science Review, 94(2), 251-267.

Pirina, G, and Perocco, F. (2025). Left-Behind Regions and Territorial Inequalities in Europe: Drivers, Dynamics, and Policy Challenges. EXIT Working Paper Series.

Puga, D., and Trefler, D. (2014). International trade and institutional change: Medieval Venice's response to globalization. The Quarterly Journal of Economics, 129(2), 753-821.

Rodríguez-Pose, A. (2018). The revenge of the places that don't matter. Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, 11(1), 189-209.

Rodríguez‑Pose, A. (2024). The geography of EU discontent and the regional development trap. Economic Geography, 100(3), 213-245.

Rodríguez-Pose, A., and Di Cataldo, M. (2015). Quality of government and innovative performance in the regions of Europe. Journal of Economic Geography, 15(4), 673-706.

Rodríguez-Pose, A., and Garcilazo, E. (2015). Quality of government and the returns of investment: Examining the impact of cohesion funds in European regions. Regional Studies, 49(8), 1274-1290.

Rodríguez-Pose, A., and Ketterer, T. (2020). Institutional change and the development of lagging regions. Regional Studies, 54(7), 974-986.

Romer, P. M. (1986). Increasing returns and long-run growth. Journal of Political Economy, 94(5), 1002-1037.

Romer, P. M. (1990). Endogenous technological change. Journal of Political Economy, 98(5, Part 2), S71-S102.

Sala-i-Martin, X. (1996). Regional Cohesion: Evidence and Theories of Regional Growth and Convergence. European Economic Review, 40(6), 1325-1352.

Sapir A. et al. (2004). An agenda for a growing Europe: the Sapir report. ULB Institutional Repository 2013/8070, Universite Libre de Bruxelles.

Schimmelfennig, F. (2015). Liberal intergovernmentalism and the euro area crisis. Journal of European Public Policy, 22(2), 177-195.

Schimmelfennig, F. (2018). European integration (theory) in times of crisis. A comparison of the euro and Schengen crises. Journal of European Public Policy, 25(7), 969-989.

Schimmelfennig, F. (2021). Rebordering Europe: External boundaries and integration in the European Union. Journal of European Public Policy, 28, 311-330.

Schimmelfennig, F., Leuffen, D., and Rittberger, B. (2015). The European Union as a System of Differentiated Integration: Interdependence, Politicization and Differentiation. Journal of European Public Policy, 22(6), 764-782.

Schwab, T. (2024). Quo Vadis, Cohesion Policy? European Regional Development at a Crossroads, Intereconomic, 59(5), 284-292.

Solow, R. M. (1956). A Contribution to the Theory of Economic Growth. Quarterly Journal of Economics, 70(1), 65-94.

Squicciarini, M. P., and Voigtländer, N. (2015). Human Capital and Industrialization: Evidence from the Age of Enlightenment. The Quarterly Journal of Economics, 130(4), 1825-1883.

Storper, M. (2013). Keys to the City: How Economics, Institutions, Social Interaction, and Politics Shape Development. Princeton: Princeton University Press.

Swan, T. W. (1956). Economic Growth and Capital Accumulation. Economic Record, 32(2), 334-361.