Attualitą
Roberto Galisi
Vorrei iniziare esprimendo la mia sincera gratitudine al professor Stefano Zamagni per avermi dato l'opportunità di approfondire e sviluppare queste riflessioni. Il suo pensiero e il suo insegnamento sono stati una guida preziosa nell'elaborazione di questo testo.
Una riflessione: stiamo vivendo quella che in letteratura viene definita la seconda grande trasformazione di tipo polanyiano. Un cambiamento epocale che, come il primo descritto da Polanyi, sta ridefinendo profondamente le dinamiche economiche, sociali e politiche della nostra epoca.
Karl Polanyi, autore scomparso diversi anni fa, divenne celebre nel 1944 con la pubblicazione di La grande trasformazione, un'opera tradotta in tutto il mondo e considerata tra le più rilevanti della cultura occidentale.
Ma cosa descrive Polanyi in questo libro? Nato a Praga, nell'attuale Repubblica Ceca, durante il periodo dell'occupazione lasciò l'Europa per trasferirsi negli Stati Uniti, dove visse fino alla sua morte. Nel suo studio analizza ciò che accadde alle società occidentali in seguito alla prima grande trasformazione: il passaggio dalla società feudale, alla fine del Medioevo, alla società moderna. In particolare, il suo interesse si concentra sulle due rivoluzioni industriali.
Come sappiamo, la prima rivoluzione industriale si verificò in Inghilterra alla fine del Settecento, mentre la seconda ebbe luogo in Germania alla fine dell'Ottocento. Pubblicando nel 1944, Polanyi non si limitò a descrivere gli effetti economici di questi eventi, ma ne analizzò anche le implicazioni culturali, sociali e politiche, adottando un approccio multidimensionale, tipico di chi si occupa di studi umanistici.
Oggi ci troviamo di fronte a quella che possiamo definire la seconda grande trasformazione di tipo polanyiano. E qui vorrei fare una piccola raccomandazione: evitate di dire che viviamo un'epoca di cambiamento. Questo è un errore. Noi viviamo un'epoca di trasformazione.
Qual è la differenza? Il cambiamento implica sempre una continuità. Immaginate di camminare lungo un sentiero e di modificare l'andatura per arrivare prima: il percorso, però, rimane lo stesso. Questa è l'idea di cambiamento.
La trasformazione, invece, è qualcosa di diverso: immaginate di camminare lungo un sentiero e di trovarvi improvvisamente di fronte a un bivio o a un trivio. A quel punto, siete costretti a prendere una decisione: quale strada percorrere? La trasformazione implica quindi una rottura, un cambio di direzione.
Questa distinzione ha conseguenze importanti. I problemi tipici delle fasi di trasformazione non possono essere affrontati con gli stessi strumenti e le stesse categorie di pensiero usate per i semplici cambiamenti. E qui anticipo già una tesi: nel mondo occidentale - e non solo in Italia, che forse è addirittura in una posizione migliore rispetto ad altri Paesi - si tende a pensare che quello che sta accadendo sia solo un cambiamento radicale. Ma non è così: è una trasformazione.
E questo ha un impatto concreto sulle scelte che facciamo. Come già ricordava il grande Keynes, spesso cerchiamo di risolvere i problemi attuali con soluzioni che appartengono al passato. Non perché siano sbagliate in sé, ma perché non sono più efficaci.
Per usare una metafora medica, è come se un medico mi prescrivesse un'aspirina. Ma se la mia patologia è di tutt'altro tipo, l'aspirina risulterà del tutto inefficace. Ecco perché distinguere tra cambiamento e trasformazione è così importante.
Questa seconda grande trasformazione ha avuto inizio negli anni '70 del secolo scorso, quindi circa cinquant'anni fa. In quel decennio si sono verificati due eventi di portata epocale, apparentemente scollegati tra loro, ma la loro coincidenza temporale ha avuto un impatto straordinario. Quali sono questi eventi?
Il primo è l'avvento della globalizzazione, il secondo è l'introduzione di nuove tecnologie, allora note con l'acronimo NBIC (nanotecnologie, biotecnologie, informatica e scienze cognitive). Da allora, il mondo è cambiato profondamente, tanto che oggi persino queste categorie risultano superate.
Parlando di globalizzazione, mi rivolgo al mio amico, il professor Giannola, perché gli economisti, si sa, sono un po' birichini: a volte non conoscono certe cose - come tutti gli esseri umani - e altre volte invece le sanno benissimo, ma pensano che gli studenti non riuscirebbero a capirle del tutto e allora gliele semplificano... fino a fargli credere qualsiasi cosa!
Uno degli equivoci più diffusi è l'idea che la globalizzazione sia sempre esistita. In realtà, la globalizzazione ha una data di nascita ben precisa: il 15 novembre 1975. Quel giorno, nel castello di Rambouillet, vicino a Parigi, si tenne il primo vertice del G6, che riuniva i leader delle sei economie più avanzate: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Francia e Italia. In quell'occasione, i capi di Stato e di governo inaugurarono ufficialmente la fase storica che poi sarà chiamata globalizzazione.
Ma attenzione: all'epoca il termine globalizzazione non esisteva nemmeno! La parola globalization in inglese - e la sua traduzione italiana globalizzazione - viene coniata solo nel 1983. Quindi, se la parola non esisteva, come si può sostenere che il fenomeno fosse già in atto?
Dove sta allora l'equivoco? Nel confondere la globalizzazione con l'internazionalizzazione delle relazioni economiche, che invece esiste da sempre: importazioni ed esportazioni si facevano già nell'antichità. Ma la globalizzazione è un fenomeno qualitativamente diverso. Qui si vede chiaramente come la mancanza di una cultura profonda possa portare a confondere un cambiamento con una trasformazione. Molti economisti dell'epoca pensarono che la globalizzazione fosse un cambiamento, quando in realtà rappresentava una vera e propria trasformazione.
E qual è la differenza? Prima della globalizzazione, le transazioni internazionali riguardavano principalmente gli output, cioè prodotti, merci e servizi. Con la globalizzazione, invece, tutto è diventato oggetto di scambio: non solo gli output, ma anche gli input (capitale, tecnologia, materie prime) e, soprattutto, i diritti umani fondamentali.
Eppure, quando si parla di globalizzazione, raramente si sottolinea questo aspetto. Tutti pensano all'import/export, ma questa è una semplificazione fuorviante, perché le esportazioni e le importazioni esistevano già da secoli.
Solo dopo il 1975 si è concretizzato il mercato globale dei capitali, avviando la cosiddetta finanziarizzazione dell'economia, e si è sviluppato il mercato globale del lavoro. È in quel momento che le imprese hanno iniziato a spostare la produzione dove il costo del lavoro era più conveniente: si chiudeva una fabbrica in un Paese e se ne apriva un'altra in Asia, in Romania o altrove.
Prima, tutto questo non era nemmeno immaginabile. Basti pensare a David Ricardo, il grande economista inglese dell'inizio dell'Ottocento, teorico della prima rivoluzione industriale. Ricardo sosteneva che gli scambi dovessero riguardare le merci, mentre capitali e lavoratori dovevano restare dove si trovavano, a Londra, in Inghilterra. Noi non mandiamo i nostri fuori, diceva.
Ecco la grande trasformazione: oggi, al contrario, tutto può muoversi liberamente.
Il libro di Ricardo risale al 1820, e così via. Ma c'è un altro aspetto fondamentale della globalizzazione di cui si parla poco: la legalizzazione del mercato degli organi umani.
Quando ho parlato di diritti umani fondamentali, mi riferivo anche a questo. Forse non tutti lo sanno, ma oggi il mercato degli organi è ancora più fiorente di quello della droga. Se guardiamo al volume d'affari, i numeri parlano chiaro. E perché accade? Il meccanismo è tragicamente semplice.
Nei Paesi più poveri, dove molte famiglie non riescono a sopravvivere, può accadere che un figlio venga venduto ai trafficanti di organi. Noi sappiamo chi sono questi intermediari. I bambini, soprattutto i più piccoli, vengono uccisi perché i loro organi sono considerati più "preziosi", più duraturi. E poi questi organi finiscono in cliniche che operano con autorizzazioni ufficiali.
Sappiamo anche dove si trovano queste cliniche. E se vi chiedete come faccia a saperlo, è perché per otto anni sono stato a Ginevra come presidente della ICMC, un'istituzione che, presso le Nazioni Unite, si occupava proprio di questi temi. Ho visto cose che non si possono nemmeno raccontare.
Il ragionamento che veniva fatto all'epoca - e qui apro una breve parentesi - era: che male c'è?. Dopotutto, secondo l'utilitarismo, tutto ciò che è utile è anche lecito. Sapete cos'è l'utilitarismo? È una corrente di pensiero nata in Inghilterra con Jeremy Bentham nel 1789, ed è ancora oggi dominante. Il suo principio fondamentale è che un'azione è giusta se porta il massimo beneficio al maggior numero di persone.
Ora, se io sono un padre povero con molti figli, potrebbe sembrare "utile" sacrificare uno di loro per garantire la sopravvivenza degli altri. Con il denaro ottenuto dalla vendita di un figlio, posso sfamare il resto della famiglia. È un ragionamento spietato, ma perfettamente coerente con la logica utilitarista.
In Italia, fino a una trentina d'anni fa, esisteva una clinica in Sicilia coinvolta in questi traffici. Poi, grazie a un'indignazione popolare, venne chiusa. Oggi, nel nostro Paese, queste pratiche non esistono più, ma altrove sì. E so con certezza in quali Paesi e persino in quali città si trovino queste cliniche. Ma nessuno può dire nulla, perché il fenomeno è stato in qualche modo "legalizzato".
Tutto questo dimostra quanto la globalizzazione sia qualcosa di qualitativamente diverso rispetto alla semplice internazionalizzazione del commercio, che invece esiste da sempre.
L'altro grande evento che ha segnato la trasformazione globale è stata la rivoluzione delle nuove tecnologie, soprattutto Internet. Se la globalizzazione ha cambiato il modo in cui le economie interagiscono, Internet ha rivoluzionato la comunicazione e la diffusione delle informazioni. Oggi, invece, il termine chiave è intelligenza artificiale, che caratterizza l'attuale fase, quella che alcuni definiscono la quarta rivoluzione industriale.
E cosa è successo? Che questi due fenomeni - globalizzazione e rivoluzione tecnologica - si sono verificati più o meno nello stesso periodo, amplificandosi a vicenda. Senza Internet, la globalizzazione avrebbe forse avuto un impatto molto più limitato.
I primi Paesi ad adottare e promuovere la globalizzazione sono stati gli Stati Uniti e il Regno Unito, con leader come Margaret Thatcher e Ronald Reagan. In Italia, il fenomeno è arrivato con circa quindici anni di ritardo, anche a causa di intensi dibattiti che molti ancora ricordano. Alla fine, però, siamo stati inevitabilmente trascinati dentro questo processo.
Questa seconda grande trasformazione ci pone di fronte a una sfida: non significa che quello che abbiamo imparato in passato sia sbagliato, ma semplicemente che è diventato obsoleto. Obsoleto significa superato, non errato. Pensate al teorema di Ricardo sul Factor Price Equalization. Ai miei tempi, quando studiavo a Oxford, ce lo facevano imparare a memoria, perché era considerato il pilastro della teoria economica. Oggi, però, non lo si insegna più. E sapete perché? Perché sarebbe un insulto alla verità.
La globalizzazione ha reso inadeguate le ipotesi su cui si basava il grande David Ricardo, un economista di origine italiana (nacque a Livorno), naturalizzato inglese. Il suo teorema ha avuto un impatto enorme, perché ha fornito una giustificazione teorica al colonialismo. E il colonialismo, come sappiamo, è stato uno strumento di dominio per secoli. Oggi, formalmente, il colonialismo non esiste più, ma è stato sostituito dal neocolonialismo, che sotto certi aspetti è persino più subdolo.
Ricardo, ovviamente, non aveva queste intenzioni. La responsabilità è di chi ha usato le sue teorie in modo strumentale. Ma di questo nessuno parla. Anche nei libri di testo, su questi temi si trova solo silenzio.
Io, però, ho imparato che la verità va detta, anche quando è scomoda, anche quando dà fastidio. Poi, naturalmente, si possono avere opinioni diverse, ma la verità non deve essere occultata.
L'altro grande fenomeno di questa trasformazione è la quarta rivoluzione industriale, che ha preso forma negli ultimi vent'anni e vede come protagonista l'intelligenza artificiale.
La storia dell'intelligenza artificiale è affascinante. Tutto ha inizio con Alan Turing, nel 1950. Turing, un genio assoluto, morì prematuramente in circostanze mai del tutto chiarite. Fu lui a decifrare i codici nazisti, permettendo agli inglesi di anticipare gli attacchi nemici durante la Seconda guerra mondiale.
In Inghilterra, Turing è considerato quasi una figura mitologica. Già nel 1950 scrisse un saggio fondamentale in cui parlava di un futuro in cui le macchine avrebbero raggiunto un'intelligenza paragonabile a quella umana. Questo studio è passato alla storia come il Test di Turing.
L'espressione intelligenza artificiale, invece, non è sua. Sarebbe stata coniata solo otto anni dopo. Ma già allora Turing aveva intuito la direzione in cui il mondo si sarebbe mosso.
Arrivando ai giorni nostri, è evidente che i giovani di oggi conoscono bene i chatbot, il più famoso dei quali è GPT-3. Non entrerò nei dettagli tecnico-scientifici, perché li do per noti e, in ogni caso, non sono il mio ambito di competenza. Quello che so, lo imparo dai colleghi di fisica e ingegneria. A me interessa piuttosto soffermarmi sulle implicazioni di queste tecnologie, sul loro impatto.
La mia posizione, che difendo da tempo, è ben rappresentata da una metafora che risale a Platone. Nell'antica Grecia si discuteva se fosse opportuno insegnare ai bambini delle elementari a scrivere. La scrittura era un'invenzione recente e c'erano pareri contrastanti: alcuni la ritenevano utile per conservare conoscenze e ricordi, altri - come Socrate - la consideravano un rischio, perché avrebbe potuto ridurre l'intelligenza e la capacità di pensare in modo critico.
Platone affrontò la questione inventando una storia ambientata nell'antico Egitto. Nel racconto, il faraone viene interrogato sull'utilità della scrittura e gli viene detto che essa è un pharmakon, parola greca che significa sia "medicina" che "veleno". Il faraone risponde che, sì, la scrittura è un pharmakon, ma nella sua accezione negativa: può essere un rimedio se usata correttamente, ma anche un veleno se impiegata in modo inappropriato.
Ecco, io credo che lo stesso valga per le nuove tecnologie. Questa posizione è stata ripresa anche da Umberto Eco, che negli anni '90 distinse tra "apocalittici" - coloro che vedono nelle tecnologie una minaccia - e "integrati" - quelli che credono che risolveranno ogni problema dell'umanità. Entrambi, diceva Eco, sbagliano. Da un lato, è vero che la tecnologia porta benefici enormi, basti pensare al campo medico; dall'altro, è ingenuo credere che l'innovazione tecnologica renda irrilevante il ruolo della cultura e dell'essere umano nella sua gestione.
La mia posizione è intermedia: la verità sta nel mezzo. Non bisogna cedere agli estremismi, perché contengono elementi di verità ma, portati all'eccesso, rischiano di produrre effetti contrari a quelli desiderati.
Lavoro e nuove tecnologie
Una delle implicazioni più rilevanti riguarda il lavoro, un tema centrale per i giovani. Un ventenne di oggi sa che nei prossimi dieci anni assisterà a una vera e propria rivoluzione. Studi recenti di istituti di ricerca internazionali, come quello di Monaco, prevedono che entro un decennio oltre il 40% delle attuali posizioni lavorative scomparirà.
Di fronte a questo scenario, c'è chi grida al disastro e sostiene che le tecnologie distruggano il lavoro. Ma questo è un atteggiamento apocalittico e sbagliato: le tecnologie non eliminano il lavoro, lo trasformano. La storia lo dimostra: quando è stato inventato il trapano elettrico, non ha cancellato il mestiere dell'artigiano, ma lo ha reso meno faticoso. La differenza è che, oggi, l'innovazione non si limita a sostituire il lavoro fisico, ma anche quello intellettuale.
In passato, l'automazione ha tolto fatica fisica; oggi, l'intelligenza artificiale sostituisce le capacità mentali delle persone. Questo è il vero problema. Finché la tecnologia ha alleggerito il lavoro manuale, tutti erano d'accordo. Ma ora che sta rimpiazzando le abilità cognitive, la questione si complica.
E qui il sindacato - non solo in Italia, ma in molti paesi - mostra un grave ritardo culturale. Non si tratta solo di trovare un nuovo impiego a chi perde il lavoro, ma di ripensare la formazione in modo strutturale, affinché le persone possano riqualificarsi nel tempo. Altrimenti, rischiamo di offrire soluzioni temporanee, destinate a fallire nel giro di pochi anni.
La trasformazione della struttura occupazionale
Per spiegare questo concetto ai miei studenti, uso una metafora geometrica. In passato, la struttura del mercato del lavoro era rappresentabile con una piramide: alla base c'erano le mansioni ripetitive, mentre chi studiava saliva verso l'alto, fino a raggiungere posizioni dirigenziali. L'idea era che, con un diploma o una laurea, si avesse una certa sicurezza lavorativa.
Oggi, invece, il modello è cambiato: la piramide si è trasformata in una clessidra. Alla base ci sono ancora i lavori meno qualificati. La parte centrale, però, si è ristretta: chi si ferma a un livello di istruzione intermedio fatica a trovare una collocazione stabile. In compenso, si apre un'ampia fascia superiore per chi sviluppa competenze avanzate, in particolare creative e interdisciplinari.
Questo significa che il vecchio modello scolastico-universitario, basato sulla Riforma Gentile, non è più adeguato. È un sistema che separa la conoscenza dall'azione: prima si studia, poi si lavora. Ma oggi questo approccio non regge più. Serve una formazione più dinamica, che accompagni la persona per tutta la vita.
La necessità di un nuovo modello educativo
La nostra scuola e università devono cambiare. Continuare a formare persone secondo un modello rigido e taylorista - in cui pochi pensano e molti eseguono - non ha più senso. Le imprese stesse non vogliono più lavoratori passivi, ma persone creative, capaci di adattarsi e innovare.
Studi di neuroscienza dimostrano che la plasticità cerebrale, ossia la capacità di apprendere e reinventarsi, è particolarmente sviluppata fino ai 35 anni. Dopo, diventa più difficile cambiare schema mentale. Per questo è fondamentale puntare su una formazione che stimoli questa plasticità, anziché limitarsi a un'iperspecializzazione che, nel mondo complesso di oggi, diventa rapidamente obsoleta.
Il concetto chiave è quello di conazione, una parola antica che unisce conoscenza e azione. Aristotele parlava di eudaimonia, la realizzazione del proprio potenziale. Il nostro sistema educativo dovrebbe perseguire questo obiettivo: dare ai giovani strumenti per sviluppare le loro capacità e affrontare le sfide del futuro, senza chiuderli in schemi rigidi e superati.
Alcuni tentativi di riforma esistono già in Italia, con risultati promettenti. Ma siamo ancora lontani da un cambiamento sistemico. È necessario che la società civile e la politica - quella con la "P" maiuscola - si impegnino per trasformare il nostro sistema di istruzione, rendendolo più adatto alle esigenze di un mondo in continua evoluzione.
Solo così potremo evitare di creare una generazione di disoccupati e, al contrario, formare persone capaci di costruire il proprio futuro con consapevolezza e libertà.
Pensiamo al mondo delle imprese nel cosiddetto Terzo Settore. Gli ETS (Enti del Terzo Settore) sono imprese, anche loro. Una cooperativa sociale non è un'impresa? Un'impresa sociale non è un'impresa? Una B-Corp non è un'impresa? E allora, di cosa parliamo? Perché si vuole far credere che solo l'impresa capitalistica sia la vera impresa? Chi lo ha deciso? Forse a qualcuno fa comodo pensarlo, così da modellare la legislazione per favorire esclusivamente quel modello.
Ma non è vero che l'impresa sia solo quella. L'impresa, come concetto, è nata in Italia, più precisamente in Toscana, tra il 1300 e il 1400. Se leggessimo i testi dell'epoca, ci renderemmo conto che il mercante di allora era, a tutti gli effetti, un imprenditore. Il termine "imprenditore" come lo conosciamo oggi, però, è stato coniato solo nel 1730 dall'economista irlandese Richard Cantillon.
Prima di allora, il termine usato era "mercante" o "artigiano", che in realtà svolgevano lo stesso ruolo dell'imprenditore moderno. Leonardo da Vinci, ad esempio, era un imprenditore prima ancora che un grande artista e scienziato. Il suo modello di "Bottega artigianale", noto anche come "Bottega leonardesca", è stato un esempio straordinario di impresa innovativa. Purtroppo, nel tempo, questo modello è stato spazzato via da visioni contrarie allo sviluppo di un'economia più inclusiva.
Il valore del lavoro e il rischio della politica miope
Oggi, grazie all'evoluzione tecnologica, abbiamo l'opportunità di restituire al lavoro la sua dignità. Ma per farlo serve volontà politica, non semplici dichiarazioni di principio. Non basta lamentarsi, bisogna agire, perché se chi ci governa non ha le competenze per comprendere questi temi, allora è giusto che lasci il posto a chi ne capisce di più. Affidare il potere a chi non è in grado di gestirlo non è solo sbagliato, è immorale.
Il capitalismo, per funzionare, ha bisogno di concorrenza vera, non solo di facciata. E la concorrenza, a sua volta, deve essere regolamentata da leggi antitrust efficaci, non da un potere centrale che rischia di soffocare il mercato. Tuttavia, queste cose raramente vengono dette, perché a qualcuno conviene mantenere lo status quo.
Il problema delle grandi corporazioni e la sfida etica
Uno dei pericoli più grandi di questa era post-industriale è la concentrazione del potere economico nelle mani di poche grandi aziende, come le GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft). Questa oligopolizzazione minaccia la concorrenza e, di conseguenza, il corretto funzionamento del mercato. Anche Papa Francesco, nell'enciclica Fratelli Tutti, ha sottolineato come una politica subordinata agli interessi economici non possa garantire una vera democrazia.
L'Unione Europea sta cercando di intervenire con regolamenti per contenere il potere delle big tech e preservare i valori democratici, ma la battaglia è complessa. Nel frattempo, si assiste a un'altra sfida epocale: lo scontro tra il progetto transumanista e quello neoumanista.
Transumanesimo vs. Neoumanesimo
Oggi esistono due visioni contrapposte del futuro:
Il transumanesimo, che prevede un superamento dell'essere umano attraverso la tecnologia, fino a renderlo obsoleto entro il 2050.
Il neoumanesimo, che invece mira a preservare e valorizzare l'essenza umana, integrando le nuove tecnologie senza perdere il senso dell'identità e della coscienza.
Negli ultimi anni, il transumanesimo ha ricevuto finanziamenti enormi, soprattutto in California, dove nel 2007 è stata fondata la Singularity University, un centro di ricerca sostenuto dalle grandi multinazionali tecnologiche. L'obiettivo? Dimostrare che l'intelligenza artificiale può sostituire l'uomo in ogni ambito, persino in quelli che tradizionalmente abbiamo associato alla spiritualità e alla riflessione etica.
Per rispondere a questa sfida, nel 2020 Papa Francesco ha lanciato la Rome Call for AI Ethics, un'iniziativa volta a introdurre principi etici nell'uso delle nuove tecnologie. Questo progetto ha già ottenuto il sostegno di leader religiosi e scienziati di tutto il mondo, contribuendo alla recente legislazione europea sulla regolamentazione dell'intelligenza artificiale.
A settembre 2025, alle Nazioni Unite, si terrà un'assemblea straordinaria per discutere il Pact for the Future, un accordo che affronterà anche questi temi. Tra le proposte ci sarà l'adozione del principio dell'Abarmentan, un concetto ispirato alla Magna Carta del 1215, che mira a tutelare la libertà di pensiero e la dignità umana di fronte al progresso tecnologico incontrollato.
Il ritorno alla politica (non alla partitica)
Tutto questo ci riporta a una questione fondamentale: la politica. Ma attenzione, non la partitica.
La politica esiste da 2300 anni ed è nata con Aristotele. La partitica, invece, è un'invenzione recente, risalente a poco più di un secolo fa. Eppure, oggi molti confondono le due cose, pensando che fare politica significhi necessariamente entrare in un partito.
Questo è un errore grave. La politica riguarda la gestione del bene comune, mentre i partiti sono solo strumenti per raggiungere questo fine. Non possiamo delegare completamente le scelte fondamentali a chi ci rappresenta nelle istituzioni; dobbiamo restare attivi, informati e partecipi.
Le nuove tecnologie, paradossalmente, potrebbero aiutarci a recuperare questa consapevolezza politica. Non possiamo più permetterci di restare spettatori passivi, né tantomeno di cadere nella trappola del misoneismo, l'atteggiamento di chi crede che il cambiamento sia impossibile e che le cose debbano restare sempre uguali.
Le difficoltà esistono, certo. Ma non dobbiamo ingigantirle. Come diceva Victor Hugo: Il mare ha bisogno degli scogli per alzarsi più in alto.