Economia


Leyla Cirasuolo

Rapporto tra Etica e Economia

 

 

 

 

 

 

Il lavoro si basa sul forte legame che esiste tra etica ed economia, l'esistenza di un obbligo sociale come pure il dovere di agire nel rispetto di valori e principi eticamente connotati.

La crisi globale ha reso forte il dibattito sul delicato rapporto tra etica ed economia. Realizzando dei modelli di sviluppo economico socialmente responsabili e fondati su valori etici. "L'economia spiega le interazioni sociali assumendo l'esistenza di individui razionali nel senso di individui che massimizzano una qualche funzione obiettivo sotto vincoli; l'etica giustifica le interazioni sociali a partire dall'assunto che gli individui sono razionali nel senso che conformano il proprio comportamento a standard di condotta universalmente accettabili"[1]

La separazione dell'etica dall'economia origina, trova la sua origine nella Modernità e si è andata sempre più radicalizzando. Da un lato l'economia si è cristallizzata nelle sue leggi divenute autonome ed autoreferenziali e tali da pretendere di potersi estendere anche ad ambiti extraeconomici, dall'altro lato la riflessione filosofico morale si è cristallizzata nella formula di una deontologia fine a se stessa, incentrata sull'osservanza del dovere in quanto tale e perdendo di vista il concreto rapporto con la realtà.

Alla base dell'allontanamento dell'economia dall'etica (e viceversa), vi è l'interpretazione, spesso superficiale, del pensiero smithiano[2], che ha portato alla teorizzazione dell'esistenza di comportamenti tendenti solo alla massimizzazione di benefici economici in termini di efficienza in un mercato capace di giustificarne successi e fallimenti. L'agire economico, quindi, sarebbe di per sé stesso etico in quanto orientato al benessere e determinerebbe l'identità tra obiettivi economici individuali e sociali. L'errata applicazione del pensiero smithiano è stata certamente favorita dall'insufficiente analisi, particolarmente durante l'ultimo secolo, del comportamento umano nelle attività di tipo economico.

In età contemporanea è divenuta emblematica la divaricazione tra economia ed etica che si deve anche all'influenza che una determinata teoria etica ha avuto sull'economia: l'utilitarismo.

Il filone dell'utilitarismo nasce, alla fine del Settecento, in ambito etico e grazie ad esso viene elaborata la centralità del concetto di utilità (è buono ciò che è utile). Il buono è l'utile. Agisce bene ed è felice, quindi, colui che massimizza la propria utilità. La felicità allora coincide con il piacere e il benessere collettivo deriva dalla somma dei singoli livelli di benessere individuale. Concetti dominanti nella teoria economica quali quello di homo oeconomicus (sviluppato soprattutto dagli economisti politici e che riporta ai principi smithiani di comportamento razionale e massimizzante profitti e utilità degli individui) e di human resource (che deriva dal business management) hanno omologato gli esseri umani a macchine con stessi desideri e bisogni, negandogli l'identità di soggetti capaci di agire moralmente e nella loro specifica dignità; di poi, lo sviluppo dell'etica utilitaristica, portano a ritenere "giusto" qualsiasi comportamento che rende massimo il benessere sociale, determinato quale sommatoria della felicità - come somma delle utilità dei singoli individui. Secondo tale impostazione, l'utilità è aggregabile mediante l'operazione di somma. L'utilità, intesa da Bentham, diventa il perno del ragionamento etico, mentre la valutazione morale di un atto è ricondotta alla sua capacità di produrre felicità o piacere, senza alcuna aprioristica connotazione negativa[3]. L''utilitarismo proprio per la sua agevole applicazione, diventa un principio guida della condotta umana in ambito economico, giuridico e politico, sfere dell'agire umano per le quali, quindi, si legittima l'indipendenza dal giudizio morale; ed ancora, lo sviluppo di modelli matematici per l'interpretazione dei fenomeni economici. L'interpretazione dei fatti economici avviene, sin dagli studi di Walras, attraverso strumenti di analisi fondati su modelli matematici in cui non trovano spazio diversità di comportamento e valutazioni di natura etica.

Se il progressivo allontanamento dell'economia dall'etica ha radici lontane, il suo ricongiungimento parte dalla storia dell'ultimo secolo.

La grande crisi del 1929-39, gli shock petroliferi degli anni 70, tutti questi input hanno dato una svolta al processo di cambiamento delle teorie - fino ad allora dominanti - per le quali l'obiettivo prioritario era l'efficienza, mentre un ruolo subordinato assumeva l'equità; teorie in cui "gli ineludibili problemi dell'interdipendenza in gioco nella valutazione dei diritti in seno a una società" non sono considerati[4].

E' in questo quadro che in ambito economico nasce un nuovo mondo di ricerca denominato "Economia e Felicità"[5]. Non è possibile asserire che al crescere del reddito pro-capite l'indice di benessere soggettivo medio  assume sempre un andamento crescente; maggior reddito non significa necessariamente maggior benessere e felicità[6].

Prende sempre maggior consistenza, quindi, la consapevolezza che l'economia, seppur disciplina scientifica, "è legata contemporaneamente all'etica e alla razionalità"[7]. In tal senso, McCoy chiarisce che l'etica, lungi dall'essere solo un rigido insieme di regole, deve essere intesa come "una continua riflessione sul significato delle azioni...persone e organismi economici non possono non essere chiamati ad acquisire coscienza di svolgere costantemente tale riflessione".

La scienza economica, dunque, non può procedere da sola, senza il connubio con l'etica, "dal momento che è ormai ai più chiaro che le teorie economiche non sono strumenti neutrali...sono anche, direttamente e indirettamente, strumenti di modificazione degli assetti economici e sociali esistenti"[8].

Centralità della società ed armonizzazione dei diversificati interessi in gioco, la comunità non può essere un semplice aggregato di individui, bensì un corpo che influenza le relazioni tra gli individui[9]; "nelle formazioni sociali artificiali, in cui gli uomini hanno rapporti con gli altri uomini, l'intelligenza deve unirsi alla moralità, perché quest'ultima è l'anima della sua esistenza"[10].

Nel contesto della letteratura egualitaria con ampio respiro all'etica della responsabilita, Hans Jonas, prima di altri, propone di delineare un'etica globale ontologica, diretta e "costruita" per il benessere dell'umanità, minato dalla civiltà tecnologica, attraverso la strutturazione di un modus agendi" compatibile con la continuazione di una vita autenticamente umana". Grazie ai suoi studi filosofici e teologici, Jonas ha sviluppato una originale filosofia della natura e dell'ecologia fondata sul principio di responsabilità quale valore portante delle azioni di oggi per un domani possibile.

L'economia, al termine di evoluzioni teoriche durate svariati secoli, recupera la sua componente etico-sociale.

Chiarito che il ricongiungimento tra valori etici e principi economici rappresenta, oramai, un'improcrastinabile esigenza, non vi è dubbio che il raggiungimento di tale ambizioso obiettivo impone una profonda riflessione sui comportamenti imprenditoriali e sulle condotte manageriali essendo, le imprese, l'anima di qualsiasi economia.

L'analisi tenderebbe a comprendere entro quali limiti sia giusto attribuire alle imprese una responsabilità sociale ed etica e, deve necessariamente partire dalla rivisitazione della stessa nozione di impresa, sempre più lontana da una visione arcaica - benché sostenuta con vigore da autorevolissima dottrina[11] - tesa a considerare l'impresa come semplice strumento per il raggiungimento del profitto quale remunerazione del capitale investito dalla proprietà. Oggi è sostanzialmente condivisa l'idea che l'impresa assume una rilevanza sociale in quanto centro di legittime aspettative maturate da una pluralità di stakeholder. La concezione dell'impresa come "sistema economico e sociale, a cui prende parte una pluralità di attori, che deve essere guidato in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi economici e responsabilità sociali"[12], ampliando il sistema degli interlocutori da considerare, attribuisce nuove responsabilità all'impresa che, nella gestione delle relazioni che si vengono ad instaurare tra i diversi portatori di interesse, è chiamata ad assumere, in virtù dell'applicazione di valori e principi etici, decisioni giuste ed equilibrate che consentano di raggiungere un opportuno bilanciamento tra gli interessi dei diversi stakeholder.

E' dunque anzitutto alla teoria degli stakeholder[13]  che occorre fare riferimento sebbene limitata ai rapporti tra la proprietà (principal) e il management (agent).

La prima teoria organica, incentrata sull'analisi dei rapporti tra l'impresa e le differenti categorie di stakeholder, è attribuibile a Freeman, per il quale gli stakeholder sono tutti quei soggetti "che abbiano diritti, interessi o rivendicazioni verso un'azienda o che, comunque, ne possano influenzare la performance attuale e futura"[14].

Secondo questo approccio l'impresa, quindi, può essere vista come un complesso sistema di relazioni tra gruppi di interesse con differenti diritti, obiettivi, aspettative e responsabilità, la cui sopravvivenza e il cui successo dipendono dalla capacità del management di creare e distribuire valore a tutti gli stakeholder.

L'evoluzione fondamentale della teoria dell'impresa, dunque, è segnata dal passaggio dalla visione imprenditoriale a quella sociale dell'impresa stessa. In tal senso, secondo Bartels "l'attività di un'impresa può essere intesa come un processo sociale all'interno del quale si viene a realizzare un processo economico".

Questo cambiamento di prospettiva segna il passaggio da una finalità di impresa volta alla creazione e diffusione del valore[15] alla finalità della creazione (e diffusione) del valore in senso allargato[16], ossia rivolta a tutti gli stakeholder aziendali.

L'obiettivo dell'impresa non è solo la finalità di massimizzazione del profitto: il raggiungimento del prestigio da parte dell'imprenditore può spiegare la volontaria adozione di condotte etiche e socialmente responsabili, è su un piano diverso che occorre ragionare per arrivare a riconoscere una responsabilità sociale in capo alle imprese.

In tal senso occorre anzitutto osservare che un'azienda svolge una funzione sociale per il fatto stesso di esistere, di essere composta da uomini e di porsi in relazione con l'esterno. I concetti di fondo sui quali si giustificano la responsabilità e il ruolo sociale dell'impresa sarebbero, quindi, essenzialmente due. Da un lato l'azienda, una volta creata, diviene patrimonio di tutti coloro che, direttamente e indirettamente, vi partecipano: essa finisce così per trascendere la proprietà e, se economicamente valida, raggiunge la legittimazione a sopravvivere indipendentemente dal volere della stessa proprietà. Dall'altro l'azienda è responsabile verso la comunità, a cui addossa dei costi e verso cui assume dei doveri da soddisfare per bilanciare i primi.

Importante contributo in questa direzione è giunto dalla teoria del contratto sociale[17]: l'autore, adattando alle imprese le argomentazioni sostenute già da decenni da importanti contrattualismi quali Hobbes, Locke e Rousseau, attribuisce alle imprese un diritto/dovere di cittadinanza. Le imprese, al pari delle persone fisiche, utilizzano le risorse che la società mette a loro disposizione sostenendo dei costi che in linea di massima risultano inferiori al valore di cui beneficiano e, per questo, assumono l'obbligo di contribuire a risolvere i problemi sociali. Si può sostenere, dunque, che "all'impresa viene sempre più insistentemente richiesto di perseguire finalità economiche socialmente qualificate e di concorrere alla salvaguardia ambientale"[18]. In tal senso, sembrano non più attuali le tesi volte ad attribuire all'impresa un ruolo sociale per la semplice generazione del profitto. Finché il contesto sociale consentiva all'azienda di occuparsi unicamente degli interessi degli stockholder, l'unica responsabilità sociale impostale era quella di conformarsi ai limiti derivanti dal rispetto della legalità. Dal momento che, invece, è diventato necessario agire in termini di stakeholder management nel risolvere gli inevitabili conflitti tra i vari gruppi di interesse, l'assunzione di decisioni che entrano nell'ambito della responsabilità sociale d'impresa sono divenute un problema di importanza strategica.

A questo punto occorre porsi un interrogativo che deve servire ad introdurre con maggiore convinzione l'etica nella gestione d'impresa: come può l'impresa trovare il giusto equilibrio tra interessi talvolta divergenti? La risposta è, ancora una volta, da ricercare nella condotta etica del management che, nel proprio agire, deve ricercare quell'equilibrio dinamico tra interessi diversi che consente all'impresa di sopravvivere nel tempo.

Sebbene nelle norme di legge siano ravvisabili componenti etiche di base, ciò non consente di affermare che il rispetto di leggi e regolamenti sia di per sé sufficiente ad assicurare comportamenti eticamente corretti, i quali di norma includono, ma talvolta prescindono dagli aspetti puramente giuridici. Le leggi  riguardano per lo più quelle ipotesi di violazioni "gravi" che si risolvono spesso in un pregiudizio altrui. Se la vera "fonte legittimante" dell'attività d'impresa risiede nello svolgimento della sua intrinseca funzione sociale, e se è l'etica a garantirne il corretto assolvimento, allora la stretta osservanza delle leggi sarebbe di per sé inadeguata ad assicurare all'impresa quell'indispensabile "diritto di cittadinanza" che si pone ormai "come precondizione che porta all'esistenza dell'impresa stessa e, al medesimo tempo, come l'attributo che ne assicura la sopravvivenza"[19].

La normativa, in tal senso, definisce i principi minimi da rispettare per il benessere della società ma non indica quale sia o quale potrebbe essere il comportamento più desiderabile. Non esistono sanzioni legali esplicite per la mancanza di un orientamento all'eccellenza o dell'assunzione di responsabilità addizionali, ma il giudizio dell'opinione pubblica e del mercato può risultare ancora più penalizzante di semplici sanzioni economiche. In tale prospettiva, l'etica rappresenta la via per la ri-legittimazione sociale delle imprese.

Premesso che l'evoluzione del concetto di impresa porta ad attribuirle delle responsabilità sociali e un dovere di comportamento etico, occorre capire fino a che punto si estendono questi doveri.

Il ragionamento non può che partire da una doppia constatazione. La prima è rappresentata dall'esigenza, da parte dell'impresa, di mantenere un equilibrio economico funzionale alla sua stessa sopravvivenza. Un'impresa che produce perdite non genera utilità per la collettività ma, anzi, finisce per addossarle i propri costi. Non è quindi legittimata a sopravvivere, sebbene considerazioni di ordine diverso portano in alcuni casi a mantenere artificialmente in vita aziende senza una propria autonomia economica.

La seconda considerazione rappresenta una presa di coscienza: l'adozione di condotte etiche e socialmente responsabili ha una rilevante incidenza sul conto economico delle imprese. Da qui nasce l'esigenza di capire fino a che punto le imprese risultino obbligate a tenere determinati comportamenti che, al limite, potrebbero comprometterne la stessa sopravvivenza. In pratica, le imprese sono costrette a mantenere condotte pienamente etiche e socialmente responsabili anche quando il vincolo di bilancio non lo consente?

La risposta va ricercata, in primo luogo, nel rapporto che intercorre tra etica e regolamentazione, la quale rappresenta il livello minimo di eticità delle condotte manageriali. Neanche in virtù di una presunta sopravvivenza le imprese possono assumere condotte contra legem. Ma se il rispetto della legge definisce solo il livello minimo di eticità delle condotte manageriali occorre capire qual è il livello massimo e come raggiungerle.

Anche il concetto di responsabilità sociale di impresa si è evoluto in considerazione della crescente attenzione rivolta verso uno sviluppo sostenibile dell'economia, assumendo una dimensione sempre più globale, tant'è che anche la Commissione Europea, nel Libro verde realizzato nel luglio 2001, ha provveduto a fornire una propria definizione di responsabilità sociale quale "integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate".

L'interrogativo, quali benefici derivino all'impresa dall'assunzione di atteggiamenti virtuosi appare pertinente soprattutto perché, come si è avuto modo di osservare, l'assunzione di comportamenti etici e socialmente responsabili comporta il sostenimento di costi che possono anche essere rilevanti, al punto da incidere sensibilmente sul conto economico dell'impresa determinando la riduzione del profitto.

Se la questione si pone in termini di benefici, la risposta non conduce a vedute condivise.

Quanto i comportamenti virtuosi portino a benefici economicamente valutabili e poi quali sarebbero gli eventuali benefici di natura non economica, che derivino dall'assunzione di comportamenti virtuosi.

E' evidente che un atteggiamento manageriale volto a privilegiare la massimizzazione del profitto nel breve periodo eludendo gli inevitabili costi dell'etica e della responsabilità sociale appare oramai troppo miope e incurante dell'obiettivo prioritario che è e resta quello della sopravvivenza aziendale nel tempo. Le tensioni e i conflitti che deriverebbero da condotte imprenditoriali assunte senza tener conto degli interessi dei diversi stakeholder potrebbero generare diseconomie o più semplicemente, ledere all'immagine dell'impresa, privandola di consenso sociale e legittimazione.

Per quanto concerne, invece, l'analisi costi-ricavi non è possibile giungere a risposte scientificamente incontrovertibili sicuramente vi sono costi connessi all'impegno etico e sociale ma sicuramente genererebbero benefici economici per le imprese virtuose.

La stima dell'onerosità delle pratiche manageriali virtuose può essere fatta riconducendo i maggiori costi alle seguenti categorie: investimento per soddisfare istanze sociali ed ambientali; costi per il soddisfacimento delle richieste degli stokeholder, impiego di risorse per ampliare programmi di sviluppo dell'etica e della responsabilità sociale; scelte di mercato su aree geografiche più convenienti o su business redditizi che generano disvalori o diseconomie sociali; donazioni e sponsorizzazioni finalizzate allo sviluppo di programmi sociali.

E' in ogni caso possibile ritenere che l'adozione di comportamenti etici e socialmente responsabili determinando, nel lungo periodo, ritorni di immagine da un lato e fidelizzazione di clienti, dipendenti e fornitori dall'altro, rappresenta una leva importante sulla quale insistere non solo per legittimare il diritto alla propria esistenza godendo, perché no, del supporto dello Stato in periodi di particolari crisi economiche, ma anche per far crescere il valore di particolari risorse intangibili, che sono alla base del valore economico delle imprese. Il cambiamento da una prospettiva di breve periodo, rivolta essenzialmente al profitto, ad una prospettiva di medio-lungo termine, in cui il valore economico dell'impresa assume prioritaria importanza, diviene ancor più rilevante in riferimento alle imprese quotate, il cui valore è comunemente determinato mediante l'attualizzazione dei flussi finanziari attesi per il futuro (in un arco temporale medio-lungo). Per tali imprese, infatti, l'assunzione di pratiche virtuose dovrebbe determinare la riduzione del rischio percepito dagli investitori e, quindi, del costo del capitale che esprime il tasso al quale attualizzare i flussi prospettici[20]. Il valore di impresa, dunque, si arricchisce di una dimensione sociale che si affianca alla dimensione economica (reddituale, finanziaria e patrimoniale) e a quella competitiva.

Per comprendere se l'adozione di comportamenti etici determini dei benefici non di natura economica per l'imprenditore occorre anzitutto chiedersi se il profitto sia realmente l'unica finalità che egli persegue.

Secondo la teoria del successo sociale[21], riferibile agli imprenditori impegnati attivamente nella gestione della propria azienda e che hanno raggiunto una rilevante visibilità sul mercato, le finalità imprenditoriali sono almeno tre -profitto, potere, prestigio- da raggiungere in via progressiva. In primo luogo l'imprenditore è mosso dall'obiettivo di ottenere un soddisfacente livello di profitto, ottenuto un soddisfacente livello di profitto l'imprenditore, in maniera fisiologica, tende a raggiungere un apprezzabile potere nella sua comunità. Già questo primo passaggio impone un'apertura verso logiche non strettamente economiche Poiché l'ottenimento del prestigio sociale richiede il sostenimento di significativi investimenti in condotte dalla chiara valenza etica e socialmente responsabili. In tal senso l'adozione di comportamenti etici determina rilevanti benefici per l'imprenditore, sebbene tali benefici non siano misurabili in senso economico bensì in termini di riconoscimento sociale.

Soltanto seguendo un'impostazione di questo tipo l'etica d'impresa può essere intesa quale opportunità di sviluppo e non come vincolo posto alla gestione aziendale.

Oggi più di prima, il rispetto di valori etici e di equità sociale rappresenta un prerequisito dell'azione di qualsiasi impresa che abbia una visione strategica di medio-lungo periodo.

Non vi è dubbio, in ogni caso, che il rispetto di valori etici e l'adozione di comportamenti socialmente responsabili debbano trovare equo bilanciamento nelle esigenze di un'impresa. Essa dovrebbe essere in grado di conciliare gli interessi personali e quelli etici della collettività altrimenti finirebbe per ribaltare sul contesto socio-ambientale in  cui opera i suoi costi. Etica e responsabilità sociale devono sempre convivere con l'equilibrio economico dell'impresa.



[1] Cfr. S. Zamagni, Per la ripresa del dialogo tra Economia ed Etica, Working Paper n. 27 gennaio 2006

[2] Cfr. A. Sen, Etica ed economia, Laterza 2002, chiarisce l'errata interpretazione del pensiero di Smith, riportando alla luce gli scritti smithiani, trascurati, sul ruolo delle considerazioni di natura etica nel comportamento umano

[3] Cfr L. Morri, Etica e società nel mondo contemporaneo principi di giustizia per l'agire economico e sociale, F. Angeli 2004

[4] Cfr. A. Sen, Etica ed economia, Laterza 2002

[5] Cfr. R. Easterlin, Income and Happiness: Towards a Unified Theory, The Economic Journal 2001; cfr.Frey e Stutzer, Economia e felicità. Come l'economia e le istituzioni influenzano il benessere, Il Sole 24 ore 2006; cfr. Kahneman e Krueger, Developments in the Measurement of Subjective Well-Being, Journal of Economic Perspectives-Volume 20, Number 1-Winter 2006-Pages 3-24.

[6] Cfr. J.K. Galbraith, Economia e benessere,  Edizioni di comunità 1959-I

[7] Cfr .Husman e McPherson, Economics, rationality and ethics in The Philosophy of Economics: An Anthology, Cambridge University Press 1994

[8] Cfr. S. Zamagni, Economia e Etica, AVE edizioni Roma 1994

[9] Cfr. Eva Etzioni-Halevy, Social Change: The Advent and Maturation of Modern Society, Routledge Kegan & Paul 1981

[10] Cfr. M. Chiara Pievatolo, Hans Jonas: Un'etica per la civiltà tecnologica, in https://www.jstor.org/stable/43101082, 1990

[11] Cfr. M. Friedman, Capitalismo e libertà, IBL Libri 2016.

[12] Cfr. S. Sciarelli, Estratto da economia e gestione dell'impresa, CEDAM 2002

[13] Cfr.R. E. Freeman, G. Rusconi, M Dorigatti, Teoria degli stakeholder, Franco Angeli 2007

[14] Cfr Ibidem

[15] Cfr. L. Guatri, La teoria di creazione del valore: una via europea, Egea 1991

[16] Cfr. S. Sciarelli, Ibidem, 2002

[17] Cfr. Donaldson, Corporations and Morality, Prentice-Hall1982

[18] Cfr. S. Sciarelli, Ibidem, 2002

[19] Cfr. S. Sciarelli, Ibidem, 2002

[20] Cfr. F. Perrini, Responsabilità sociale dell'impresa e finanza etica, Egea 2002

[21] Cfr. S. Sciarelli, Ibidem, 2002