Liberismo negli Stati Uniti
Luca Castagna
L'ampiezza e la diffusione della potenza mondiale americana costituiscono, storicamente, un fenomeno unico. A partire dal 1898 gli Stati Uniti, oltre al dominio degli oceani e dei mari, hanno saputo sviluppare una capacità di controllo militare delle coste - rims - che consente di proiettare il proprio potenziale nell'entroterra in forme politicamente rilevanti. Il dinamismo economico statunitense, inoltre, costituisce la pre-condizione necessaria per l'esercizio dell'egemonia mondiale e, cosa ancor più importante, Washington ha saputo mantenere, e addirittura rafforzare, il proprio primato nello sfruttamento delle moderne scoperte scientifiche per scopi militari, creando, de facto, un esercito tecnologicamente ineguagliabile, l'unico in grado di controllare l'intero pianeta. In sintesi, l'America "ha una posizione predominante nei quattro settori decisivi del potere mondiale: militarmente, ha un controllo globale incontrastato; economicamente, resta la principale locomotiva della crescita internazionale; tecnologicamente, mantiene un primato generale nei settori più avanzati dell'innovazione; e culturalmente, esercita un richiamo senza pari, specialmente fra la gioventù del mondo intero. Ed è la combinazione di questi quattro fattori che fa degli Stati Uniti l'unica superpotenza globale sotto ogni profilo"[1]. Tuttavia, ciò che rende il sistema globale statunitense realmente diverso dalle precedenti esperienze imperiali è il grande valore che gli americani attribuiscono alla cooptazione. Analogamente ai "vecchi" imperi, la cooptazione a stelle e strisce si basa sull'esercizio indiretto di un'influenza su élite estere dipendenti; tutto questo, però, è rafforzato "dagli effetti impalpabili ma determinanti del dominio americano nelle comunicazioni, nell'industria dello spettacolo e nella cultura di massa"[2].
Il dominio culturale, come conseguenza diretta di un approccio storiografico di tipo "événementielle"[3], è stato un aspetto sottovalutato nello studio della potenza mondiale americana.
D'altra parte, la percezione della prospettiva culturale risulta facilitata nel momento in cui si analizza la dinamica associativa tra l'elemento ideologico di matrice democratica e quello politico-istituzionale alla base dell'identità nazionale americana. Alla luce di queste considerazioni risulta evidente che, quanto più l'imitazione dell'american way of life si diffonde nel mondo, tanto più è possibile che si crei un contesto congeniale all'esercizio di una forma egemonica di tipo consensualistico, che necessita, al di là dell'inevitabile intreccio geo-politico di alleanze, partnership e coalizioni internazionali, della messa a punto di procedure volte a produrre consenso e delicate simmetrie di potere.
In una prospettiva analitica che intenda oltrepassare lo studio dei singoli avvenimenti politici, diplomatici e militari, risulta possibile allontanare la storia dalla regione tradizionale dei "fatti" per focalizzare l'indagine su fenomeni di cambiamento culturale, strettamente connessi ai mutamenti degli equilibri strategici internazionali, nonché dipendenti dai progressi tecnico-scientifici di una determinata entità socio-politica.
Gli Stati Uniti, come detto, basano parte della propria leadership mondiale su di una supremazia di tipo geo-culturale, che, unendo il tradizionale elemento egemonico di tipo geografico-territoriale con la diffusione di un peculiare modello di vita, garantisce lo sfruttamento del primato nel settore della comunicazione di massa per finalità strettamente connesse alla legittimazione della propria politica estera e alla continua celebrazione dei miti fondativi della nazione. Quindi, il rapporto di lungo periodo tra l'apparato politico-strategico statunitense e l'industria cinematografica hollywoodiana può rivelarsi un valido strumento esemplificativo dell'importanza assunta dalla comunicazione di massa - e dall'industria cinematografica in particolare - nella strutturazione del consenso durante buona parte del ventesimo secolo, definito anche come "secolo americano"[4]. In questa prospettiva, risulta possibile attribuire un ruolo fondamentale al mezzo cinematografico sia nei processi evolutivi dell'ideologia della guerra fredda che per quanto concerne le rielaborazioni strategiche successive alla caduta del muro di Berlino.
Nonostante la superpotenza statunitense abbia potuto giovarsi, nell'immediato secondo dopoguerra, di una solidità economica e di un consenso politico senza precedenti[5], numerosi intellettuali ed artisti cinematografici opposero a questo ottimismo opere incentrate sulla paranoia e la profonda disperazione presente nel profondo della vita personale e pubblica. Nel cercare di spiegare questa dicotomia, la prospettiva di lungo termine permette di formulare ipotesi esplicative del perché gli americani pensassero, in campi diversi, che la cultura e i valori fossero così diversi rispetto agli anni precedenti l'inizio della contrapposizione bipolare. Focalizzando l'attenzione sull'intersecarsi tra politica e produzione culturale, è possibile affiancare i principali paradigmi interpretativi in materia, tenendo conto delle peculiarità evolutive della potenza statunitense, nel tentativo di comprendere come e perché nacque la cultura della guerra fredda[6].
A tal proposito, è indispensabile riconsiderare il cosiddetto periodo del "Fronte Popolare newdealista" per rendersi conto del fatto che le arti di massa - e in particolare Hollywood - erano state funzionali alla promozione dell'organizzazione dei lavoratori e delle riforme rooseveltiane. Nelle sfilate del labor day, ad esempio, le stelle del cinema contribuivano con la loro immagine a supportare i processi di sindacalizzazione operaia, confermando, inoltre, l'idea di Steven J. Ross, secondo cui i film di quel periodo "emerged as class weapons from the start"[7]. Questo significa che, se nel passato i lavoratori erano stati divisi dai conflitti etnico-razziali, i movimenti di massa degli anni Trenta superarono questi ostacoli e, contemporaneamente, le stesse idee di cambiamento si diffusero tra le personalità più popolari del periodo come obiettivi anche per la middle class[8].
Tuttavia, con la seconda guerra mondiale e, poi, la guerra fredda, alcuni leader hollywoodiani quali Ronald Reagan e Eric Johnston usarono l'anti-comunismo come arma per "convertire" i membri della Screen Actors Guild (SAG) alla nuova ideologia del consenso[9]. Come Johnston stesso asseriva nel suo libro America Unlimited[10], l'antiamericana retorica di classe dell'epoca del New Deal doveva essere eliminata per permettere la diffusione della prosperità e della "utopia of production for a moral rebirth"[11]. Ma, partendo dal fatto che l'ethos "un-american" aveva permeato la cultura politica hollywoodiana durante gli anni del Fronte Popolare, lo stesso Johnston, schieratosi al fianco dell'House Committee on Un-American Activities, si fece promotore delle black list per i membri dei sindacati e delle associazioni filo-comuniste, mentre diceva ai produttori che "it is no exaggeration to say that the modern motion picture industry sets the styles for half the world. There is not one of us who isn't aware that the motion picture industry is the most powerful medium for the influencing of people that man has never built"[12].
L'esplorazione del rapporto tra politica e industria cinematografica permette, seguendo l'impostazione di May[13], l'utilizzo di una nuova chiave interpretativa che pone al centro dell'analisi due aree di solito considerate distinte l'una dall'altra: una sfera civile dove le scelte e i valori nazionali sono ridefiniti e un'industria funzionale all'intrattenimento commerciale. Questa prospettiva d'interpretazione dimostra come le origini della cinematografia in grado di contrapporre paradigmi politici ed espressivi originali debbano essere ricercate nell'ambito dei conflitti culturali degli anni '20 e ‘30, durante i quali il mezzo filmico si proponeva, in molti casi, di abbattere le divisioni di classe e di sesso - che qualificavano l'ethos puritano sia nei grandi centri urbani che nella provincia.
Di conseguenza, nella ricerca di un nuovo stile di vita, l'industria dello spettacolo fece convergere il proprio contributo nella definizione di un concetto più inclusivo di nazione[14].
Nello stesso momento in cui le formule dei film variavano - nei primi anni '30 - i gestori dei teatri si resero conto che gli appassionati smettevano di frequentare le sale di proiezione progettate secondo i canoni del palazzo aristocratico del diciannovesimo secolo. Pertanto, i proprietari riuscirono a conservare la propria clientela grazie alla costruzione di cinema moderni, che, edificati in maniera decisamente più razionale, risultavano maggiormente in linea con il background storico-sociale del pubblico stesso. Identificabili con un americanismo radicato nella grande provincia di una nazione multiculturale, queste moderne sale di proiezione erano senza palchi e avevano le sedie allo stesso livello, assicurando, così, un senso di stabilità e appagamento sociale anche per i meno abbienti. Inoltre, questi luoghi di consumo divennero spesso sedi per le cerimonie dei diplomi di scuola superiore e per le manifestazioni politiche, quasi a voler simbolizzare la confluenza della vita civile americana e della cinematografia in un unicum organico[15]. Sullo schermo come nella vita reale l'artista hollywoodiano dava forma a una visione del mondo che includeva sempre più frequenti relazioni reciproche con una classe operaia multi-etnica. Grazie soprattutto all'operato della Screen Actors Guild (SAG), "by the thirties, the collapse of the economy persuaded Guild members to bring women into a more inclusive public domain. More than one-quarter of the members were foreign-born, and about the same percentage descended from recent immigrants. By the late thirties and war years, blacks and women served in leadership positions on the board, making the Guild a symbol of the arrival of outsiders into public life"[16].
Tuttavia, i blocchi storicamente prodotti e i miti popolari - come nel caso del Fronte Popolare hollywoodiano durante il periodo del New Deal - sono sempre soggetti a contestazioni e riformulazioni ideologiche. Negli Stati Uniti, un simile tipo di cambiamento si concretizzò durante il secondo conflitto mondiale e la successiva guerra fredda; in questa fase, infatti, si realizzò, in nome della causa bellica comune, l'identificazione della cultura di massa con i dettami del capitalismo liberale e del consumismo privato. Gli artisti e il pubblico trasferirono tutto il potenziale democratico e riformatore del New Deal nella battaglia contro il totalitarismo nazi-fascista e, poi, contro quello sovietico. L'alterazione della dinamica di convergenza politico-ideologica degli anni '30 cominciò quando, dopo Pearl Harbor, l'establishment federale e i vertici dei maggiori sindacati del cinema collaborarono per la predisposizione di una politica industriale e di propaganda necessarie per la vittoria finale di Washington. In questo contesto, nel momento in cui il nuovo spirito di collaborazione tra Hollywood, il Pentagono e la Casa Bianca fu formalizzato in nuove forme di associazionismo, l'industria cinematografica divenne il principale mezzo di rappresentazione della necessaria coesione nazionale. I film maker americani, in questa fase, "identificarono lo sforzo bellico con i sogni popolari degli anni Trenta"[17] e, di conseguenza, ogni tipo di conflittualità sociale veniva mostrata come opera di sovversivi manovrati da potenze straniere; inoltre, i personaggi di più della metà dei film subirono trasformazioni profonde dovute, nella maggior parte dei casi, a fenomeni di ridefinizione nella rappresentazione delle autorità politiche e delle identità di genere[18].
La conseguenza ideologica e simbolica di queste alterazioni narrative fu che l'obiettivo delle riforme sociali previste dal New Deal iniziò ad essere attribuito esclusivamente alla capacità operativa di figure istituzionali.
Cosa altrettanto importante, l'unità forgiata dalla guerra al nazi-fascismo non si dissolse con la fine delle operazioni belliche. La crociata contro il comunismo, assurto a rango di minaccia globale dopo il secondo conflitto mondiale, permise di prolungare la dinamica della sovversione nella nuova fase delle relazioni internazionali, plasmando la cultura statunitense e il concetto stesso di nazionalità in relazione alla nuova ideologia del consenso. Tutto questo fece di Hollywood lo strumento più efficace per veicolare a livello mondiale il dualismo alla base della storia della guerra fredda.
A proposito della diffusione internazionale delle produzioni hollywoodiane nei primissimi anni post-bellici, è interessante sottolineare quali furono le reazioni dei principali Stati europei a questo tipo di fenomeno geo-culturale. John Trumpbour, in una recente analisi, sottolinea come le élite politico-istituzionali in Francia, Gran Bretagna e Belgio abbiano a più riprese lanciato crociate anti-hollywoodiane perché preoccupate dalle componenti "ebraiche" presenti nelle produzioni statunitensi, in grado, potenzialmente, "to undermine the national traditions with minority views"[19]. Lo studio delle dinamiche anti-hollywoodiane all'interno del "blocco atlantico" - come dimostrato dai recenti ed innovativi saggi di John Dower e Reinhold Wagnleitner[20]- rivela un perdurante atteggiamento censorio da parte dei vari governi nazionali, che aumenta di intensità durante la guerra fredda e non sembra placarsi neanche di fronte alle dinamiche della globalizzazione, in epoca post-bipolare.
La complessità del fenomeno relativo alla diffusione mondiale del modello di vita americano attraverso l'industria del cinema, considerando il basso tasso di permeabilità di molti contesti euro-asiatici, dimostra l'importanza del discorso retorico per il consolidamento del binomio Hollywood-opinione pubblica, soprattutto durante la guerra fredda[21]. Infatti, il lungo conflitto bi-polare tra Washington e Mosca è da ritenersi un fenomeno politico e, allo stesso tempo, culturale e psicologico. Non fu un semplice evento, bensì, come sostiene Matthew Hirshberg, "un periodo storico durante il quale un particolare paradigma dominò le percezioni della realtà internazionale"[22]. Il cold war cultural schema - nel senso che tende ad essere immagazzinato nelle memorie di un gran numero di appartenenti ad una cultura - risulta essere una sorta di estensione del patriottismo statunitense, un insieme di associazioni tra quattro concetti-chiave: Stati Uniti, libertà, democrazia, e bene, collegati, a loro volta, ad altri tre termini negativi: Unione Sovietica, comunismo e oppressione. In questo modo, lo schema della guerra fredda comprende sia l'ostilità tra Mosca e Washington, sia le antinomie tra democrazia e comunismo e tra libertà e oppressione. Questa sorta di "tolleranza repressiva", per dirla con Marcuse[23], ritorna nelle affermazioni di Robert Denton e Robert Ivie, secondo cui, durante la guerra fredda, l'avversario della nazione americana è presentato come una minaccia mortale per la libertà, "un germe che infetta il corpo politico e un'intenzione barbara di distruggere la civiltà"[24].
Da un punto di vista ideologico, il paradigma della guerra fredda deriva in parte dai vecchi assunti dell'eccezionalismo americano e della relativa teologia dell'elezione[25], ma risulta anche dalla rielaborazione post-bellica, effettuata, in primis, dall'establishment politico e, poi, grazie al contributo determinante di figure prestigiose nei campi della conoscenza e, in modo particolare, dei media. Questi ultimi, forti di una popolarità senza confini, veicolarono l'ideologia universale anti-comunista, diffondendo tra la gente comune quel modo di pensare e di agire fino ad allora confinato tra cancellerie e dipartimenti di stato. È sintomatico, infatti, che i primissimi anni post-bellici abbiano visto lo sviluppo della ricerca sulla comunicazione come disciplina separata nel campo sociologico[26]. Al riguardo, Christopher Simpson ha evidenziato il modo in cui "le agenzie militari, di propaganda e di spionaggio statunitensi guardarono alle comunicazioni di massa come uno strumento per persuadere o dominare gruppi sociali. Esse, in sostanza, intesero la comunicazione come poco più di una forma di trasmissione entro cui poteva essere immesso qualsiasi tipo di messaggio, una volta che si padroneggiassero le tecniche necessarie, per raggiungere obiettivi politici, ideologici e militari"[27].
Questo tipo di strategia propagandistica attraverso la comunicazione, vista come dominio geo-culturale, prevede, implicitamente, l'esistenza di un momento dialogico tra l'apparato strategico e, nella fattispecie, l'apparato cinematografico hollywoodiano. L'interazione e, quindi l'interdipendenza, consolidata nel tempo, ha dato vita ad un gigantesco dispositivo in cui il potere politico, il potere militare-strategico e quello cinematografico si amalgamano, inscrivendosi nel profondo della storia strategica statunitense e determinandone la singolarità. La conseguenza di ciò è che la produzione e la concretizzazione delle pratiche strategiche sono indissociabili dalla specifica produzione del cinema di sicurezza nazionale, la quale tende a tramutare in immagine i contenuti del dibattito strategico stesso, facendo emergere nel plasmabile immaginario collettivo nazionale ciò che pervade l'attualità politica interna ed internazionale.
Risulta evidente, quindi, che, negli Stati Uniti, la produzione di strategia rappresenta un'attività collettiva prevalente in grado di dominare sia lo stato che l'industria cinematografica, insieme ai diversi centri di produzione culturale. Essa, dunque, oltre a rappresentare un unicum mondiale, è il risultato di continue lotte di potere tra la Casa Bianca, il Pentagono, i servizi militari e il complesso cinematografico-propagandistico. Per questo, il cinema hollywoodiano, molto più che in altri contesti, scende nell'agone politico-decisionale, prendendo posizione riguardo determinate dottrine strategiche e facendo leva sull'enorme peso dell'opinione pubblica.
Come sostenuto in precedenza, il binomio Hollywood-opinione pubblica si consolida in funzione del meccanismo di attivazione della minaccia esterna in grado - anche solo potenzialmente - di attaccare il Paese. In virtù di questa legittimazione propagandistica, il punto di articolazione tra l'industria del cinema di sicurezza nazionale e lo stato di sicurezza nazionale risiede nel rapporto con la stessa categoria di minaccia[28]. La produzione statunitense di strategia, condizionata da una peculiare collocazione geo-grafica, si basa sull'idea di una minaccia capace di legittimare la predisposizione di meccanismi di difesa che, al mutare degli scenari geo-politici internazionali, possono richiedere interventi e programmi di varia natura. Per le élite di sicurezza nazionale, quindi, la percezione dell'elemento scatenante della minaccia non cambia col passaggio dalla guerra fredda all'attuale guerra anti-terroristica.
Si tratta, infatti, di una sindrome ossessiva, storicamente radicata, che, oltre a rappresentare un elemento costante durante gli anni della guerra fredda, si ripropone, in proporzioni diverse, col post-bipolarismo come il fondamento della legittimazione del potere dello stato e del suo monopolio coercitivo. Il cinema di sicurezza nazionale, quindi, mira a dare "alla virtualità del pensiero strategico, o all'evanescenza della memoria collettiva, la densità, l'impressione di realtà effettiva dell'immagine cinematografica, creando una storia alternativa immaginata e trasformata in spettacolo collettivo, quello stesso che poi si costituisce come universo mentale dove l'attualità strategica viene giocata, o rigiocata, in modo da essere discussa o perfezionata"[29].
Questo tipo di riflessione può fornire alcune interessanti risposte su come e perché sia nato, negli Stati Uniti, un distinto sistema di valori nel secondo dopoguerra, nonché su quali furono le implicazioni di quel mutamento per il senso di appartenenza nazionale. Dopo la proposizione di un discorso propagandistico e cinematografico in simbiosi con le politiche "radicali" del New Deal, la nuova ideologia del "cold war cultural consensus" ha avuto il compito di comunicare - e, quindi, garantire - che benessere e sicurezza non si realizzassero ad opera di movimenti di massa autonomi, ma che fossero raggiunti grazie all'operato dell'establishment politico-economico.
Il risultato di questo processo fu la cooperazione tra Casa Bianca e industria cinematografica durante la crociata anti-comunista condotta dalla varie commissioni d'inchiesta del periodo maccartista. Gli artisti liberal, come argutamente sottolineato da Ronald Radosh[30], adottarono lo schema della guerra fredda, diventando i veri e propri intermediari del consenso. Essi, di fatto, tracciarono una linea di demarcazione tra il patriottismo e il maccartismo, collocandosi nel centro vitale dello schieramento politico-ideologico americano, assolutamente distante dai radicalismi del partito comunista statunitense e in sintonia con quella che veniva percepita dall'opinione pubblica come la vera tradizione liberal nazionale. Questi artisti, coscienti dell'importanza del dialogo tra la cittadella del cinema e la Casa Bianca nella lotta al comunismo, avevano ripudiato la conflittualità sociale e innalzato "l'omogeneità al di sopra di ogni altro valore"[31], contribuendo a perpetuare l'ideologia della guerra fredda in direzione del vittorioso approdo di fine anni '80.
L'importanza del ruolo assunto dalle élite cinematografiche nel processo di costruzione dell'ideologia della guerra fredda, il rapporto di interdipendenza strutturale tra l'industria del cinema, l'opinione pubblica e il potere politico, la predisposizione di meccanismi di censura ideologica - come la Commissione per le attività anti-americane[32] -, e la crescente rilevanza, a partire dagli anni '50, della conquista dei mercati "culturali" esteri, dimostrano come la nascita e l'espansione pluricinquantennale del complesso strategico-cinematografico a stelle e strisce si rivela uno dei punti focali della strategia geo-culturale che Washington è chiamata a implementare, con sempre maggiori ostacoli, agli albori di un'epoca - quella della globalizzazione - in cui le manifestazioni di anti-americanismo rischiano di propagarsi in numerosi contesti culturalmente e geo-strategicamente cruciali per il mantenimento dell'egemonia internazionale.
[1] Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell'era della supremazia americana, Longanesi & C., Milano 1998, p. 36. L'autore sostiene che, nel breve periodo, tenendo conto del fatto che nei settori economicamente decisivi gli americani stanno mantenendo o addirittura incrementando la loro produttività rispetto ai concorrenti giapponesi ed euro-occidentali, il primato tecnologico statunitense non verrà superato.
[2] Ivi, p. 38.
[3] Marcello Mustè, La storia: teorie e metodi, Carocci, Roma 2005, p. 92. L'autore riporta la definizione di storia evenemenziale fornita da Alberto Tenenti, secondo cui questa metodologia di ricerca storiografica vuole indicare la sfera dei fatti che non si ricollegano a delle costanti, a delle serie sia pur limitate, ma vengono solo momentaneamente in primo piano.
[4] Olivier Zunz, Why the American Century?, University of Chicago Press, Chicago 1999 (ed. It, Id. Perchè il secolo americano?, Il Mulino, Bologna 2002), in particolare pp. 3-47. Nel 1941 Henry Luce scrisse un celebre editoriale in cui il secolo XX veniva definito il secolo americano. Era una fase in cui bisognava convincere gli americani ad uscire dal proprio isolazionismo, legare la propria sorte a quella della guerra, ma, soprattutto, renderli consapevoli della loro missione volta a difendere i principi democratici dai totalitarismi. In poco meno di cinquant'anni gli Stati Uniti sono diventati un impero economico, una superpotenza politica e militare, un modello culturale. Dalla ricostruzione di questa impetuosa ascesa, il mix di pragmatismo e di idealismo sembra costituire l'elemento in grado di poter definire il ventesimo secolo quale "secolo americano".
[5] Cfr. al riguardo Charles Maier, The Politics of Productivity, in "International Organization", Vol. 31, n. 4, 1977, pp. 607-632. La maggior parte dei policy maker credettero che la crescita economica e la pace sociale - funzionali alla crociata anti-comunista in atto - rendessero possibile il superamento della battaglia sulla scarsità delle risorse, che, secondo il pensiero marxista, sarebbe stato inevitabile per le democrazie capitalistiche.
[6] Lary May, Ricreare l'America: Hollywood e la politica della guerra fredda, in "Acoma", Anno III, n. 7, Primavera 1996, pp. 38-49. Il primo dei paradigmi classici è rappresentato al meglio da Warren Susman e Jackson Lears. Questi studiosi, rifacendosi alla sociologia della scuola di Francoforte e al concetto gramsciano di egemonia, sostengono che, negli anni Trenta, il cinema e la cultura di massa generarono miti retrogradi e sogni futuristici di consumismo. Lavorando all'interno di questo schema interpretativo, essi notarono che ciò che distingueva il dopoguerra era il fatto che i desideri di ricchezza e sicurezza collettiva si erano realizzati, con l'acquisizione di un potere non più contestato da parte dei potentati economici e di una nuova middle class fatta di stipendiati. Un altro gruppo di studiosi, tra cui David Noble, Erika Doss e Lewis Erenberg, sostengono che, durante gli anni '30, gli storici progressisti, le donne e molti artisti hollywoodiani promossero una società più giusta e rispettosa delle minoranze etnico-linguistiche. Tuttavia, durante il secondo conflitto mondiale e, poi, con la guerra fredda, questi stessi artisti e pensatori videro le grandi corporation rendere più solido il loro potere, allontanando, de facto, la possibilità di realizzare a pieno le riforme del New Deal.
[7] Steven Joseph Ross, Working-Class Hollywood: Silent Film and the Shaping of Class in America, Princeton University Press, Princeton 1998, p. 35, riportato in "Journal of Cultural Economics", Vol. 24, Agosto 2000, pp. 262-265.
[8] Per l'incidenza del voto di classe nel sistema bipartitico statunitense cfr. Richard Oestreicher, Urban Working Class Political Behavior and Theories of American Electoral Politics, 1879-1940, in "Journal of American History", Marzo 1988, pp. 1257-1286.
[9] Eric Johnston ebbe un ruolo particolarmente importante perché era stato presidente della Camera di Commercio degli Stati Uniti ed era schierato con Henry Luce e con gli industriali nello sforzo di rendere popolare il cosiddetto capitalismo democratico.
[10] Eric Johnston, America Un-Limited, Doran & C., Garden City, New York 1944.
[11] Lary May, The Big Tomorrow. Hollywood and the Politics of the American Way, University of Chicago Press, Chicago-London 2000, p. 175.
[12] Ivi, p. 176.
[13] Id, Ricreare l'America, art. cit., p. 41. Fondamentale per questa indagine è l'idea, avanzata da Benedict Anderson e Eric Hobsbawm, che le comunicazioni di massa sono decisive nel creare miti e tradizioni in grado di legare insieme persone diverse in nome dei valori della lealtà e della patria.
[14] Tra gli storici della cultura statunitense, si veda Lawrence Levine, The Unpredictable Past: Explorations in American Cultural History, Oxford University Press, New York, 1993, pp. 192-215. Questi cambiamenti nelle formule cinematografiche e nelle stelle del cinema - sempre più impegnate al fianco dei sindacati - avvennero sia in termini di narrazioni che per quel concerne il significato ideologico e simbolico attribuito ai luoghi di consumo
[15] Per un approfondimento si veda Lary May, Stephen Lassonde, Making the American Way: Modern Theatres, Audiences and the Film Industry, 1929-1945, in "Prospects: An Annual of American Cultural Studies", n. 12 ,1988, pp. 89-125.
[16] Lary May, The Big Tomorrow, cit., p. 185.
[17] Id, Ricreare l'America, art. cit., p. 44. Molti dei cineasti del periodo credevano che si sarebbero realizzati su scala mondiale una democrazia libera dalla tirannia e gli ideali di tolleranza razziale e di prosperità economica liberal-capitalistica.
[18] Id, The Big Tomorrow, cit., Appendix 2, "Trends in Film Plots and the Changing Face of American Ideology", pp. 273-293. L'autore riporta ben trentuno grafici per rappresentare statisticamente le relazioni di lungo termine tra i contenuti dei film e l'ideologia predominante negli Stati Uniti. La fonte primaria utilizzata per l'elaborazione delle tabelle è il "Motion Picture Herald" (MPH), la più importante rivista cinematografica del periodo studiato.
[19] John Trumpbour, Selling Hollywood to the World: U.S. and European Struggles for Mastery of the Global Film Industry, 1920-1950, Cambridge University Press, New York 2002, pp. 28, 94, 236, riportato in Lary May, Global Hollywood and the Politics of Nationality, in "Dipolmatic History", Vol. 27, novembre 2003, pp. 729-733.
[20] John Dower, Embracing Defeat: Japan in the Wake of World War II, New York, The New Press 1999, passim; Reinhold Wagnleitner, Coca-Colonization and the Cold War: The Cultural Mission of the United States in Austria After the Second World War, Chapel Hill, NC 1999, passim. In merito alla mobilitazione anti-hollywoodiana, risultano essere particolarmente interessanti i movimenti organizzati da John Grierson e Alexander Korda in Gran Bretagna e da Jean Renoir e Marcel Carne in Francia. Il Belgio, invece, divenne il centro del movimento cinematografico cattolico che sponsorizzava le produzioni nazionali a discapito di quelle "ebree-hollywoodiane".
[21] Per un'analisi del rapporto tra politica, cultura ed opinione pubblica durante la guerra fredda, si veda Bruno Cartosio, Politica e cultura della guerra fredda: McCarthy, Murrow e la televisione, in "Acoma", Anno VII, n. 20, Autunno 2000, pp. 79-95. Sullo specifico rapporto tra produzione cinematografica e bi-polarismo, cfr. Lawrence L. Murray, The film industry responds to the Cold War, 1945-1955. Monsters, spys, and subversives, in "Jump Cut: A Review of Contemporary Media", n. 9, 1975, p. 14: l'autore, confermando la visione dei film quali elementi costitutivi della guerra fredda, sostiene che "cold war era films are historical documents which can inform us about how movies reflected the social milieu in which they were produced".
[22] Mattew Hirshberg, Perpetuating Patriotic Perceptions. The Cognitive Function of the Cold War, Praeger, Westport (Conn.) 1993, p. 2.
[23] Herbert Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1965 (Ia ed.), p. 100.
[24] Martin J. Medhurst, Robert L. Ivie, Philip Wander, Robert L. Scott, Cold War Rethoric: Strategy, Metaphor, and Ideology, Greenwood Press, New York 1990, p. 72.
[25] AL riguardo cfr. Anders Stephanson, Destino manifesto. L'espansionismo americano e l'Impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004, passim e Emilio Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell'era dell'impero e del terrore, Laterza, Roma 2006, passim.
[26] Il contesto nell'ambito del quale avvenne tale sviluppo fu definito dalle necessità della guerra psicologica ingaggiata dal governo statunitense, cfr. Bruno Cartosio, Politica, cit., p. 81.
[27] Christopher Simpson, Science of Coercion: Communication Research and Psycholgical Warfare, Oxford University Press, New York 1994, pp. 6, 56. L'autore analizza anche l'ampiezza e il tipo di rapporti che il governo statunitense istituì con il mondo universitario. L'autorità federale, a partire dal 1945, finanziò la maggior parte dei progetti di ricerca in materia di comunicazione - e di cinema in particolare. Un rapporto della National Science Foundation (NSF) del 1952 mostra che oltre il 96% di tutti i finanziamenti federali alle scienze sociali provenivano dalle forze armate. Per ulteriori approfondimenti si veda Lary May, Recasting America, cit., pp. 76-92; Giuliana Muscio, Hollywood/Washington. L'industria cinematografica americana nella guerra fredda, Cleup, Padova 1977, pp. 66-67. Sul ruolo svolto dall'accademia nel processo di formazione della coscienza nazionale statunitense nel secondo dopoguerra, cfr. Luigi Rossi (a cura di), L'università e il ceto dirigente europeo, Plectica, Salerno 2003, pp. 155-198: l'autore sottolinea come "dopo il conflitto, inizia una sorta di età dell'oro. La capacità d'influire su tutta la società trasforma - le università - in indispensabile supporto per l'attività progettuale e le decisioni dei politici". Sul rapporto tra vertici militari, intelligence e sistema universitario nei primi anni di guerra fredda, cfr. Sigmund Diamond, Compromised campus: The Collaboration of Universities with the Intelligence Community, 1945-1955, Oxford University Press, New York 1992, passim.
[28] Jean-Michel Valantin, Hollywood, il Pentagono e Washington. Il cinema e la sicurezza nazionale dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri, Fazi Editore, Roma 2005, pp. 9-13.
[29] Ibidem.
[30] Ronald Radosh, Allis Radosh, Red Star Over Hollywood. The Film's Colony Long Romance with the Left, Encounter Books, New York 2006, passim.
[31] Bruno Cartosio, Politica, cit., p. 94.
[32] Sull'operato della Commissione per le attività anti-americane all'interno del mondo hollywoodiano cfr. Sciltian Gastaldi, Fuori i Rossi da Hollywood. Il maccartismo e il cinema americano, Lindau, Torino 2004, passim; Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni cinquanta, Feltrinelli, Milano 1979, passim.