Etica


Giuseppe Acocella

Etica professionale

 

 

        La riflessione sulla professione che intenda giungere a configurare i caratteri di una etica che rifletta la doppia dimensione, pubblica e privata, che nell'età moderna caratterizza l'attività professionale, deve tener conto della definizione offerta da Max Weber in Economia e società, allorché focalizza da un lato le abilità e le competenze - comuni a tutti coloro che la esercitano - le quali rendono possibile una prestazione, e dall'altro sottolinea l'acquisizione individuale di queste competenze, le quali rendono possibile la prestazione e la continuità dell'attività lavorativa: <>. Come ha scritto Da Re, <> (A. Da Re, Percorsi di etica, Padova, 2007, pp. 135-136 - Cap. VI, Vita professionale ed etica, pp. 135 e 136).

      La professione è dunque rivolta all'acquisizione delle competenze necessarie per poter adeguatamente procedere all'intervento professionale secondo quanto previsto dall'ordinamento della professione stessa (giacché l'aspetto morale della prestazione è che essa venga seguita nello spirito che Agostino prescrive ad ogni azione morale: actio perveniens ad finem suum). La questione delicata è costituita dal fatto che - per quanto finora detto - la professione dovrebbe rappresentare un bene in sé, mai strumentale ad altri beni, come la ricchezza o il privilegio, che finiscano per prevalere, e a questo punto il problema presenta una doppia dimensione da considerare: pubblica e privata: C'è una aspettativa pubblica che attende che venga garantita la bontà della prestazione, corrispondente al fine stesso della professione, ed una responsabilità privata nell'eseguirla.

       Fin d'ora si presenta dunque il cuore stesso del problema: regolazione pubblica o autoregolamentazione ? Se c'è chi sostiene che <>, ne consegue che ogni regolazione deve restare una autoregolazione (come nel caso della nozione di comunità scientifica per l'ambito della ricerca e della scienza praticate nelle università):

      Nascono naturalmente a questo punto più questioni: la relazione tra autoregolazione (codici privati) e vigenza del diritto (col connesso tema della pluralità degli ordinamenti giuridici); l'asimmetria della conoscenza che separa prestatore d'opera e fruitore/cliente; il codice deontologico come forma di tutela di un potere sociale generato dalla conoscenza e dalle abilità.

      Si consideri che non diamo per scontata la "bontà" del diritto che accompagna il rapporto tra prestatore e fruitore, perché esso non è soltanto e sempre facoltà riconosciuta al singolo, ma è anche obbligazione (verso il pubblico o verso un privato) da parte del prestatore d'opera. E anche quando è soltanto facoltà, è anche dovere imposto ad altri, pubblico o privato che sia. Il diritto, che si presenta attraverso la legge come obbligo che impone una obbedienza, deve essere indagato nelle sue motivazioni, perché esso sia assimilato alla "buona" giustizia. Ma poiché il diritto non esiste al di fuori del mondo concreto e storico, e dunque fa i conti con la sua materiale produzione, occorre esaminarne il rapporto con l'idea della giustizia e le caratteristiche reali che esso assume in relazione alla ragione che l'ha generato. Occorre chiedersi innanzitutto: per quale ragione assoggettarsi al comando? Perché rinunciare alla libertà individuale la quale sola, come sembrerebbe,  assicura la felicità - amara o soddisfatta che sia - dell'autonoma decisione, per sottoporsi invece al duro limite delle regole comuni, e dunque per loro stessa natura costrittive? Perché accettare l'obbedienza alla legge se di essa sfugge al singolo la ragione? Nell'età della economicizzaziome del mondo anche il rapporto professionale muta drasticamente: <> [S. LATOUCHE, La mondializzazione dell'economia e i suoi effetti sull'ambiente, in Il mondo ridotto a mercato, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, p. 92.].

       In specie col fordismo appare rivisitato il problema della professione (anche per l'aspetto della incidenza delle nuove competenze tecniche nel lavoro operaio) con il valore politico-sociale da esso rivestito: <> [21 G. LATOUCHE, La misère de la mondialisation, pp. 133-134 e 135. Sul problema del Fordismo dal punto di vista etico-sociale cfr. G. ACOCELLA, Etica moderna e fordismo nel pensiero economico di Carlo Rosselli, in AA.VV., L'azionismo come partito. Organizzazione ed ideali, a cura di C. Gily Reda, in <>, Quaderni del "Centro Dorso", 2, 1998, pp. 113-118.].

      Risulta da ciò comprensibile, dunque, il fatto che <> [22 G. LATOUCHE, La misère de la mondialisation, cit. , pp. 135-136.].

     Ma le trasformazioni intervenute hanno alterato profondamente il significato dell'etica pubblica di fronte alla crisi del Welfare e alla globalizzazione, giacché <  sul consumatore, portano a rinunciare ad ogni considerazione etica. L'efficienza é l'unico valore universalmente riconosciuto da tutti coloro che circolano nella macchina>> [23 G. LATOUCHE, Comment peut-étre anticapitaliste aujourd'hui ?, tr. it. Con il titolo La mondializzazione e la fine della politica, cit., pp. 78 e 80].

      L'intreccio tra privato (acquisizione personale delle conoscenze che garantiscono l'effettuazione della prestazione) e pubblico (modalità controllate delle competenze da acquisire attraverso la regolazione della formazione e controllo dell'esercizio della professioni) si rivela anche nell'abbondanza di riferimento alla necessità dei codici etici professionali e del controllo pubblico contro l'abuso dell'esercizio non competente delle professioni. Si vedano solo le Considerazioni premesse alla deliberazione europea "relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali", come recita il titolo della Direttiva europea 2005/36. Al punto 11, a proposito dell'esercizio professionale in uno degli Stati membri e della formazione, si prescrive in specie che "per le professioni coperte dal regime generale di riconoscimento dei titoli di formazione, di seguito denominato <>, gli Stati membri dovrebbero continuare a fissare il livello minimo di qualificazione necessaria in modo da garantire la qualità delle prestazioni fornite sul loro territorio", senza che essi però possano "imporre a un cittadino di uno Stato membro di acquisire qualifiche che in genere si limitano a definire soltanto in termini di diplomi rilasciati in seno al loro sistema nazionale d'insegnamento, mentre l'interessato ha già acquisito tali qualifiche, o parte di esse, in un altro Stato membro". S'intende come la necessità di conciliare queste esigenze di garanzia della formazione da un lato e della libera circolazione dall'altro riguardi direttamente le questioni legate alla equivalenza o alla equipollenza degli stessi titoli universitari, come su fondamentali aspetti precisano i punti 10, 14 e 19 delle medesime considerazioni preliminari.

     Ma ancor più nello stesso punto 11 emerge un criterio che si propone di consentire ai singoli Stati di porre criteri e regolamenti in nome dell' interesse pubblico generale, che viene espressamente richiamato: "tale regime generale di riconoscimento non impedisce che uno Stato membro imponga, a chiunque eserciti una professione nel suo territorio, requisiti specifici motivati dall'applicazione delle norme professionali giustificate dall'interesse pubblico generale. Tali requisiti riguardano, ad esempio, le norme in materia di organizzazione della professione, le norme professionali, comprese quelle deontologiche, le norme di controllo e responsabilità. Infine, la presente direttiva non ha l'obiettivo di interferire nell'interesse legittimo degli Stati membri a impedire che taluni dei loro cittadini possano sottrarsi abusivamente all'applicazione del diritto nazionale in materia di professioni".

    La necessità di recepire la Direttiva europea ha portato alla formulazione del DDL 2160, presentato dal Ministro della Giustizia il 24 gennaio 2007. Esso - è bene ricordarlo - si sofferma, nel delineare il sistema duale di cui s'è detto, sulle nozioni di interesse pubblico e di diritto costituzionalmente protetto proprio in relazione alla distinzione tra professioni "ordinistiche" e professioni regolamentate attraverso il solo riconoscimento delle Associazioni di rappresentanza.

     Già nella relazione si precisa che interesse pubblico e sono, per gli esercenti determinate attività riservate, professioni ad iscrizione obbligatoria; mentre le associazioni derivano da libere iniziative, così come libera è la partecipazione ad esse; in secondo luogo, gli ordini hanno la rappresentanza istituzionale dei propri iscritti, mentre gli altri organismi hanno soltanto quella associativo-privatistica; in terzo luogo, gli ordini svolgono funzione nel prevalente e diretto interesse dell'utenza, mentre tra le associazioni le svolgono nel prevalente interesse degli associati e solo indirettamente dell'utenza>>.

    L'art. 2, c. 1, recita testualmente che <

d) individuare, sulla base degli interessi pubblici meritevoli di tutela, le professioni intellettuali da disciplinare attraverso i ricorso ad ordini, albi o collegi professionali, in modo che ne derivi una riduzione di quelli già previsti dalla legislazione vigente, ovvero attraverso il ricorso alle associazioni di cui all'articolo 8, favorendo, per gli ordini, albi e collegi già esistenti, per i quali non ricorrano specifici interessi pubblici che non rendano necessario il ricorso al sistema ordinistico. La trasformazione in associazioni di cui al medesimo articolo 8;

e) riorganizzare le attività riservate a singole professioni regolamentate limitandole a quelle strettamente necessarie per la tutela di diritti costituzionalmente garantiti per il perseguimento di finalità primarie di interesse generale, previa la verifica della inidoneità di altri strumenti diretti a raggiungere l medesimo fine e senza aumentare le riserve già previste dalla legislazione vigente>>.

        L'art. 3 si premura di precisare nel c.1, b) che venga mantenuto >, Ma occorre soprattutto guardare all'articolo 8 a cui il punto d) rinviava. Il c. 1 recita che < principi e criteri direttivi: (....)

      Assicurato il principio di <>, di seguito precisa i criteri:

c) prevedere l'iscrizione in apposito registro delle associazioni tra professionisti che sono in possesso dei seguenti requisiti: ampia diffusione sul territorio; svolgimento di attività che possono incidere su diritti costituzionalmente garantiti o su interessi che, per il loro radicamento nel tessuto socio-economico, comportano l'esigenza di tutelare gli utenti; prevedere che il registro sia distinto in due sezioni, una tenuta dal Ministero della Giustizia e l'altra, per le materie di sua esclusiva competenza, dal Ministero della salute, e che l'iscrizione sia disposta dal Ministero competente per ciascuna sezione, di concerto con il Ministero dello sviluppo economico, sentiti il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, e gli ordini eventualmente interessati>>.

     L'art. 7, c. 1, ribadisce che interessi pubblici comunque coinvolti in tale esercizio>>.

      Il punto che appare irrisolto - e sul quale avevano richiamato già l'attenzione il CNEL con un parere (il parere è atto formale previsto nella legge di attuazione del funzionamento dell'organo costituzionale) e dall'Authority per la concorrenza con una relazione all'atto dell'audizione parlamentare - è la carente precisazione delle nozioni di interesse pubblico e di diritto costituzionalmente garantito. Il problema è stato ripreso sin dalla primavera del 2007 da rappresentanti degli Ordini professionali, che hanno denunciato che, secondo l'art. 8, può accadere che Associazioni possano svolgere attività che incidono sui diritti costituzionalmente garantiti, che invece non possono essere sottratti al controllo pubblico e alla verifica della qualità della formazione e della competenza.

      L'Avvocatura ha rilevato, per l'ambito di proprio interesse, che la Direttiva 2005/36 sarebbe stata pensata solo per i sistemi di common law, anche perché con l'attestato di competenza rilasciato ai propri iscritti dalle Associazioni, di fatto si giungerebbe - si afferma - ad un riconoscimento che sovverte il principio di verifica che viene attuato sulla base di una formazione certificata (e dell'esame di Stato). Il tema non è meramente polemico: Paolo Grossi ha scritto di recente che >.

     La tensione che appare sottesa al dibattito in materia di liberalizzazione è riconducibile peraltro alla questione che accompagna il dibattito sul diritto che si confronta con l'impetuoso affermarsi del diritto come soft law piuttosto che come autorità regolativa, seguito alla crisi delle sovranità statali. Da un lato la libertà della scelta - tanto di chi esercita la professioni. di fronte alle chiusure corporativistiche attribuite alle posizioni ordinistiche, quanto dell'utente o fruitore di servizi, in specie se riferiti al diritto di difesa legale o al diritto alla salute - dall'altro la riaffermata necessità, proprio in nome della tutela dell'utente o del consumatore, di osservare regole di controllo dell'accesso alle professioni e, a tutela del prestatore d'opera, della autenticazione delle prestazioni in riferimento alla esigibilità delle tariffe professionali.

     Nelle Osservazioni al D.d.l. 2160, espresse già nel febbraio 2007, il CNEL sottolineava e approvava la necessità di un rigoroso monitoraggio per il riconoscimento delle associazioni professionali tramite registrazione - su parere del CNEL - in apposito elenco pubblico, tenuto dal Ministro della Giustizia tranne che per le materie di competenza sanitaria, tenuto dal Ministero della Salute. Il coinvolgimento del CNEL trova fondamento, come detto, nella Banca Dati delle associazioni di esercenti professioni non regolamentate, curata da anni e periodicamente aggiornata.

    Mi si permetta una conclusiva riflessione, suscitata anche dalla sollecitazione sollevata dall'Avvocatura sulla inadattabilità di un sistema così pensato ai paesi nei quali prevale la tradizione della civil law : si può forse notare il richiamo costante - quasi una salvaguardia estrema di fronte ad una materia complessa - ai principi di trasparenza, garanzia per l'utente, rispetto dell'interesse pubblico venga nei diversi testi normativi confidato ai codici deontologici, alla autoregolamentazione di segno etico oltre che alle prescrizioni particolari. La domanda di prescrizioni etiche potrebbe essere: questo richiamo all'etica e alla deontologia costituisce la sconfitta o la vittoria della soft law. Essa, infatti, da un lato viene esaltata in nome della liberalizzazione (non confidando più l'ordinamento nella forza dell'hard law), talché si lascia solo a norme deontologiche il compito della regolazione, dall'altro subisce la restrizione che, per garanzia dell'utente e della qualità della prestazione professionale, è rappresentata da un complesso di norme etiche, cui viene demandato il compito di rafforzare il debole controllo formale. Sembra così inaugurarsi un nuovo equilibrio tra autonomia negoziale delle professioni e responsabilità della comunità.

      La lunga digressione sulla irruzione di profili etici nella regolamentazione europea delle professioni rende evidente quanta rilevanza assuma il tema dell'etica razionale moderna - che accompagna da sempre il dibattito intorno alla relazione scienza/società - nella trattazione del tema delle professioni e dell'etica professionale, a partire dalle riflessioni di Max Weber intorno alla Scienza come professione tenuta nel 1918 agli studenti tedeschi, e pubblicata nel 1919, all'interno di un dibattito che occuperà i primi tre decenni del XIX secolo, e per il quale basterà fare i nomi di Durkheim, di Sombart, di Scheler.

      Il Novecento col suo tragico fardello é stato lo scenario dello scontro tra opposte tendenze ed é stato il secolo che ha scoperto la centralità del problema sociale, e del quale si poté dire che <>. Discutere quindi oggi di professioni non significa certo dibattere su attribuzioni più o meno significative dell'organizzazione pubblica della comunità, ma affrontare i nodi della convivenza sociale, ridefinire compiti e ruolo dello Stato che si affaccia alla soglia del terzo millennio. Le professioni - in ciascuna delle principali direzioni nelle quali hanno sperimentato la propria funzione in definitiva "sociale" - costituiscono dunque la struttura attraverso cui figure qualificate rendono concreti i fini sociali dello Stato (dal diritto alla salute e alla cura al diritto alla giustizia e alla difesa, dal diritto alla sicurezza al diritto alla conoscenza, fondamentali nella affermazione dei diritti fondamentali della persona che sono alla base degli Stati costituzionali), sottolineandone pertanto il ruolo e confermando peraltro l'insostituibile significato etico delle "fede pubblica" che connota l'esercizio delle professioni.

       Ha opportunamente notato S. Banks: > (S. BANKS, Etica e valori nel servizio sociale, Trento, Erickson, 1999. (ediz. in lingua originale 1995), pp. 22-23).

         La necessità di definire la professione impegna a ripartire dal significato che il concetto assume quando se ne riconosca lo specifico valore "sociale". <>, cosicché <>  L. SCARAZZATI, Tirocinio, conoscenza e servizio sociale: i termini di una ambivalenza, in Op. cit., p. 155 e 156. Il cenno agli studiosi, contenuto nel testo, è in riferimento alle opere curate da G. PRANDSTRALLER, Sociologia delle professioni, Roma, 1980, e da W. TOUSIJN, Sociologia delle professioni, Bologna, 1979. Cfr. anche G. PRANDSTRALLER, Arte come professione, Padova, 1973].

       L'etica professionale si muove quindi sulla base da un lato delle prescrizioni dei fini dell'ordinamento giuridico (ed in specie dei suoi fondamenti etici), nonché dall'altro delle competenze e conoscenze tecniche necessarie affinché siano adeguatamente conseguiti quei fini, in ragione della  specifica "Beruf" (nel significato di professione e vocazione allo stesso tempo) che ne connota il mandato.

      La riservatezza ed il segreto professionale costituiscono infatti diritto primario dell'utente e dovere inderogabile del professionista nei limiti della normativa vigente. La natura fiduciaria della relazione con gli utenti obbliga il professionista a trattare con riservatezza in ogni atto (diritto di difesa, diritto alla riservatezza nella cura) professionale le informazioni ed i dati riguardanti gli stessi, per il cui uso deve ricevere l'esplicito consenso degli interessati o dei loro legali rappresentanti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge.

         Se si esaminano i modelli correnti nell'ambito dell'etica professionale propongo di far riferimento ai tre modelli che possono corrispondere meglio a categorie riscontrabili nel dibattito sulla deontologia delle professioni : paternalistico o asimmetrico, contrattualistico o giuridico, utilitaristico o economicistico.

         Il modello "paternalistico" prevede il riconoscimento di una asimmetria evidente tra professionista e cliente, la individuazione del bene oggettivo di quest'ultimo, considerato mero destinatario dei benefici che costituiscono lo scopo dell'azione professionale, una considerazione del rapporto affidata al codice deontologico interno alla professione. Come si può comprendere questo modello, quanto più appare "benevolo" e convenientemente adottabile, tanto più esclude ogni autonomia del cliente fruitore, e ciò appare ancora più penalizzante per un soggetto aspirante - grazie all'azione del professionista - al godimento dei suoi diritti. Il modello paternalistico, di fatto, privilegia l'aspetto tecnico di ogni intervento.

         Il modello "contrattualistico" appare dominato da una esigenza di oggettivazione del rapporto professionista/cliente, e pertanto idoneo ad essere rimedio efficace alla unidirezionalità del primo. Infatti esso prevede un rapporto paritetico - regolato dal diritto comune - delle relazioni instaurate tra chi provvede alla prestazione e chi ne è destinatario, presupponendo un equilibrio tra obblighi e benefici, nonché una valorizzazione del principio di autonomia rispetto al principio di benevolenza, ma anche al principio del rapporto fiduciario e privilegiato tra prestatore d'opera e fruitore.

             Infine il modello "utilitaristico" rifiuta il modello paternalistico attribuendo determinante significato tanto alla volontà del cliente destinatario della prestazione quanto all'interesse immediato del professionista (e quindi negando i codici deontologici unilaterali), ma respinge anche il modello contrattualistico, negando valore alla regolazione giuridica dall'esterno del rapporto professionista/cliente, che andrebbe affidato invece solo alla convenienza economica reciproca. Questo terzo modello pone piuttosto al centro l'interesse che il prestatore manifesta per conseguire il massimo risultato possibile dalla sua prestazione, reciproco rispetto al vantaggio che si attende la persona del cliente, in base alla valutazione che egli ne fa, quale che siano le sue conoscenze e la sua consapevolezza.

       Si possono naturalmente proporre altre classificazioni, utilizzando questi modelli e individuandone altri, ma si può facilmente intendere come l'impostazione delle questioni specifiche non possa prescindere dal dovere di cercare una fondazione concettuale, che chiarisca i presupposti metodologici e  teorici su cui basare la trattazione dei singoli temi. Ma, per non dilatare i confini del tema qui affrontato, è necessario in ogni caso tener conto innanzitutto che almeno due principi essenziali sono presi in considerazione dalle differenti prospettive teoriche: il principio di beneficialità e quello di autonomia.

           Va ricordato che l'approccio "paternalistico" - che appare ispirare la gran parte degli atteggiamenti tradizionalmente diffusi -  accentua il primo dei due principi e considera irrilevante il secondo. La prospettiva (o la supposta pretesa) di operare per il vantaggio del cliente costituisce un "balsamo etico" che assolve chi opera da ogni altro impegno, anche quando la situazione non permetta di intravedere una soluzione effettiva (vale per i medici o per i legali, ma anche per altre professioni). D'altra parte - prescindendo dall'affidamento ai soli strumenti giuridici, come nel modello contrattualistico, che tende a sottovalutare la dimensione strettamente etica - una valutazione etica rivolta al mero calcolo degli interessi coinvolti, come nel modello utilitaristico - porta inevitabilmente a ritenere le esistenze valutabili in termini di produttività sociale e di convenienza a vantaggio, in virtù della non ridimensionata asimmetria delle posizioni - del più forte sul più debole. Nell'ambito dell'etica medica si registra una crescita dell'attenzione per il tema della tutela del cosiddetto <> di ogni persona di fronte a tendenze che rafforzano le tentazioni efficientistiche della professione medica: <> [1].

         L'imperativo morale viene allontanato con fastidio, perché in realtà viene rifiutato l'agente; l'imperativo giuridico viene mortificato e mutato a seconda della convenienza momentanea, perché non ha più alcun «senso» l'azione che il soggetto responsabilmente compie, ma solo l'atto in se stesso. Reso esangue ed astratto, il legame tra gli umani  viene misurato solo dai criteri della convenienza e dell'utilità, ma questo utilitarismo dell'atto non può che soggiacere alle leggi del mercato. Si inserisce qui il complesso rapporto tra normativa giuriridica e codici deontologici, tra diritto e morale. L'autoregolamentazione - che si concretizza nei codici deontologici - nasce dalla percezione del rapporto asimmetrico che si instaura tra prestatore e fruitore, oltre che dal consolidato statuto della propria attività professionale, ed indubbiamente comporta più interrogativi. Il primo se lo pone Antonio Da Re, direttore della rivista <> della benemerita Fondazione Lanza di Padova: <> (p. 144).

      Il secondo interrogativo emerge dal primo. Ma non sarà che la rivendicazione di una autoregolamentazione è motivata dalla pretesa di una etica specialistica che nasconde l'altra, più delicata convinzione di esercitare un potere derivato dalla conoscenza reso inattingibile a chiunque altro, che accentua e irrigidisce l'asimmetria ricordata nei confronti dei fruitori ? Questi due interrogativi richiedono una rinnovata riflessione sul rapporto tra morale e diritto, come avviene ogni volta che emergano fenomeni di scarsa diligenza o, peggio, di incompetenza nell'esercizio della professione, o riguardo al tema complesso del segreto professionale (Da Re, 149). Sono emersi nel dibattito europeo sulla Bolkenstein dubbi circa la possibilità che la liberalizzazione dei mestieri e delle professioni lasciasse libero campo alla incontrollabile (specie dal cliente) incompetenza del prestatore d'opera e persino all'abuso non verificabile della professione.

    Ma ancora altri interrogativi più inquietanti: il segreto professionale garantisce il rapporto fiduciario (Da Re, 146) - ineliminabile - tra professionista e cliente, ma quando diventa ostacolo all'accertamento della giustizia e al rispetto dei terzi, potenziali vittime (frequente nei casi di morbi o epidemie tenute nascoste nell'ambito sanitario, o di forme di garanzia difensiva ostili alle vittime del reato in ambito legale) ? I diritti individuali possono essere avanzati a danno del diritto comune (privacy contro trasparenza; formalismi legali contro l'accertamento della giustizia ?). Si profila una difesa corporativa della tecnica professionale a danno dei terzi, dettata dalla la convenienza che attraverso il rapporto fiduciario stringe insieme prestatore e vittima ?

       <> (Da Re 150). Nascono in questa prospettiva - specie negli ambiti nei quali il dibattito sulla deontologia è stato più intenso, come per l'etica medica e l'etica legale - delicati paradossi e contraddizioni paralizzanti: il vincolo giuridico del diritto alla difesa da parte del professionista comporta una condizione etica superiore alla responsabilità etica del diritto alla verità da parte della vittima, in ossequio al principio del neminem laedere ? La competenza medica è giustificata moralmente se colui che può salvare con una azione temeraria tecnicamente è indotto a non osare tutto il possibile per timore delle conseguenze di un insuccesso, evitando di impegnarsi con responsabilità etica nell'obiettivo supremo della salute, in ragione dei più forti vincoli giuridici ?

       Resta forse valido l'assunto capograssiano: <> (G. Capograssi, Analisi dell'esperienza comune, 1930, Opere, Milano, Giuffré, vol. II, pp. 111-112).

 

Giuseppe Acocella

Vice Presidente del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro



[1] P. FRATI, L'anziano e i problemi di fine vita dal punto di vista del diritto, in M. Soldini - U. Accettella - S. Burgalassi, La bioetica e l'anziano, cit., p. 74.