Mezzogiorno


Giuseppe Fresolone

Sistema produttivo, struttura occupazionale e lavoro “nero” nel meridione degli anni 2000

Il peso dell’economia sommersa e del lavoro nero è un dato strutturale della dimensione economica meridionale. Tuttavia, non in tutti periodi e le fasi di sviluppo esso ha avuto la stessa incidenza e non sempre ha ricoperto la stessa funzione. Il lavoro irregolare, ma più in generale l’opportunità di aver mano d’opera sterminata a basso costo, ha vincolato il modello di sviluppo meridionale che ha così valorizzato tale fattore mortificando i processi innovativi nel loro complesso. Dopo il superamento delle politiche tese a stimolare l’industrializzazione “dall’alto” del Mezzogiorno - dai Poli di sviluppo degli anni 70 all’intervento straordinario - le politiche “deboli” che si sono succedute dagli anni ’90 in poi hanno contribuito ad esasperare le tare storiche del sistema produttivo del Sud a partire dal ruolo del capitale umano. Oltre alle drammatiche ricadute sociali ed etiche, negli ultimi anni l’ulteriore diffusione dell’economia sommersa e del lavoro nero ha contribuito non poco alla trasformazione del sistema produttivo meridionale in un universo manifatturiero despecializzato. Il “nuovo” mercato del lavoro che si è andato formando si è rivelato funzionale a quel modello di sviluppo incapace di farsi sistema e dunque risulta necessario leggere il lavoro nero non come dato “autonomo” ma connettendolo alle profonde modificazioni dell’articolazione produttiva delle regioni meridionali. Tale approccio analitico è in grado di evidenziare come il lavoro nero non rappresenti solo un profonda ingiustizia sociale ma come, di fatti, sia un potente agente di compressione dell’innovazione e della crescita dell’intero Meridione. Nella parte iniziale di questa ricerca, infatti, si tenterà di evidenziare al correlazione tra lavoro irregolare e despecializzazione economica nel Meridione ed in particolare le forme che ha assunto per la Campania e la provincia di Salerno. Le dinamiche del modello di specializzazione I risultati economici, fatti segnare dall’economia meridionale dal 2000 ad oggi, essi appaiono sia pur di poco inferiori a quelli del Centro nord: 0,7% medio annuo al Sud contro lo 0,9% del Centro-Nord, con un ampliamento della forbice a sfavore del Mezzogiorno nel corso dell’ultimo triennio. Ma ciò che appare particolarmente significativo è il divario di crescita fatto registrare in questa fase economica dal Sud rispetto alle altre aree deboli dell’Unione. Contrariamente a quanto avvenuto in Italia, infatti, a livello continentale gli anni 2000 sono stati caratterizzati da un significativo processo di convergenza. In questo periodo sono cresciute assai più della media europea sia le economie dei nuovi Stati membri sia le altre regioni dell’Obiettivo 1 della UE a 15. Con riferimento all’ultimo arco di tempo disponibile (2000-2004), si è in presenza di tassi di crescita del PIL di oltre il 5% nei Nuovi Stati membri, del 3,8% nelle regioni Obiettivo 1, e di appena lo 0,4% nel Mezzogiorno . Va rilevato che il processo di convergenza a livello europeo è dovuto soprattutto ad un avvicinamento nei livelli di sviluppo tra interi paesi mentre più modesti sono stati i risultati in termini di divari interni ai paesi (è il caso del Mezzogiorno e della ex Germania dell’Est). Il Mezzogiorno, in particolare, sembra scontare un <> che ha determinato un arretramento sia del Mezzogiorno stesso che del Centro-Nord rispetto al complesso dei paesi della UE a 27. Se si confronta la dinamica del prodotto interno lordo pro capite del Mezzogiorno con quella dei paesi deboli della Unione allargata nel periodo 2000-2006 emerge un confronto sconsolante. Il tasso di crescita dell’economia meridionale è stato inferiore di 3 volte a quello della Spagna, di 4 volte a quello dell’Irlanda, di 5 volte a quello della Grecia. Nel corso dell’ultimo sessennio (2001-2006) il prodotto per abitante della Spagna ha superato il livello medio europeo ed maggiore oltre 30 punti di quello del Mezzogiorno; anche la Grecia ha superato il Sud, e, tra i Nuovi Paesi membri, nel 2006, Slovenia, Ungheria, Estonia e Repubblica Ceca hanno già raggiunto il livello di sviluppo del Mezzogiorno . E’ in atto, dunque, una profonda modificazione geo-economica dell’Europa che vede il Mezzogiorno in difficoltà, schiacciato dalla morsa competitiva, da un lato, dei paesi di nuova accessione – caratterizzati da processi di catching up propri di aree arretrate che si aprono ai mercati internazionali che possono godere soprattutto di favorevoli condizioni di costo – e, dall’altro, da paesi <>, che nei precedenti cicli di programmazione hanno saputo sfruttare al meglio le ingenti risorse dei Fondi comunitari. Il Mezzogiorno non ha, come s’è detto, partecipato alle positive tendenze di convergenza – con sviluppi più elevati della media europea – che hanno caratterizzato negli ultimi anni sia tutte le regioni dei paesi dell’Est nuovi entranti, sia le aree obiettivo 1 della UE a 15, incluse quelle dell’altra grande economia dualistica, la Germania, e tutte le regioni in ritardo della Spagna. Il Mezzogiorno rappresenta, dunque, un caso estremo. E’ praticamente l’unica grande area dove si verifica sia un livello del prodotto pro capite inferiore al 75% della media europea, sia un ulteriore arretramento della posizione relativa . Le ragioni di ciò sono molteplici, e rimandano in primo luogo – dato il persistente <> strutturale e le relazioni di interdipendenza tra i due pur assai diversi <> delle due macro-aree del Paese – al complessivo, grave deficit di crescita sperimentato nell’ultimo decennio dall’intera economia italiana relativamente al resto d’Europa. Ma anche alla sostanziale inefficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, in termini di capacità di intervento sulle carenze strutturali afferenti al contesto economico, sociale ed ambientale e all’apparato produttivo del Mezzogiorno, che gravano sulle potenzialità di sviluppo di quest’area. L’impatto più evidente degli elementi sinteticamente richiamati sulla struttura produttiva è la rinnovata centralità della <> . Una maggiore competitività presuppone infatti la re-integrazione, all’interno dei confini dell’impresa (specialmente a monte), di fasi in precedenza abbandonate, allo scopo di migliorare il controllo della produzione lungo un arco più ampio possibile della filiera. In tale prospettiva, la posizione del Mezzogiorno appare relativamente più debole. Nel 2004, in base ai dati più recenti con riferimento all’industria in senso stretto, la dimensione caratteristica meridionale è risultata pari a 21,8 addetti per unità lavorativa a fronte dei 31,3 nel Centro-Nord. Con riferimento ai c.d. <>, in cui è ricompresso circa il 48,0% dell’intera occupazione manifatturiera meridionale, la situazione appare più grave. La dimensione caratteristica nel comparto dei tradizionali meridionali, oltre a far segnare il valore assoluto più contenuto, 14,7 addetti. per unità lavorativa, presenta il differenziale, rispetto al medesimo valore relativo all’altra area, relativamente più ampio, pari a circa 37 punti percentuali . Nel Sud, quindi la frammentazione dell’offerta è assai più accentuata. Conseguentemente, il principale vantaggio competitivo delle aziende meridionali è costituito da un’elevata flessibilità operativa conseguita tramite una struttura – sotto il profilo dimensionale - <>, ed essenzialmente concentrata sul manufacturing a scapito delle funzioni aziendali <> ed <> del processo produttivo vero e proprio. Sono queste ultime le fasi, all’interno della catena del valore, oggi maggiormente redditizie, in quanto meno aggredibili dai nuovi competitori stranieri. La loro limitata presenza, nel Mezzogiorno, è di ostacolo alla possibilità di conseguire quegli avanzamenti competitivi indispensabili, come visto, per inserirsi nei flussi del commercio estero. A fronte di una dimensione più bassa, nel Mezzogiorno, è presente un tessuto di grandi imprese concentrate nei settori di scala, che ha evidenziato soprattutto nella fase recente una buona capacità competitiva sui mercati nazionali e internazionali. Sono proprio questi settori che hanno determinato, come visto in precedenza, la ripresa dell’export meridionale nel 2006 . Le principali branche in cui operano le imprese di maggiori dimensioni sono la siderurgia a ciclo integrale (Ilva in Puglia), l’industria petrolchimica e della chimica di base (Saras in Sardegna, Erg; Esso e Eni in Sicilia, ecc.) l’industria automobilistica e della sua componentistica, dei veicoli industriali e commerciali (ad esempio la Fiat a Melfi), l’industria aeronautica, aereospaziale e dell’avionica (Alenia Aeronautica in Puglia, Alcatel Alenia Space Italia e Galileo Avionica in Sicilia), l’industria energetica (Enel, Edison, Sorgenia; Enopower), l’industria informatica e della comunicazione (STMicroelectronis e Nokia in Sicilia) . Imprese in larga parte di successo, che non sono però riuscite finora a costituire un sistema integrato, poggiando prevalentemente su iniziative isolate, anche se a volte di grandi dimensioni, spesso soggette alle mutevoli condizioni di divisione internazionale del lavoro. La presenza di tale nucleo di grandi imprese, se accompagnato da strategie di integrazione sul territorio, potrebbe giocare un ruolo di primo piano nell’auspicato mutamento del modello di specializzazione. L’importanza, oggi, della presenza di un nucleo consistente di grandi imprese nasce infatti proprio dal fatto che esse possono determinare l’avvio di interdipendenze sistemiche ed esternalità positive per il resto dell’economia. E’ la possibilità stessa di coniugare i vantaggi delle economie di scala con quelli della flessibilità che spinge, in diverse aree, a rapporti di complementarità tra grandi e piccole imprese. Oggi, infatti, la grande impresa diviene sempre meno un’unità tecnica e sempre più un’unità di governance su una molteplicità di imprese che sono collegate, a vario titolo, alla grande. Nel Meridione di inizio millennio il sistema delle <> trova difficoltà ad affermarsi. Lo scopo principale di tale forma di aggregazione, che a differenza dei distretti non è subordinata né a un vincolo territoriale (le imprese che fanno parte di una stessa rete possono anche essere localizzate in aree diverse e lontane), né a un vincolo di natura produttiva (non è nemmeno indispensabile che le aziende producano lo stesso prodotto, o parti di esso), è in sostanza quello di formare una massa critica minima per superare alcuni dei problemi legati alle ridotte dimensioni aziendali. Sono quattro anni consecutivi che il Mezzogiorno cresce meno del Centro-Nord. Se si considera il periodo 2003-2006, il PIL è aumentato in quest’ultima macroarea del 3,7% cumulativamente, mentre nel Sud la crescita del periodo è stata appena dell’1,4 % . Non si era mai registrata un’interruzione così intensa dei processi di convergenza, anche se i flussi migratori in direzione del Nord hanno fatto sì che in termini di prodotto pro capite, una misura più corretta di benessere nell’area , il divario sia lievemente diminuito. Si pensi, a riguardo, che nel triennio 2004-2006 si sono spostate dal Sud verso il Nord circa 680 mila persone, un dato certamente rilevante se si pensa che nel triennio 1961-63 di massima intensità migratoria si trasferirono dal Sud circa 725 mila persone . I problemi non derivano tanto dalla scarsità di accumulazione di capitale, in quanto nel quadriennio 2003-2007 gli investimenti fissi lordi sono cresciuti del 7,5% a fronte di una stagnazione registrata nel resto del Paese. Quello che è mancato è, da un lato, per la domanda interna, l’apporto dei consumi, il cui tasso di crescita cumulato nello stesso periodo è stato pari al 2,9% (4,2% nel Centro-Nord) e, dall’altro, la capacità dell’economia meridionale di competere con i produttori residenti all’estero o nel resto del Paese, che si è riflessa in un continuo aumento, rispetto al PIL, delle importazioni nette, la cui quota è passata dal 18,7% del 2002 al 23,6% del 2006. La minore crescita relativa degli ultimi anni richiede una riflessione sull’effettiva capacità dell’industria meridionale di partecipare al processo espansivo in atto nell’economia italiana, tipicamente export lead. La crescita trainata dalle esportazioni che riguarda il Sud Italia, per questo, evidenzia alcune particolarità proprie del tessuto produttivo. La crescita delle esportazioni italiane è stata trainata da alcuni settori, come quella dei mezzi di trasporto (+8,4%) fortemente presenti nel tessuto produttivo meridionale; in particolare, nel 2006 le esportazioni della Basilicata, proprio per la eccezionale performance del suddetto settore, sono aumentate di oltre il 55%. D’altronde tale ripresa delle esportazioni è stata fortemente diseguale tra regioni, con alcuni casi di stagnazione (in Molise, dove la crescita è stata di appena lo 0,8%) o addirittura di flessione (in Puglia, - 1,6%). Segnali favorevoli alla ripresa provengono nel Mezzogiorno anche dai classici indicatori sul clima di fiducia di famiglie e imprese, specie per quanto riguarda gli ordinativi. Non stupisce quindi che anche gli investimenti nel 2006 siano cresciuti maggiormente al Sud (2,5% rispetto al 2,2% nel Centro-Nord), sebbene questo abbia riflesso anche un recupero dalla flessione significativa (-2,1%) registrata nell’anno precedente. Per valutare se questa risposta positiva del Mezzogiorno alla ripresa ciclica possa non essere effimera è necessario analizzare la presenza di processi di ristrutturazione e di recupero della capacità competitiva dell’industria meridionale. I recenti anni di stagnazione sono stati un periodo in cui l’industria italiana ha avviato un lento processo di ristrutturazione, per far fronte alla perdita di capacità competitiva, che ha seguito il deterioramento della produttività, conseguente anche al rallentamento dell’intensità di capitale nei processi produttivi connessa all’aumento della flessibilità dell’utilizzo della manodopera e alla lunga fase di moderazione salariale. Alcune indagini condotte dal Centro Studi della Banca d’Italia segnalano come non solo vi sia stato un processo di espulsione dal mercato delle imprese meno efficienti, testimoniato dall’incremento delle cessazioni d’impresa anche in presenza di una fase ciclica favorevole, ma soprattutto, per la maggioranza delle imprese industriali, vi siano stati significativi cambiamenti nelle strategie aziendali e, per le più grandi, l’aumento della presenza sui mercati internazionali, anche con investimenti diretti con collaborazioni con altre imprese. Esistono indizi che indicano come questo processo di ristrutturazione sia stato nel Sud meno intenso. In mancanza di informazioni dirette è possibile effettuare una verifica empirica indiretta, basata sui comovimenti tra produttività e occupazione. Se si interpretano i processi di ristrutturazione come uno shock d’offerta positivo, questo, in un modello a prezzi rigidi nel breve periodo, si tradurrebbe in un aumento della produttività ma in contemporanea diminuzione dell’occupazione. Nel caso di uno shock di domanda positivo lo stesso modello prevedrebbe invece la crescita contemporanea di occupazione e produttività. L’analisi dei comovimenti tra unità lavorative(in assenza di informazioni sulle ore lavorate) e valore aggiunto nel settore manifatturiero potrebbe quindi dare qualche indicazione, sebbene grezza e imperfetta, sulla presenza di tali processi. Tabella 1 Variazione e composizione % del prodotto e dell’occupazione nel periodo 2001-2006 Settori di attività Variaz. % media annua Composizione percentuale 2001 - 2006 2000 2006 Mezzo-giorno Centro-Nord Mezzo-giorno Centro-Nord Mezzo-giorno Centro-Nord Prodotto (a) Agricoltura,silvicoltura e pesca -0,7 -1,2 4,5 2,3 4,2 2,0 Industria -0,2 0,0 21,3 30,6 20,4 29,0 In senso stretto -1,6 -0,5 15,2 26,0 13,4 23,8 Costruzioni e lavori del Genio civile 2,7 2,6 6,1 4,7 7,0 5,2 Servizi 0,8 1,4 74,1 67,1 75,3 69,0 Commercio, riparazione autoveicoli e beni personali e della casa -0,6 1,2 12,7 12,8 11,9 13,0 Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 1,2 2,1 11,3 11,2 11,8 12,0 Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari 0,6 1,3 22,2 25,6 22,3 26,2 Altre attività di servizi 1,3 1,2 28,0 17,6 29,3 17,9 Totale settori extragricoli 0,5 1,0 95,5 97,7 95,7 98,0 Totale 0,5 0,9 100,0 100,0 100,0 100,0 Occupazione (b) Agricoltura,silvicoltura e pesca -1,6 -2,4 10,4 4,8 9,1 3,9 Industria 0,9 0,4 21,7 31,3 22,0 30,1 In senso stretto -0,4 -0,3 14,0 24,7 13,1 22,9 Costruzioni e lavori del Genio civile 3,0 2,7 7,7 6,6 8,9 7,2 Servizi 0,9 1,6 67,9 63,9 68,9 66,0 Commercio, riparazione autoveicoli e beni personali e della casa -0,4 0,9 15,0 14,5 14,1 14,4 Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 1,8 1,5 11,0 12,4 11,8 12,8 Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari 2,6 3,1 10,6 13,1 11,9 14,8 Altre attività di servizi 0,5 1,1 31,2 23,9 31,0 24,1 Totale settori extragricoli 0,9 1,2 89,6 95,2 90,9 96,1 Totale 0,6 1,0 100,0 100,0 100,0 100,0 (a) Valore aggiunto a prezzi base (valori concatenati, anno di riferimento 2000) (b) Unità di lavoro Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Nel Centro-Nord vi è stata nel 2004 e 2005 una crescita della produttività nel settore manifatturiero associata a una riduzione dell’occupazione, coerente con la presenza di uno shock di offerta positivo, attribuibili ad esempio a possibili processi di ristrutturazione. Nel 2006, invece, il comovimento delle due variabili segnala un possibile shock positivo di domanda: l’industria ristrutturata, e quindi più competitiva, è tornata a crescere a fronte della positiva evoluzione della domanda internazionale. Il caso del Mezzogiorno appare diverso. La riduzione contemporanea di occupazione e produttività nel 2004 e 2005 è coerente con la presenza di un shock di domanda negativo, che si inverte nel 2006. una possibile interpretazione è che l’industria del Mezzogiorno abbia dato segnali di crescita del 2006 a seguito della ripresa del ciclo, ma senza avere affrontato un processo di ristrutturazione di portata ampia come quello registrato nel resto del Paese. Il rischio in questo caso è che la ripresa possa rapidamente spegnersi, mentre rimane il peso di problemi strutturali di competitività irrisolti. Il recupero di competitività delle imprese italiane, e di quelle del Mezzogiorno in particolare, richiede quindi di adattare la struttura produttiva delle nuove condizioni dei mercati e ai nuovi fattori di successo, così come già avvenne nei primi anni ’80 . Questo può essere possibile solo tramite un rapido, diffuso e pervasivo processo di innovazione della base produttiva: sia per il pieno sfruttamento delle potenzialità dell’ITC; sia per l’orientamento verso i settori a più rapido tasso di sviluppo, come quelli high-tech; sia infine per il miglioramento della produttività e redditività dell’impresa, tramite innovazioni di prodotto e di processo. L’esigenza di un’accelerazione dei processi innovativi in Italia risulta comunque evidente da un confronto con le performances innovative registrate in Europa . La necessità di disporre di misure regionali dipende dal fatto che l’innovazione e il livello di performance correlato sono spesso fortemente condizionati dai sistemi di innovazione locali. Infatti la localizzazione delle unità produttive e dei centri di ricerca è sempre meno legata ai mercati di domanda e di offerta e sempre più alle caratteristiche di innovatività dei territori, in termini di presenza di capitale specializzato, agglomerati di industrie innovative, centri di ricerca specializzati. Le imprese più innovative possono quindi scegliere la loro localizzazione tenendo conto delle strutture offerte dal contesto locale. Questo sottolinea la necessità di politiche innovative a livello locale che inducano ogni Regione a creare le condizioni favorevoli all’attrazione nel proprio territorio delle imprese più innovative. Alcuni studi consentono di valutare le posizioni delle regioni del Mezzogiorno in termini di performances innovative, sia rispetto ai livelli nazionali che rispetto a quelli medi europei. Considerando la graduatoria delle regioni europee secondo l’indice sintetico della performance innovativa regionale, si notano con chiarezza i bassi livelli di capacità innovativa delle regioni meridionali: infatti esse si collocano tutte oltre la metà della graduatoria, istituita tra 203 regioni europee a partire dalla posizione 109 occupata dall’Abruzzo, sino alla posizione 188 occupata dalla Calabria. Superiori sono invece le performances delle regioni del Centro-Nord, che presentano mediamente livelli in linea con i valori medi europei. Per il Mezzogiorno, il primo valore in graduatoria è quello relativo all’Abruzzo , appena sotto la media europea ma molto distante dai valori di eccellenza dei paesi nelle prime posizioni; la regione che mostra la peggiore performance è la Calabria . Si osserva inoltre che le performances relative alla Campania e della Basilicata sono state più elevate di quelle registrate in Molise, regione in regime transitorio rispetto ai Fondi strutturali. In una situazione in cui l’economia italiana sconta un divario di competitività con altri paesi europei, specie per quanto riguarda l’innovazione, le regioni meridionali – con l’eccezione del solo Abruzzo – sono ancora nel 2006 quelle che presentano le capacità innovative più scarse con una forte limitazione del proprio potenziale di crescita. L’applicazione della stessa analisi Shift-Share alla crescita della produttività del lavoro richiede di esplicitare un’ ulteriore componente, riguardante la riallocazione dell’occupazione verso settori a minore o maggiore intensità di valore aggiunto per occupato. I risultati destano qualche preoccupazione per le prospettive di crescita del Mezzogiorno. Non solo la produttività è cresciuta meno nel Mezzogiorno, sebbene il differenziale sia modesto (-0,2 punti percentuali cumulati nel periodo 2000-2006), ma soprattutto i differenziali relativi alla componente competitività e alla componente struttura sono entrambi negativi e pari a circa a –1(più precisamente,-0,8 punti percentuali per l’effetto struttura, -1,1 per l’effetto competitività). Quindi il Mezzogiorno paga non solo una struttura produttiva sbilanciata verso i settori a basso valore aggiunto, ma anche il fatto che l’andamento della produttività in tutti i settori considerati (tranne quelli dei servizi alla famiglie e alle imprese) è stato inferiore a quello medio del Paese. Questo segnala quindi una difficoltà del sistema economico meridionale nel tenere il passo con i processi di ristrutturazione e di innovazione diffusi nel resto del Paese. Il differenziale complessivo risulta modesto in quanto il Mezzogiorno guadagna dalla forte riallocazione della struttura produttiva verso settori ad alta intensità di valore aggiunto per occupato, come dei servizi, in particolare dell’intermediazione finanziaria e immobiliare. Nel complesso, sono quindi le trasformazioni strutturali che permettono al Mezzogiorno di limitare i divari di produttività verso il resto del Paese. Le implicazioni sul mercato del lavoro La situazione del mercato del lavoro in Italia nel 2006 evidenzia un sensibile miglioramento rispetto al biennio precedente. In base ai dati della nuova indagine continua sulle forze di lavoro, il numero degli occupati nella media del 2006 è risultato pari a 22.988.000, l’1,9 % in più rispetto ad un anno prima (pari a un incremento di 425 mila unità), quasi tre volte superiore rispetto a quello del biennio 2004-2005 . La più accentuata dinamica dell’occupazione si combina con un’ulteriore significativa flessione del numero delle persone in cerca di occupazione. La crescita occupazionale si è riflessa in un aumento significativo del tasso di occupazione e si è parzialmente connessa anche all’esaurirsi degli effetti delle regolarizzazioni. Nel 2005 queste ultime avevano inciso sia sulla popolazione residente sia sull’occupazione. Nel 2006 il tasso di occupazione tra 15 e 64 anni è aumentato di quasi un punto, portandosi al 58,4 % . L’incremento della quota di popolazione in età attiva che risulta occupata è stato leggermente più elevato per le donne (un punto percentuale) rispetto agli uomini ( 0,8 %). A livello territoriale invece, il tasso di occupazione è cresciuto in misura più accentuata nelle regioni settentrionali e in quelle centrali (1 %) rispetto al Mezzogiorno (0,7 %) dove la componente femminile con un incremento del 1,1 % ha più che recuperato il consistente calo registrato nel 2005. Il divario con l’Unione europea e con l’ Eurozone, dove il tasso di occupazione è aumentato di circa un punto percentuale portandosi rispettivamente al 64,7% ed al 64,5% è rimasto sostanzialmente invariato. Appare tuttavia difficile con questi ritmi raggiungere nel 2010 i target del 70% e del 60% fissati a Lisbona rispettivamente per il tasso di occupazione totale e per il tasso d’occupazione femminile. Il divario resta al di sopra degli 11 punti per il tasso complessivo e dei 13 punti per quello femminile . Nel 2006, l’intonazione positiva della congiuntura ha determinato anche nel Mezzogiorno un incremento del tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro (15-64 anni) salito dal 45 % al 46,6% restando tuttavia molto distante dagli obiettivi fissati a Lisbona dall’Unione europea. Il tasso d’occupazione aumenta di circa un punto in tutte le regioni con l’eccezione della Campania dove resta sui livelli del 2005 e dell’Abruzzo dove aumenta di quasi mezzo punto percentuale. Quanto alle regioni del Centro-Nord, il tasso d’occupazione è aumentato di un punto percentuale, portandosi al 65%, e a 5 punti dal target di Lisbona del 2010. Il dato medio del 2006 evidenzia andamenti non molto dissimili dell’occupazione tra mezzogiorno e Centro-Nord, dopo tre anni di profonda divaricazione. Il numero delle persone occupate è aumentate, nel Centro-Nord, di 320 mila unità, pari al 2,0% e di 105 mila unità nel Mezzogiorno (1,6%). Nelle regioni meridionali la ripresa dell’occupazione segue un triennio di tendenziale flessione in cui gli occupati si erano ridotti di 69 mila unità. Tabella 2 Variazione degli occupati, dei disoccupati e delle forze di lavoro nel 2006 (valore in migliaia di unità) Regioni Occupati Disoccupati Forze di Lavoro Var. ass. Var. % Var. ass. Var. % Var. ass. Var. % Piemonte 22,6 1,2 -11,6 -12,4 11,0 0,6 Valle d’Aosta 0,8 1,8 -0,1 0,0 0,7 0,0 Lombardia 79,3 1,9 -14,5 -8,4 64,8 1,5 Trentino Alto Adige 7,2 1,6 -1,3 -7,1 5,9 1,3 Veneto 38,2 1,8 -2,9 -3,3 35,3 1,6 Friuli Venezia Giulia 15,5 3,0 -2,7 -13,6 12,8 2,5 Liguria 16,7 2,7 -6,0 -15,8 10,8 1,7 Emilia – Romagna 45,5 2,5 -7,2 -9,5 38,3 2,0 Toscana 35,6 2,3 -5,5 -7,1 30,1 1,9 Umbria 9,3 2,6 -3,4 -13,6 5,9 1,6 Marche 12,4 1,9 -0,4 0,0 12,0 1,8 Lazio 36,9 1,8 -1,2 -0,6 35,7 1,5 Abruzzo 6,1 1,2 -7,1 -16,7 -1,0 -0,2 Molise 2,7 2,8 0,1 0,0 2,8 2,5 Campania 4,0 0,2 -46,6 -15,2 -42,6 -2,1 Puglia 34,4 2,9 -25,3 -12,0 9,1 0,6 Basilicata 4,4 2,1 -3,7 -14,8 0,7 0,0 Calabria 11,1 2,0 -10,6 -9,9 0,6 0,0 Sicilia 31,9 2,2 -50,3 -17,5 -18,4 -1,1 Sardegna 10,7 1,8 -14,9 -16,9 -4,2 -0,6 Mezzogiorno 105,3 1,6 -158,4 -14,8 -53,1 -0,7 Centro-Nord 320,1 2,0 -56,8 -6,9 263,3 1,6 - Nord Ovest 119,4 1,8 -32,2 -10,4 87,2 1,3 - Nord Est 106,5 2,2 -14,1 -7,4 92,4 1,8 - Centro 94,2 2,1 -10,5 -3,5 83,8 1,7 Italia 425,4 1,9 -215,2 -11,4 210,2 0,9 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. Il Mezzogiorno recupera le perdite degli ultimi ani e supera per la prima volta i 6 milioni 500 mila occupati. Nello stesso periodo nel Centro-Nord l’occupazione è aumentata di oltre un milione di unità, un risultato che risente con maggiore intensità dell’effetto statistico della regolarizzazione dei lavoratori immigrati. Gli immigrati, infatti, molto più mobili e flessibili della popolazione residente, hanno seguito la domanda di lavoro ed hanno cercato di integrarsi dove la disoccupazione era bassa . Al 2006, sempre in base alla rilevazione sulle forze di lavoro, quasi il 90 % dell’occupazione straniera era concentrata nelle regioni centro-settentrionali, in particolare nelle grandi città, con forte prevalenza di impieghi a bassa qualificazione (principalmente nei settori agricolo, edile, commerciale e dei servizi alle persone). Nel 2006, peraltro, l’occupazione straniera cresce più rapidamente al Mezzogiorno, 16,3% contro 15,1% del centro-Nord e, in particolare, per l’eccezionale espansione della componente femminile, 38,7% contro 15,9% . Il maggior peso degli stranieri influisce sui differenziali territoriali nei tassi di occupazione. La quota di popolazione straniera in età lavorativa occupata (66%) è di circa otto punti percentuali più elevata rispetto a quella della popolazione italiana. Il risultato riflette la diversa struttura per età della popolazione straniera rispetto a quella italiana. La classe di età tra 25 e 44 anni assorbe difatti oltre il 70% dell’occupazione straniera a fronte di circa il 57% per quella italiana. Il significativo miglioramento della situazione del mercato del lavoro meridionale non riesce tuttavia ad invertire la tendenziale flessione nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro: la crescita degli occupati si combina con una significativa contrazione delle persone in cerca di occupazione determinando un ulteriore calo di quasi mezzo punto nel tasso di attività. Nel 2006 la forza di lavoro si riduce per il quarto anno consecutivo nelle regioni meridionali (-0,7) mentre cresce dell’1,6% nel Centro-Nord. La riduzione della forza di lavoro nella ripartizione (circa 320 mila unità in meno rispetto al 2002, pari ad una flessione dell’1,0% all’anno) sembra sottenere un diffuso effetto di scoraggiamento che induce, soprattutto le fasce più deboli dell’offerta di lavoro (giovani e donne), a non partecipare più alla ricerca di lavoro o a rifugiarsi nel lavoro sommerso o, infine, a scegliere la strada dell’emigrazione verso le regioni del Centro-Nord. La dinamica dell’occupazione meridionale riflette l’intonazione positiva del ciclo economico dopo quasi un triennio di stagnazione produttiva che ha interessato l’intero paese ma con maggiore pesantezza le regioni meridionali. Dall’analisi settoriale emerge che la ripresa dell’occupazione nel Mezzogiorno essenzialmente ascrivibile al settore dei servizi (+2,1%). Un significativo incremento interessa il settore agricolo (4,5%), mentre l’industria perde 11 mila unità, pari allo 0,7%. L’andamento complessivo dell’industria sottende un lieve aumento degli occupati nell’industria in senso stretto (0,5,%) ed una sensibile flessione nel settore delle costruzioni che negli ultimi anni, aveva garantito la tenuta dei livelli occupazionali (-16 mila unità nel 2006, pari al –2,4% rispetto al 2005) . Nella dinamica dell’occupazione manifatturiera si riscontra una particolare differenza tra Nord e Sud, a dimostrazione di un graduale superamento delle difficoltà del nuovo quadro competitivo internazionale, da parte del solo comparto industriale del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno la ripresa dell’occupazione industriale è dovuta esclusivamente alla Campania. Tutte le altre regioni subiscono infatti più o meno accentuate contrazioni dell’occupazione nell’industria in senso stretto salvo la Puglia in cui l’occupazione è sostanzialmente rimasta sui livelli del 2005. Tabella 3 Principali indicatori del mercato del lavoro. Media 2005 e media 2006 (valori percentuali) Regioni Tasso di attività 15 – 64 Tasso di occupazione 15 - 64 Tasso di disoccupazione 15 - 64 2005 2006 2005 2006 2005 2006 Piemonte 67,2 67,5 64,0 64,8 4,7 4,1 Valle d’Aosta 68,5 69,1 66,3 67,0 3,2 3,0 Lombardia 68,3 69,1 65,5 66,5 4,1 3,7 Trentino Alto Adige 69,3 69.5 67,1 67,5 3,2 2,8 Veneto 67,4 68,2 64,6 65,5 4,2 4,1 Friuli Venezia Giulia 65,8 67,2 63,1 64,7 4,1 3,5 Liguria 64,8 65,5 61,0 62,4 5.8 4,8 Emilia – Romagna 71,1 71,9 68,4 69,4 3,8 3.4 Toscana 67,3 68,2 63,7 64,8 5,3 4,8 Umbria 65,6 66,2 61,6 62,9 6,1 5,1 Marche 66,7 67,5 63,5 64,4 4,7 4,6 Lazio 63,3 64,2 58,4 59,3 7,7 7,5 Abruzzo 62,2 61,6 57,2 57,6 7,9 6,5 Molise 56,8 58,2 51,1 52,3 10,1 10,0 Campania 51,9 50,7 44,1 44,1 14,9 12,8 Puglia 52,1 52,5 44,4 45,7 14,6 12,8 Basilicata 56,2 56,2 49,2 50,2 12,3 10,5 Calabria 52,1 52,4 44,5 45,5 14,4 12,9 Sicilia 52,7 52,1 44,0 45,0 16,2 13,5 Sardegna 59,2 58,7 51,4 52,3 12,9 10,8 Mezzogiorno 53,6 53,1 45,8 46,6 14,4 12,3 Centro-Nord 66,5 67,2 63,3 64,2 4,8 4,4 - Nord Ovest 67,6 68,3 64,6 65,7 4,4 3,9 - Nord Est 68,8 69,6 66,0 67,0 4,0 3,6 - Centro 65,2 66,0 61,0 62,0 6,5 6,1 Italia 62,4 62,7 57,5 58,4 7,8 6,8 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. La crescita dell’occupazione nei servizi, al Sud, riflette andamenti fortemente crescenti nei settori credito e assicurazioni, alberghi e ristoranti, trasporti ed altri servizi personali; dinamiche meno accentuate nei settori sanità ed istruzione, commercio, dei servizi alle imprese e nella pubblica amministrazione. L’incremento dell’occupazione riguarda sia i dipendenti (2,2%) che gli indipendenti (1,9%) che recuperano in parte la forte flessione dello scorso anno (- 3,2%). L’analisi della componente autonoma del terziario sembra evidenziare una forte sensibilità al ciclo economico delle imprese minori in un contesto sempre più competitivo. Gli incrementi più accentuati si rilevano, infatti, proprio per quelle figure che avevano registrato negli ultimi anni le flessioni maggiori: coadiuvanti familiari, soci di cooperative, co.co.co e prestatori d’opera occasionali . Se si analizza l’andamento dell’occupazione nelle diverse regioni meridionali, emergono profonde differenze sia nel risultato medio dell’anno, sia nell’andamento all’interno dei quattro trimestri. Va peraltro rilevato, in un’ottica di medio periodo, l’alternarsi di risultati positivi e negativi per le diverse regioni senza l’emergere di significativi trend espansivi. Con riferimento al 2006, vanno segnalati i risultati molto positivi fatti segnare da Puglia (2,8%), Molise (2,5%), Basilicata (2,3%) e Sicilia (2,2%) dove si ripete il buon risultato del 2005 a confermare un trend crescente molto significativo dell’occupazione nell’isola. Su valori superiori anche se di poco alla media regionale si collocano Calabria e Sardegna che entrambe fanno segnare un +1,8% mentre incrementi più contenuti registrano l’Abruzzo (-1,2%) e soprattutto la Campania (0,2%) in cui l’aumento dell’occupazione industriale viene pressoché annullato dalla flessione nei servizi (-0,4%). Tabella 4 Andamento delle unità di lavoro per settore di attività nel 2006 Settori Variazioni assolute (migliaia) Variazioni % Mezzo-giorno Centro-Nord Italia Mezzo-giorno Centro-Nord Italia Agricoltura,silvicoltura e pesca 8,6 -0,3 8,3 1,4 -0,0 0,6 Industria 14,1 61,1 75,3 1,0 1,1 1,1 In senso stretto 6,1 57,2 63,4 0,7 1,4 1,3 Costruzioni e lavori del Genio civile 8,0 3,9 11,9 1,3 0,3 0,6 Servizi 58,5 254,5 313,0 1,3 2,2 1,9 Commercio, riparazione autoveicoli e beni personali e della casa 5,0 44,4 49,4 0,5 1,8 1,4 Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 11,8 37,5 49,3 1,5 1,7 1,6 Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari 17,5 75,2 92,7 2,2 2,9 2,8 Altre attività di servizi 24,2 97,4 121,6 1,2 2,3 1,9 Totale settori extragricoli 72,6 315,6 388,3 1,2 1,9 1,7 Totale 81.2 315,3 396,6 1,2 1,8 1,6 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Quanto agli aspetti settoriali, il buon risultato occupazionale della Puglia è in larga parte ascrivibile all’incremento dell’occupazione nei servizi (4,0% pari a circa 31 mila occupati in più), cui si aggiungono variazioni positive in agricoltura (6,7%) mentre flessioni si sono registrate nell’industria in senso stretto (-0,1%) e nelle costruzioni (-3,3%, pari a 4 mila unità circa in meno). Dinamiche settoriali analoghe interessano il Molise mentre il risultato siciliano sottende un’eccezionale espansione dell’occupazione agricola ed un incremento di minore intensità nei servizi (1,7%). Il profilo temporale evidenzia in corso d’anno andamenti differenziali nelle diverse regioni. Molise,Basilicata e Sardegna presentano tassi di crescita più consistenti nella seconda parte dell’anno. In Campania la sostanziale stabilità dell’occupazione annua trova riscontro in tassi di crescita intorno allo zero nei quattro trimestri. Nel 2006 la crescita dell’occupazione a livello nazionale è in larga parte ascrivibile alla componente cosiddetta <> (a tempo parziale de a termine), confermando il risultato dello scorso anno. Nel complesso gli <> registrano un incremento del 6,8%, pari a 307 mila. In particolare, le posizioni dipendenti a tempo indeterminato full time aumentano di 149 mila unità (9,3%) mentre i lavoratori a tempo parziale aumentano di 158 mila unità (5,4%). L’analisi a livello territoriale evidenzia un ruolo determinante nella dinamica dell’occupazione delle componenti atipiche in entrambe le ripartizioni, anche se in misura più accentuata nel Centro-Nord. In particolare, nel Mezzogiorno, l’incremento delle forme contrattuali non standard (5,6%, pari a 75 mila unità) è in termini relativi oltre 9 volte superiore a quello dell’occupazione tipica (0,6, pari a 30 mila unità). Nell’ambito degli atipici, i contratti a termine full time restano sostanzialmente sui livelli del 2005, mentre i lavoratori a tempo parziale aumentano in complesso di 30 mila unità (4,3%) dopo quattro anni in cui l’occupazione part-time si era ridotta. La componente autonoma al Sud ha fatto registrare nel 2006 un incremento del 2,0 %, sensibilmente più accentuato al rispetto alla media nazionale. Tra il 2005 ed il 2006, la quota dell’occupazione a termine sul complesso dell’occupazione dipendente cresce dal 17,0% al 17,9% nel Mezzogiorno e dal 12,3% al 13,1% a livello nazionale; la quota di lavoratori a tempo parziale aumenta invece dall’11,0% all11,2% al Sud e dal 12,8% nella media del paese. Tra le donne le posizioni part-time hanno superato un quarto del totale (26,5%); tra gli uomini l’incidenza dei rapporti part-time è rimasta pressoché invariata (4,7% nel 2006; era 4,6% nel 2005). Al Sud le quote del lavoro a tempo parziale sul totale rispetto alla media nazionale sono leggermente superiori per gli uomini (5,3%) ed inferiori per le donne (23,3%) e sostanzialmente stabili nell’ultimo periodo. L’inversione congiunturale, supportata da moderate aspettative di tenuta a breve termine, ha determinato un recupero significativo del lavoro autonomo interessando tutte componenti tutte le componenti ed in particolare quelle riconducibili alle piccole imprese ed alle prestazioni occasionali. In termini assoluti a livello nazionale l’incremento degli indipendenti è interamente ascrivibile a lavoratori in proprio, co.co.co., prestatori d’opera occasionali e coadiuvanti familiari il cui aumento compensa la netta flessione di imprenditori e liberi professionisti. Tra i dipendenti l’espansione più pronunciata riguarda gli impiegati, seguiti da operai e quadri, mentre restano sostanzialmente sui livelli del 2005 apprendisti e lavoranti a domicilio . Nella media del 2006, l’incidenza dell’insieme dei rapporti di lavoro a termine (contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, collaborazioni e prestazioni di lavoro occasionale) sull’occupazione complessiva sale dall’11% all11,8% per effetto di incrementi significativi di tutte e tre le componenti. L’orientamento crescente della domanda di lavoro verso i rapporti a temine trova conferma se si considerano le nuove assunzioni. La quota delle posizioni a termine è molto più alta tra coloro che hanno trovato un impiego nei 12 mesi precedenti l’indagine: a livello nazionale nella media 2006, la quota dei neoassunti con contratto a termine è superiore al 45 % mentre non supera il 9% per coloro che avevano già un’occupazione. Nell’ambito di una comune tendenza crescente rispetto al 2005 il dato nazionale sottende situazioni alquanto diversificate a livello territoriale: al Sud la quota dei rapporti a termine sul totale è più elevata (14,7%, contro il 10,7% del Centro-Nord) mentre è più bassa tra i neoassunti (43,2% contro il 47,4% del Centro-Nord). L’analisi per classi d’età evidenzia una correlazione inversa tra età e stabilità dell’occupazione. La quota dei rapporti a termine sale al 28,3%tra i giovani in età compresa tra i 15 e i 29 anni (28,4% nel Centro-Nord e 28,0% nel Mezzogiorno). Ancora più elevata è la quota dei rapporti a termine tra i giovani assunti nell’ultimo anno. A livello nazionale, nella media del 2006, per coloro che hanno meno di 30 anni si attesta al di sopra del 54,7% (era il 50,2 nel 2005). La quota di giovani neoassunti con contratti a termine è più elevata nel Centro-Nord (59,3%) rispetto al Mezzogiorno (47,8%) . Più elevate al Sud, anche se decrescenti, sono le quote dei giovani neoassunti con contratto a tempo indeterminato che intraprendono un’attività autonoma. Le riforme del mercato del lavoro che si sono succedute in questi anni hanno certamente inciso su uno dei problemi strutturali del mercato del lavoro, la difficoltà di ingesso, rendendo più facile il primo ingresso nel mercato, come dimostrato dal calo strutturale della disoccupazione giovanile (circa 8 punti percentuali nel periodo 1998-2006). Tali riforme, peraltro, creato un canale parallelo, una specie di mercato del lavoro secondario. Il passaggio dal mercato del lavoro secondario a quello primario è molto incerto, senza sentieri e percorsi stabiliti. Ciò è particolarmente vero al Sud anche in presenza di condizioni congiunturali più espansive. La più accentuata dinamica dell’occupazione rafforza la tendenza verso la riduzione dello squilibrio nel mercato del lavoro nazionale in atto già da alcuni anni. Il tasso di disoccupazione scende nella media del 2006 al 6,8% per effetto di una flessione nel numero di persone in cerca di occupazione dell’11,4%, pari a 215 mila unità. Tale contrazione è in larga parte ascrivibile alle regioni del Mezzogiorno dove le persone in cerca di occupazione registrano, tra il 2005 e il 2006, una riduzione di circa 158 mila unità, pari al -14,8%. Nel Centro-Nord, invece, nonostante la crescita degli occupati le persone in cerca di occupazione diminuiscono di 57 mila unità pari al 6,9%. Lavoro sommerso e Mezzogiorno La presenza di una quota consistente di lavoro sommerso e di un corrispondente valore della produzione costituisce una caratteristica peculiare del sistema economico italiano, che raggiunge livelli patologici nel Mezzogiorno . Nel Mezzogiorno i fattori di disagio che sono all’origine del sommerso sono infatti più diffusi, per cui il fenomeno tende ad assumere un carattere quasi endemico; anche se, sul piano della sua composizione, esso tende a variare in funzione dei diversi percorsi di sviluppo dei sistemi economici locali presenti nell’economia meridionale. La dinamica degli ultimi anni ha inoltre posto in evidenza che il Mezzogiorno, oltre ad avere un tasso di irregolarità strutturalmente molto più elevato che nel resto del Paese, mostra una tendenza ad un consolidamento di tale fenomeno, in controtendenza con quanto avviene nel Centro-Nord. Secondo le valutazioni della SVIMEZ, nel 2006 in Italia il 12,1% (pari a 3 milioni di unità) delle unità di lavoro totali sarebbe rappresentato da lavoro non regolare. Di queste, circa 1,7 milioni sono localizzate nel Centro-Nord, e corrispondono al 9,3% dell’occupazione totale, e le restanti 1,4 milioni circa nel Mezzogiorno, con un tasso di irregolarità più che doppio, pari al 20,5% . Tra il 2000 e il 2006, l’occupazione irregolare nel Mezzogiorno è cresciuta dell’1,3%, a fronte di una riduzione del 6,7% nel Centro-Nord, a dimostrazione che i processi di regolarizzazione della popolazione straniera hanno inciso soprattutto nelle regioni del Nord del Paese. Va in particolare segnalato che nell’ultimo biennio 2005-2006 sembra essersi evidenziata nel Mezzogiorno una tendenza all’aggravamento del fenomeno, soprattutto per un effetto della fase di profonda difficoltà del mercato del lavoro meridionale, che proprio in questa fase ha fatto segnare una riduzione dell’occupazione regolare. Infatti, il tasso di irregolarità al Sud, che dal picco massimo del 21,5% del 2002 era sceso al 19% nel 2003 e nel 2004, è risalito al 20,2% nel 2005 e al 20% nel 2006. In quest’ultimo anno, il numero dei lavoratori irregolari è cresciuto ad un tasso più che triplo di quello regolare: 2,7% (+37 mila unità) contro 0,8% (+44 mila unità) . Anche nel Centro-Nord, dopo le forti flessioni dei primi anni 2000, esauriti gli effetti della regolarizzazione, l’occupazione irregolare del 2004 a ripreso a crescere a tassi simili a quelli regolari. I fattori che potrebbero essere all’origine di una ripresa del fenomeno possono essere identificati: nelle difficoltà di una parte del settore industriale tradizionale, che rischia di riflettersi in un ritorno alla completa immersione di piccole aziende che lavorano sulla frontiera tra irregolarità, spesso in rapporti di committenza con aziende emerse; nella crescita di peso di comparti del terziario in cui il frazionamento della produzione aumenta la possibilità di eludere i controllo; nella diffusa paura di impoverimento – e quindi nella ricerca di modalità di integrazione ai redditi percepiti come insufficienti – ma anche negli effetti di una diffusa percezione, determinatasi nella fase economica recessiva dell’ultimo quinquennio, di un più generale indebolimento della battaglia per la legalità e per il rispetto delle regole. A livello settoriale, il lavoro non regolare è prevalentemente impiegato nel settore dei servizi, dove si concentrano circa tre quarti dell’irregolarità totale e nel cui ambito, nel 2006, il tasso di irregolarità ha raggiunto, a livello nazionale, il 19% nel commercio e il 10,6% negli altri servizi. Il valore più elevato, e in ulteriore ampliamento, si registra in agricoltura (22,6%), seguito, dopo il commercio, dalle costruzioni (11,4%); molto più contenuta risulta, invece, la quota di irregolarità nell’industria in senso stresso (3,9%) . Il tasso di irregolarità risulta più alto nelle regioni meridionali in tutti i settori produttivi. La differenza con il Centro-Nord è particolarmente elevata nelle componenti del settore industriale, sia nell’industria in senso stretto che nelle costruzioni. Nell’industria in senso stretto, anche per effetto della elevata presenza di micro-imprese nell’area meridionale, il divario tra le due aree del Paese è enorme: 13,5% al Sud contro l’1,8% al Nord. Sembra quindi che l’irregolarità lavorativa in questo settore sia un fatto quasi esclusivamente meridionale. Nel settore delle costruzioni, il Mezzogiorno – che presenta un’incidenza sull’occupazione industriale complessiva doppia rispetto al resto del Paese – registra un tasso di irregolarità pari a circa 22,8%, rispetto al 6,1% al Nord. Nel commercio il Mezzogiorno presenta il tasso di irregolarità (26,2%) più elevato tra tutti i settori, superiore, di poco, anche a quello dell’agricoltura (26,0%), e superiore di 10 punti a quello rilevabile nel resto del Paese (16,4%) . In termini dinamici va segnalato il forte incremento fatto registrare tra il 2004 e il 2006 dal tasso di irregolarità del settore agricolo in entrambe le aree del Paese: esso risulta aumentato al Centro Nord dal 15,6% del 2003 al 20% del 2006 e nell’ultimo decennio ha fatto segnare una riduzione della irregolarità è quello delle costruzioni , che comunque rimane un’area di attività in cui il peso del sommerso è particolarmente elevato e riguarda, al Sud, come visto, ancora un lavoratore su quattro. Il permanere di un tasso di irregolarità del 16% anche nel settore industriale del Sud è chiara testimonianza delle difficoltà delle piccole imprese meridionali ad allinearsi stabilmente su target di produttività e redditività compatibili con l’onerosità prevista dai contratti in materia di lavoro e dell’ordinamento fiscale e parafiscale. A livello regionale, la quota più elevata di unità di lavoro irregolari su quelle totali si riscontra in Calabria, dove, nel 2006, circa 3 unità di lavoro se dieci sono irregolari . La Calabria presenta inoltre un tasso di irregolarità in tendenziale crescita negli ultimi quattro anni, con una accelerazione nel corso del 2006, in cui si è registrato un aumento di quasi un punto percentuale. Un tasso superiore alla media del Mezzogiorno si rileva anche in Sicilia (23%), dove, nell’ultimo triennio, si è registrato uno dei maggiori tassi di incremento del fenomeno: dal 20,8% del 2004 al 23% del 2006 . Particolarmente elevata rispetto alle altre regioni del Sud risulta la diffusione del sommerso nell’industria siciliana (10 punti in più della media del Mezzogiorno). La Puglia è la regione che ha fatto la più significativa riduzione del tasso di irregolarità, passato dal 18,2% del 2000 al 16% nel 2006 . Il Molise, invece, appare in controtendenza, con un incremento nell’ultimo triennio di ben due punti percentuali (dal 14% al 16%) . Basilicata e Sardegna presentano un livello di irregolarità intorno al 20% , sostanzialmente allineato a quello medio dell’area. In Basilicata, in particolare, va sottolineata la quota particolarmente elevata di lavoro irregolare nel settore industriale. In una regione con importanti realtà industriali, ciò conferma l’esistenza di forti e reciproci legami tra realtà regolari e mondo sommerso, sia attraverso l’utilizzo di forma di lavoro non regolare nelle aziende emerse, sia attraverso rapporti di fornitura con imprese completamente sommerse. La quota meno elevata di lavoro irregolare tra le regioni meridionali, anche se sempre superiore al valore medio italiano, si registra in Abruzzo: 12,4% delle unità totali . La Campania è l’unica regione del Mezzogiorno che, pur presentando una dimensione piuttosto rilevante del fenomeno del sommerso (21% nel 2006), mostra una debole tendenza alla sua riduzione, interrottasi però nello stesso anno. Nella regione, per effetto di una grande città come Napoli, si rileva una forte concentrazione delle attività sommerse nel settore terziario, al cui interno quasi un lavoratore su quattro è irregolare . Le tendenze occupazionali e il sistema produttivo salernitano La riduzione del ruolo dell’industria, di conseguenza dell’occupazione industriale, dagli anni ‘80 rappresenta un segno distintivo particolare della Campania. Frutto della politica di chiusura, ristrutturazione, o ridimensionamento dei grandi impianti; vale a dire di quella sezione dell’apparato industriale campano che aveva fatto della regione la principale e forse unica area di moderno ed esteso sviluppo industriale nel Mezzogiorno non indotto la sviluppo di nessun effetto “sostitutivo” significativo . Per quel che riguarda il mercato del lavoro, si può dire che in Campania i livelli attuali di disoccupazione da una parte, e di diffusione di precarietà e lavoro nero dall’altra non sono conseguenza solo della crescita demografica e dell’incapacità del sistema produttivo di assorbire le forze di lavoro aggiuntive, ma anche della costante espulsione di forza lavoro dal settore industriale in seguito alla ristrutturazione “verso il basso” dell’economia regionale . In tutto ciò la provincia di Salerno, che solo marginalmente era stata toccata dalle politiche di industrializzazione pubblica, ha partecipato alla ridefinizione del modello campano sviluppando tendenze non univoche, soprattutto negli ultimi dieci anni. Il prodotto pro capite della provincia di Salerno, calcolato in rapporto al dato nazionale, si è mantenuto stabile per tutto il periodo che va dal 1995 al 2001. Nel 2002 ha, invece, fatto registrare un incremento di tre punti percentuali raggiungendo il 70 % del livello nazionale, indice superiore di quattro punti rispetto a quello regionale. Per gli anni successivi, le stime indicano una stabilizzazione del livello raggiunto intorno al 71 % . Questo risultato è la combinazione di andamenti simmetrici del livello di prodotto per occupato e del tasso di occupazione. Entrambi erano pari a circa l’82 %del livello nazionale del 1995, il primo più basso ed il secondo più elevato del corrispondente indice regionale. Nel periodo, entrambi gli indicatori si sono mossi verso il livello medio regionale: la produttività nel 2002 ha raggiunto il livello regionale all’88% ed il tasso di occupazione si è ridotto all’80%, mantenendosi comunque di cinque punti più elevato di quello regionale. Negli ultimi cinque anni la tendenza è di una lieve riduzione della produttività e di un ancor più modesto incremento del tasso di occupazione. A causa della ridistribuzione del peso in termini di prodotto e occupazione tra i comparti, nel periodo considerato si verificano cambiamenti nella produttività relativa (calcolata in rapporto a quella media nazionale). Il settore agricolo accresce la sua efficienza di più di 18 punti tra il 1995 e il 2002, superando il livello regionale di 2 punti e mezzo. Anche nel caso dell’industria in senso stretto si ha nello stesso periodo un aumento di produttività che porta il settore alle soglie del 90 % del livello nazionale. Incrementi di produttività si verificano nel settore dei servizi. Miglioramenti marcati di produttività si sono avuti fino al 2006 solo nell’edilizia (+103,9) mentre stabili o negativi sono stati per gli altri. Tabella 5 Occupati per settore di attività economica. Anno 2005 ( Dati in migliaia) Province Agricoltura Industria di cui: in senso stretto Servizi Totale settori V.A. % V.A. % .V.A. % V.A. % V.A. % Caserta 16,8 6,5 62,9 24,3 34,3 13,3 178,9 69,2 258,6 100 Benevento 10,3 11,1 22,4 24,2 12,3 13,2 60,0 64,7 92,8 100 Napoli 21,3 2,4 207,4 23,5 116,7 13,2 655,5 74,1 884,2 100 Avellino 8,7 6,4 41,6 30,3 28,2 20,5 86,9 63,3 137,3 100 Salerno 25,7 7,2 79,9 22,6 46,1 13,0 248,4 70,2 354,0 100 Campania 82,7 4,8 414,3 24,0 237,6 13,8 1.229,8 71,2 1.726,8 100 ITALIA 947,3 4,2 6.940,1 30,8 5.027,6 22,3 14.675,4 65,0 22.562,8 100 Fonte: CCIAA di Benevento, 4° giornata dell’Economia. Il grado di apertura dell’economia salernitana, nel biennio 2005-2006, pari nel complesso al 17,50% risulta di 1,5 punti più basso di quello medio regionale e di 8,2 punti di quello medio meridionale . L’incidenze dell’export manifatturiero sul valore aggiunto è pari al 52,7%, valore più elevato di quelli di Caserta e Benevento ma inferiore a tutte le altre classificazioni territoriali qui considerate. Ciò vale anche rispetto all’incidenza dell’export totale sul valore aggiunto. Sempre nel biennio 2005-2006, i circa 3,2 miliardi (1,6 in media annua) rappresentano il 19,8% del totale regionale, in aumento del 17,2% rispetto al biennio precedente. Nel complesso delle esportazioni il ruolo principale è ricoperto dai preparati e dalle conserve ortofrutticole che crescono del 42,1 rispetto al biennio precedente ricoprendo il 40,7% dell’export totale provinciale. Le imprese registrate, al 2006, sono 116.122, pari al 21,21% del totale regionale. Di queste il 13,76% sono società di capitali e tale incidenza è superiore solo a quella di Benevento, in ambito provinciale. Le società di persone rappresentano il 15,57% del totale e quelle individuali il 65,77% . Le imprese del settore agricolo sono rappresentate da ditte individuali per il 94%, nelle attività manifatturiere esse ammontano al 54,9% e quelle di capitali al 22,5% . La grande azienda agraria capitalistica (con una superficie agraria utilizzabile superiore ai 100 ettari) è propria della Piana del Sele mentre la medie piccola dimensione caratterizza il resto della provincia innanzitutto agronocerino –sarnese e il Cilento. I settori in le società di capitali assumono il peso relativo più alto sono la produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua (54,8%) e quelle dedite all’estrazione di minerali (51,3%). Tra le prime grande importanza hanno assunto le società miste (con partecipazione azionaria di maggioranza degli enti locali) che di fatto sono presenti in ogni città salernitana -con più di 20.000 abitanti- che spesso però non si integrano precludendosi la possibilità di creare economie di scala necessarie l’ottimizzazione della gestione delle risorse . Tra il 1998 e il 2006, le società di capitali sono cresciute del 85,58% e le società di persone del 30,45%. Mentre quelle individuali del 15,41% . Nel 2006 il tessuto imprenditoriale della provincia di Salerno conta 36.528 imprese commerciali (pari al 31,5%), 22.305 imprese agricole (pari al 19,2%), 12.890 imprese edili(11,1%) e 12.456 imprese manifatturiere (10,7%). Nel 2006, la forza lavoro (occupati più persone in cerca di occupazione) della Provincia di Salerno, costituita da 407mila individui, rappresenta il 37% del totale della popolazione residente ed il 56% della popolazione in età lavorativa. Il 20% del totale della forza lavoro regionale è localizzata in provincia di Salerno, così come il 18,3% delle persone in cerca di lavoro ed il 20,8% degli occupati . Il tasso di disoccupazione della provincia di Salerno, pari al 11,60%, è più basso di quello regionale, il divario dal tasso medio è pari a 4,8 punti. Il tasso di occupazione maschile (63,7%) è marcatamente più elevato del corrispondente femminile (34,9%, più elevato di quello medio regionale pari al 28,4%), la stessa situazione si verifica con riferimento al tasso di attività . Il tasso di disoccupazione maschile è pari al 9,1%, quello femminile al 15%, due punti più basso di quello campano (17,9). E’ possibile infine evidenziare che i tassi di occupazione ed attività, per fascia di età, della provincia di Salerno si mantengono sempre al di sotto del medesimo valore calcolato sull’intero territorio nazionale. L’unica eccezione è rappresentata dalla fascia dei soggetti aventi 55 anni di età ed oltre, per i quali si registra un tasso di occupazione superiore al dato medio nazionale di 0,3 punti percentuali e un tasso di attività superiore di 0,5 punti. Da osservare il fatto che il tasso di occupazione giovanile (età compresa tra i 15 e 1 24 anni). Pari a 18,5, è il tasso più alto delle province campane e si scosta di 7 punti dal tasso medio nazionale. Il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i 64 anni, pari a 48,7 è superiore al dato medio regionale (44,1) di 4,6 punti ma di 8,8 punti più in basso rispetto a quello medio nazionale. Nel 2005 il sistema economico salernitano ha prodotto, in termini di valore aggiunto, 16,9 miliardi di euro, collocandosi al secondo posto nella graduatoria regionale dietro a Napoli (43,2 miliardi di euro). La provincia ha mantenuto invariato, rispetto al 1995, il proprio peso relativo (poco più del 20%) all’interno del territorio campano. Tabella 6 Occupazione per settore di attività. Anno 1995 - 2005 ( Dati in migliaia) Anno Agricoltura, silvicoltura e pesca Industria Servizi Totale 1995 43,1 77,5 222,7 343,3 1996 41,0 74.6 230,3 345,9 1997 41,9 74,3 228,2 344,4 1998 43,3 73,6 234,8 351,8 1999 35,3 73,9 242,6 351,8 2000 34,0 76,1 240,5 350,6 2001 34,3 78,2 236,3 348,8 2002 34,1 81,6 241,8 357,5 2003 32,4 81,6 246,3 360,3 2004 25,1 76,7 256,2 358,0 2005 25,7 79,9 248,4 354,0 Variazione m. a. -4,04% 0,31% 1,15% 0,31 Fonte: ISTAT. Conti Economici Regionali. Il settore che partecipa in misura maggiore alla creazione di ricchezza è quello dei servizi (73,1), seguito da quello dell’industria in senso stretto (14,9%), dalle costruzioni (7,6%) e dall’agricoltura). Per quanto riguarda il trend dell’incidenza dei vari settori all’interno della composizione del valore aggiunto salernitano, dal 1995 al 2005, si nota come l’agricoltura pesi progressivamente meno, passando dal 5,2 del 1995 al 4,4 del 2005. Cala l’industria in senso stretto, passando dal 15,5% al 14,9%, aumentano le costruzioni e i servizi passando, rispettivamente, dal 6.6% al 7,6% e dal 72,7% al 73,1%. Risulta interessante approfondire l’analisi della distribuzione del valore aggiunto manifatturiero per dimensione di impresa. Nel 2004, il peso delle PMI salernitane in termini di valore aggiunto prodotto ammonta a 2.193 milioni di euro, con un’incidenza pari all’86,93% sul tale valore aggiunto manifatturiero, la più alta registrata all’interno della regione, dopo quella di Benevento (96,22%) . Il confronto con il dato regionale e nazionale, evidenzia come il modello di sviluppo salernitano sia caratterizzato da un tessuto imprenditoriale a forte presenza di PMI. Rispetto al 1995, il peso del valore aggiunto prodotto dalle piccole e medie imprese aumenta di 3,23 punti percentuali (dal 83,7% al 86,93%), a fronte dei 1,76 punti a livello nazionale (dal 70,3% al 72,06%) . Per quanto riguarda invece il contributo dei singoli settori produttivi in termini di occupazione, si può vedere come, nel 2005, gli occupati nel settore primario rappresentino il 7,2% degli occupati provinciali (solo Benevento la supera con l’11,1%). Gli occupati dell’industria, pari al 22,6%, hanno il peso relativo più basso di tutte le altre province, per contro il peso relativo dei servizi, pari al 70,2% è secondo solo a quello riscontrato nella provincia di Napoli (74,1%). Osservando la variazione degli occupati per settore di attività economica, dal 1995 al 2005, si rileva che gli occupati in agricoltura sono caratterizzati da una variazione media annua negativa pari al –4,04%, gli occupati dell’industria sono aumentati ad un tasso medio annuo dello 0,31% e quelli dei servizi ad un tasso dell’1,15%. In totale, nel periodo considerato, gli occupati aumentano dello 0,31% medio annuo. Tabella 7 Numeri indice della produttività per settore (Italia = 100) Salerno Campania 1995 2002 2006 1995 2002 2006 Agric. Silvicoltura e pesca 71,1 89,3 87,0 70,0 86,6 86,5 Industria in senso stretto 85,1 89,7 87,7 84,8 87,5 89,0 Costruzioni 92,8 90,2 103,9 93,7 91,5 98,8 Servizi 86,1 90,8 87,1 88,3 88,3 88,3 Totale 81,9 88,1 86,4 85,6 87,8 88,3 Fonte: Sviluppo Italia, Campania–Analisi dei sistemi produttivi territoriali (2003-2006: stime Prometeia). In un simile scenario non facile è la misurazione del peso e l’individuazione dei caratteri dell’economia sommersa e del lavoro nero. Anche in questo caso sembra che una certa importanza abbiano assunto nuovi fenomeni a cavallo tra precariato e lavoro irregolare. Il risultato complessivo di tali processo può essere interpretato tenendo conto delle nuove condizioni dell’eccedenza di lavoro. Non che siano scomparse forme tradizionali di sottoccupazione in alcuni mestieri professionali: agricoltura ed edilizia in particolare. Ma la componente nuova è l’offerta di lavoro giovanile a livello elevato di scolarizzazione presente in misura massiccia anche nelle aree interne. Il tessuto produttivo salernitano, pur tra tendenze e risultati eterogenei, non sembra in grado di dare sbocco a questa offerta di lavoro.