Attualità
Lavinia Magnaterra
In un Paese teso tra due importanti e apparentemente contraddittori processi politici e culturali, ovvero da una parte la crescente rilevanza delle autonomie regionali e autoctone, e dall'altra l'internazionalizzazione dell'economia e della società, sembra non avere senso parlare di identità nazionale. Il valore dell'identità nazionale risulta chiaro però se si pensa che la dialettica tra unità e varietà ha caratterizzato la storia della penisola dai tempi dei romani.
Per secoli alla disgregazione politica ha corrisposto una disgregazione linguistica: nonostante possa sembrare curioso ai contemporanei, la lingua italiana è una lingua "giovane". Solo con l'unità politica del Paese la maggior parte degli italiani ha cominciato a poco a poco ad adottare la lingua italiana. La nascente lingua italiana però era caratterizzata da "una duplicità radicale, quasi schizofrenica, tra i piani dello scritto e del parlato" (Trifone 2015: 31).
Il divario tra italiano scritto e italiano parlato fu sanato a partire dal secondo dopoguerra, quando gli italiani vissero l'ampliamento dell'istruzione, il boom economico e lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione.
Dei fattori esterni che condizionano lo sviluppo di una lingua ne fa una precisa panoramica Serianni (Trifone 2015: 48), individuandone tre diversi tipi: i fattori extra-culturali, ovvero quelli legati alla configurazione geografica di un territorio; i fattori culturali in senso lato, ovvero i processi demografici, politici, giuridici, economici e militari che, in quanto fenomeni sociali hanno riflessi sulla lingua; e i fattori culturali in senso stretto, quindi tutti quelli che incidono direttamente sulla lingua parlata e scritta, come alfabetismo, scolarizzazione, codificazione grammaticale, incidenza dei modelli letterali e preletterari.
Tra i settori che hanno contribuito ad unificare la lingua italiana, in un Paese frammentato politicamente e linguisticamente, quello enogastronomico risulta essere particolarmente sensibile, soprattutto se si considera la cucina e il vino come soggetti culturali che hanno uno stretto legame con l'ambito pratico della vita quotidiana e, di conseguenza, con gli eventi della comunicazione linguistica.
Bisogna precisare che il processo che ha portato ad un'unificazione linguistica in Italia è stato molto lento: a passi lenti ha proceduto per molto tempo anche lo sviluppo della nomenclatura nell'ambito delle cose comuni. Tuttavia oggi, in alcuni settori, soprattutto in quello della produzione industriale e in quello commerciale, sembra andare velocissimo.
Mentre da un lato le lingue speciali che sono nate in seguito al repentino sviluppo industriale e commerciale si impongono anche al di fuori dei loro stessi settori, svolgendo un ruolo unificante, dall'altro si specializzano e, al tempo stesso, tornano ad essere le lingue di pochi.
Nell'ambito delle lingue speciali possiamo inserire anche quella del vino che, in quanto tale, si distingue dalle altre lingue speciali e da quella comune su diversi livelli di analisi linguistica: la morfosintassi, l'organizzazione testuale e soprattutto il lessico, che fornisce le unità che permettono di differenziare una lingua speciale rispetto ad altre lingue analoghe e rispetto alla lingua comune.
Il lessico di una lingua speciale è ben più ricco rispetto a quello della lingua comune, ciò avviene perché un'attività professionale prevedere la conoscenza di oggetti e nozioni che sono ignoti alla pratica ordinaria della maggioranza, e il tipo di analisi che si va ad effettuare in campi professionali è di certo più approfondito. La caratteristica che quindi accomuna tutte le lingue speciali è di certo il bisogno lessicale.
Nel vasto vocabolario delle lingue speciali l'esigenza di massima individuazione porta a un rapporto biunivoco tra significato e significante, escludendo così relazioni semantiche essenziali per la lingua comune, come ad esempio la sinonimia e la polisemia.
Dall'esigenza di massima individuazione nascono i tecnicismi specifici e collaterali: per tecnicismo specifico si intende quel termine che indica un concetto o una nozione caratteristici di un certo ambito. Sono parole che si usano soltanto con determinate accezioni tecniche, che hanno un significato denotativo e si impiegano quindi per veicolare un significato univoco.
I tecnicismi collaterali sono secondo Serianni (1989: 103) «Particolari espressioni stereotipiche, non necessarie, a rigore, alle esigenze della denotatività scientifica, ma preferite per la loro connotazione tecnica». Nella lingua enologica, ad esempio, il sommelier o l'esperto degustatore dirà che il vino ha un ingresso deciso in bocca, mentre il comune assaggiatore dirà che la percezione al gusto è forte.
Di certo i tecnicismi collaterali non rispondo a quella esigenza di massima individuazione di cui scrivevo sopra, che è alla base del rapporto tra significato e significante.
I processi con cui le lingue speciali accrescono il loro vocabolario sono quelli che nutrono e rinnovano l'inventario della lingua comune: rideterminazione semantica di parole del lessico generale o di un'altra lingua speciale; prestiti da lingue straniere; neoformazioni derivazioni o composizionali; acronimi e sigle. Meno frequenti sono le neoformazioni assolute.
La categoria che sembra dominare nell'arricchimento lessicale delle lingue speciali è il forestierismo. Da sempre, e soprattutto negli ultimi anni, le lingue speciali sono state caratterizzate da prestiti formali, presentiti semantici e calchi. Come afferma Beccaria (1973: 11) «la direzione verso il sovranazionale è una tendenza irreversibile, una necessità per l'avvenire». I forestierismi sono penetrati nella lingua italiana proprio grazie ai linguaggi tecnico-scientifici. Alcuni termini inglesi danno alone di prestigio, espressività e tecnicità, ma rischiano, al tempo stesso, di impoverire la lingua, perché «marginalizzano intere serie sinonimiche, cancellano le sfumature per esprimere i concetti, oltre ad essere sempre più spesso scorretti, storpiati, mal trascritti e mal pronunciati» (Lubello 2014: 69), quindi, come conferma Giovanardi (2008: 32), anche se «l'ingresso dei forestierismi è inoppugnabile [...]. L'ingresso massiccio e incontrollato può provocare, in un futuro non troppo remoto, una creolizzazione, cioè una semplificazione eccessiva, e una dialettizzazione dell'italiano».
A livello morfosintattico, a farne le spese è il ruolo del verbo: gli eventi morfosintattici e semantici che si verificano nella sfera delle lingue speciali sono: la riduzione dei tempi, modi, persone verbali (con decisiva prevalenza della terza persona dell'indicativo presente); forme nominali del verbo, sia che mantengono il valore verbale (es. soggetto richiedente il prestito), sia in usi cristallizzati (come dato + sostantivo; es.: dati due punti A e B); l'uso di una ristretta gamma di verbi, che ricorrono con alta frequenza e a che a livello semantico risultano generici e polivalenti; il costante uso di nominalizzazioni.
Oltre al lessico, il livello che più caratterizza le lingue speciali rispetto alla lingua comune, ma anche rispetto ad altre lingue speciali, è quello testuale. In assenza di precisi elementi lessicali o morfosintatti, alcuni testi si possono identificare come testi speciali proprio perché hanno una specifica organizzazione testuale che segue schemi rigorosi e vincolanti.
Avendo fatto un excursus delle caratteristiche linguistiche delle lingue speciali, risultano svariate le differenze che queste hanno con la lingua comune. Molti specialisti, servendosi di questi argini linguistici, sottolineano la loro appartenenza ad una categoria professionale e a una cerchia ristretta di tecnici, ma come afferma Beccaria (1973: 14), questo atteggiamento potrebbe risultare controproducente: «caratteristico dei linguaggi settoriali è l'uso di terminologia riservata a un circolo relativamente chiuso di comunicazione. Addirittura quelli della comunicazione politica e sindacale continuano a costituire spesso, per abuso di tecnicismi non funzionali, più un ostacolo che un tramite della comunicazione stessa, benché siano questi i settori appunto dove dovrebbe essere più che in altri ridotta la distanza tra i parlanti del "piano di sopra" e quelli del "piano di sotto"».
Per alcuni settori, l'utilizzo di una lingua speciale risulta essere essenziale per evitare fraintendimenti e per approfondire la conoscenza di determinate nozioni. Bisogna però essere vigili e saper riconoscere i casi in cui pseudospecialisti decorano messaggi dal contenuto spesso banale con termini specialistici e strutture tipiche delle lingue speciali, con l'unico scopo di stupire il ricevente.
Nell'ambito della lingua speciale del vino, ho scelto di addentrarmi nel campo dell'analisi della degustazione perché risulta preliminare, e allo stesso tempo fondamentale, per chiunque si avvicini, con qualunque intenzione, al "liquido odoroso", come lo ha definito Sangiorgi.
Per capire a fondo che cos'è la degustazione, è importante comprendere la differenza tra bere e degustare. Èmile Peynaud (1983: 3-4), uno dei padri dell'enologia moderna, puntualizza: «Il semplice atto del bere, istintivo, si distingue nettamente dalla degustazione, che è invece un atto volontario sul quale riflettiamo seguendo una metodologia e una classifica delle impressioni. La degustazione è la codificazione di una piacevole attività gastronomica. Il vino, per essere apprezzato, esige attenzione, persino raccoglimento, e il sapere analizzare decuplica il piacere di degustare». Insomma, l'atto della degustazione converte l'impulso naturale di bere e mangiare in avanzata consapevolezza di ciò che si ingerisce.
Le competenze per una buona degustazione, e quindi per una valida valutazione di un vino, sono varie e tutte accessibili attraverso l'esperienza degustativa. La prima sicuramente è l'educazione sensoriale: la degustazione del vino è un'esperienza che coinvolge molti dei nostri sensi, soprattutto quelli meno in grado di produrre emozioni estetiche: il gusto e l'olfatto. Viene naturale credere che nel momento della degustazione dovremmo concentrarci particolarmente per ascoltare quei sensi che solitamente sono meno stimolati, o che utilizziamo con meno spontaneità. Ma parlare di educazione sensoriale significa anche parlare di concentrazione e di esercizio della memoria. Attraverso la curiosità e l'attenzione coltiviamo le sensazioni che percepiamo tramite olfatto e gusto, e che solitamente vengono trascurate. Così facendo, riusciamo a creare un nostro archivio personale di aromi e sapori.
Negli anni, man mano che il vino diventava per il mercato merce preziosa, si è voluta dare alla tecnica di degustazione uniformità: la valutazione si svolge seguendo precise fasi e ricorrendo a determinate espressioni. D'altro canto, la percezione di odori e sapori è una cosa completamente personale. Se lo scopo della degustazione è quello di trarre un giudizio quanto più oggettivo, sembra paradossale doversi affidare a mezzi soggettivi. Anche il miglior professionista è influenzato dal ricordo di sapori d'infanzia o da particolari eventi della propria vita, e ha dovuto fare i conti con la propria soggettività. Sangiorgi (2014: 21), scrittore ed esperto di didattica della degustazione, osserva: «Il vino contiene il mondo, per questo motivo non dobbiamo precluderci alcuna associazione. Descrivere ciò che si sente, anche con la "libertà dell'ignoranza", è il primo passo per schivare uno sterile schematismo e non rinunciare alle risorse dell'istinto. [...] Quindi lavoriamo con la parte educata dalle esperienze, dalle letture e dagli ascolti e teniamola in contatto con la nostra soggettività».
Sull'impossibilità di dare un'interpretazione completamente oggettiva e tecnica al vino si esprime, ancora più categoricamente, Mario Soldati (2017: 182-183): «Ma il profumo, il sapore, l'incanto ultimo e individuale di un buon bicchiere di vino si identifica, in definitiva, con un "quid" che sfugge a qualsiasi analisi scientifica: allo stesso modo, appunto, che nessuna dimostrazione filologica potrà mai tradurre in formule o in ragionamenti la bellezza di un Tiziano o di un Leonardo».
Si può concludere che, ai fini di una buona valutazione, per il degustatore, è molto importante creare il proprio bagaglio formativo, ma è altresì importante e per nulla svantaggioso affidarsi alle esperienze personali pregresse e all'istinto.
Ultimo e indispensabile requisito per una ben fatta degustazione è l'abilità linguistica. Degustare è un esercizio sociale e conviviale e, in quanto tale, anche comunicativo. Chi degusta dovrebbe poter tradurre in un linguaggio comprensibile, adatto e sufficiente le sensazioni olfattive e gustative. Per questo si è rivelato fondamentale l'uso di un linguaggio formalizzato, comune, oggettivo e di riferimento, capace di facilitare la confluenza dei tanti, e spesso divergenti, giudizi dei degustatori.
La degustazione, spiega Gilardoni (2007: 26) «è una pratica antica, che risale almeno agli haustores romani, che assaggiavano il vino durante le feste (le Vinalia) e che avevano il compito di degustare il vino consegnato al fisco dai contribuenti», tuttavia per secoli è mancato un lessico proprio, multiculturale e condiviso per verbalizzare questa esperienza sensoriale e culturale.
Gli interscambi culturali, la migrazione post-bellica, la globalizzazione e l'incremento del consumo del vino in regioni precedentemente prive di tale tradizione, come California e Nuova Zelanda, hanno generato la necessità di organizzare un vasto repertorio di termini, fino ad allora variegato ma caotico. Con questo scopo, nella seconda metà del Novecento, Èmile Peynaud elaborò Il gusto del vino, 1983, Brescia, Edizioni AEB, un vocabolario specifico per descriverne le caratteristiche sensoriali.
I termini e le espressioni che prenderò in esame nelle prossime righe derivano dalle mie letture, dalla mia formazione e dalle mie esperienze personali e lavorative, ma è necessario puntualizzare che esistono diverse modalità per parlare di vino, stilisticamente e formalmente condizionate dal contesto (orale, scritto, commento tecnico, articolo di giornale ecc.), dalla preparazione del degustatore ma anche dallo stato d'animo con cui questo si approccia alla valutazione. Inoltre, l'utilizzo di un linguaggio specifico e codificato, pur avendo dei limiti prestabiliti, non elimina le preferenze soggettive degli assaggiatori per determinate espressioni, soprattutto da parte di coloro che non desiderano sacrificare le loro particolarità espressive.
La prima proprietà da analizzare, rispetto all'aspetto del vino è il colore, che dà indizi sul vitigno e sulla maturazione. Giallo limone, rosso granato, rosso rubino, rosso porpora, sono composti sintagmatici che rappresentano paragoni ellittici con cui spesso sono descritte le nuances del vino nel calice. Altre volte si possono incontrare aggettivi derivati (cerasuolo) o alterati (paglierino, verdolino, chiaretto).
Dopo aver valutato il colore, l'esame visivo si concentra sulla limpidezza e sulla consistenza. Nello stabilire la limpidezza del vino, il degustatore deve sincerarsi ce il liquido non presenti particelle in sospensione (ammesse però in alcune tipologie di vino), dopodiché valuterà la limpidezza su una scala di valori che va dal velato al brillante.
La consistenza risulta visibile dalla rateazione del bicchiere e dagli archetti, o lacrime, che conseguentemente si formano sulle pareti grazie al cosiddetto "effetto Marangoni": quanto più gli archetti sono stretti, tanto più consistente sarà il vino. In base alla sua densità, il vino viene definito fluido, consistente o addirittura viscoso.
Nel caso in cui chi assaggia si trovi nel calice un vino spumante, si dovrà tenere in considerazione l'effervescenza, ovvero la grana e la persistenza delle bollicine. L'insieme delle bollicine nel bicchiere viene chiamato perlage, prestito dalla lingua francese che deriva indubbiamente dal prestigio di cui lo champagne gode nel mondo occidentale.
Verranno poi, durante l'esame olfattivo, valutati i parametri dell'intensità, della complessità per poi dedicarsi alla descrizione dei profumi nel calice. La gamma degli aggettivi che descrivono i profumi del vino non è vincolante e rigida perché sarebbe impossibile stilare una lista di tutti i profumi in cui una persona può imbattersi nella vita, ciò nonostante, al fine di una valutazione chiara, si raggruppa gli odori che si possono percepire in un vino in gruppi: aromatici, vinosi, floreali, fruttati, fragranti, erbacei, minerali, speziati, tostati, eterei. Si tratta di aggettivi derivati e, quasi tutti, riconducibili alla classe degli aggettivi relazionali. L'insieme dei profumi e degli aromi che caratterizzano il vino e che sono percepibili al naso viene indicato con il francesismo bouquet.
L'ultima fase della tecnica della degustazione consiste nella descrizione del sapore, e prende in esame tutte le sensazioni che si possono percepire al palato: quelle saporifere, come l'acidità, la sapidità e la dolcezza; e quelle tattili, come morbidezza, calore e astringenza. Le sensazioni saporifere e tattili aiutano il degustatore a raccogliere le informazioni per la valutazione della struttura, o il corpo, del vino; dell'equilibrio e della persistenza, ovvero il tempo in cui sapori e profumi rimangono in bocca dopo aver deglutito.
A questo punto il degustatore ha ricavato dal calice tutti gli indizi per un giudizio complessivo sullo stato evolutivo (immaturo, giovane, pronto, maturo, vecchio) e sull'armonia (poco armonioso, armonico) del vino.
Dal racconto della degustazione fatto fin qui, l'aggettivazione sembra il processo più frequente e risulta essere contraddistinta da pochi tecnicismi specifici. Tra i tecnicismi della lingua enologica che si possono incontrare durante la degustazione si annovera il termine beva, che è l'atto stesso del bere: un vino di pronta o facile beva è rispettivamente un vino abbastanza maturo per essere bevuto oppure poco impegnativo. Un vino dal gusto leggermente dolce, con un lieve residuo zuccherino viene definito abboccato; mentre di uno con una spiccata percezione di astringenza data dai tannini si dice tannico.
La gran parte dei descrittori sono aggettivi della lingua comune come dolce, morbido, caldo, ampio, molle, leggero ecc., che nel vocabolario del settore enologico subiscono un restringimento di significato e una rideterminazione semantica.
Sotto il profilo semantico l'attribuzione di significati specifici a aggettivi e sostantivi di uso comune avviene tramite procedimenti linguistici e retorici che originano sinestesie, metonimia, similitudini e metafore.
La sinestesia è quel fenomeno conseguente all'accostamento di due termini appartenenti a sfere sensoriali diverse. Nella lingua del vino sono frequenti i contatti tra espressioni della sfera gustativa e espressioni della sfera tattile che generano nessi associativi di tipo metaforico: così in diversi casi possiamo sentir definito un vino (o gusto) vellutato, quando gode di una particolare morbidezza, per utilizzare un'altra sinestesia, oppure un vino (o gusto) pungente, quando invece è caratterizzato da una riconoscibile presenza di tannini. Al riguardo Gilardoni (2007: 31) aggiunge: «negli aggettivi relativi al grado di morbidezza gustativa del vino, come duro, rigido, ruvido, morbido, vellutato, si riconosce anche una funzione modellizzante della sinestesia, in quanto nel trasferimento semantico l'aggettivo esprime la maggiore o minore gradevolezza della percezione, che va dal polo gradevole della morbidezza a quello sgradevole della durezza».
Per riferirsi ad un vino qualitativamente eccellente, in cui le sensazioni gusto-olfattive si esprimono in modo particolarmente equilibrato e proporzionato si attinge al campo sensoriale uditivo, definendolo vino armonico.
Frequenti, nel linguaggio enologico, sono anche le metonimie che, per definizione, sono figure retoriche caratterizzate dalla sostituzione di un termine con un altro che abbia col primo un rapporto di contiguità, ed ecco che un vino può avere un naso agrumato o floreale, oppure al termine di una lunga giornata possiamo dire di bere un calice o bere una bollicina, o ancora, dire assortimento di etichette significa parlare della carta dei vini di un ristorante.
Nel caso di spumanti dalla bolla particolarmente delicata ed elegante si dice che quel tipo di vino è avvolgente come seta: la similitudine in questi casi è l'artificio retorico che dà particolare incisività espressiva.
La rideterminazione semantica che sta alla base di molti termini della lingua del vino conduce anche alla costituzione di metafore lessicalizzate. Seguendo l'approccio cognitivo di Lakoff e Johnson, Dalla Libera (2017: 30) definisce le metafore ‘lessicalizzate' o ‘fossilizzate' quelle che «non vengono più formate spontaneamente, ma sono diventate la norma nell'uso di una determinata comunità linguistica». Nel discorso sul vino, tra le metafore lessicalizzate, si trovano in primo luogo aggettivi di tipo antropomorfo. Si è soliti parlare dell'evoluzione del vino come delle tappe della vita di un uomo, quindi è giovane, maturo, vecchio. Ad un vino si possono attribuire anche caratteristiche proprie della psiche, dell'emotività, della morale e del comportamento dell'uomo, in questo caso il vino diventa un vino dolce e amabile, oppure deciso, aggressivo, tranquillo o anche sincero, elegante, onesto.
Alcune metafore lessicalizzate proprie della lingua enologica si rifanno ad altre semantiche. Quando un vino non ha particolare acidità o alcolicità, cioè quelle caratteristiche che danno struttura, si dice che è debole, molle o magro; viceversa, si dice robusto o pesante: in questo caso al vino vengono assegnati aggettivi relativi ad un corpo. Dall'ambito geometrico e dimensionale vengono termini come lungo o corto, che si riferiscono alla persistenza percepibile dopo l'assaggio; rotondo è un vino che si contraddistingue per un giusto equilibrio tra alcol e durezze; al contrario, un vino è piatto quando non spicca per freschezza, mentre spigoloso è il vino caratterizzato da un'eccessiva acidità o astringenza.
La riduzione semantica non è il solo meccanismo che caratterizza la lingua del vino. Risultano di ampio utilizzo anche i sinonimi, così di un vino con particolare accento sulla tannicità e sulla struttura si può dire, allo stesso modo, che è tannico, astringente, robusto, muscoloso, corpulento, massiccio, solido; gli iponimi nel caso in cui si percepiscono note floreali (di pesca, pera, limone, arancio); e gli antonimi come fluido/viscoso, carente/complesso, molle/duro, spigoloso/morbido, magro/pesante, immaturo/vecchio.
In alcuni quaderni di degustazione è apparso anche un particolare caso di polisemia, abbastanza raro nei lessici settoriali. Il termine fragrante, nel linguaggio enologico, designa sia un tipo di vino con spiccato sentore di frutta fresca, sia un vino spumante che è stato per vari mesi a contatto con i lieviti e pertanto è caratterizzato da quei tipici profumi fermentativi che ricordano il pane fresco, il croissant o la crosta di pane.
Casi di sinonimia e polisemia non sono caratteristici delle lingue speciali in senso stretto, che hanno terminologie più rigide rispetto a quelle delle lingue speciali in senso lato, come quella del vino. Per definizione le lingue speciali in senso lato «non hanno propriamente un lessico specialistico ma sono comunque strettamente legate a determinate aree di impiego, e sono caratterizzate da scelte lessicali e da formule sintattiche e testuali» (Beccaria 2012: 178). Nel caso della lingua del vino, critici, sommelier, ma anche amatori, fanno ricorso alla ricchezza della lingua italiana per raccontare il vino e per creare uno stile personale che possa essere il più persuasivo possibile. La scelta delle parole, sfruttando il potere seduttivo e evocativo del vino, è l'esito di un'educazione all'ascolto dei sensi, in cui l'aspetto linguistico gioca un ruolo importante.
Di seguito un esempio di commento[1] di abbinamento cibo-vino. Ho scelto quest'estratto perché l'autore ha saputo, lasciandosi accarezzare dai sensi e restando fedele ad essi, raccontare a chi legge tutta la bellezza che ha incontrato nel calice.
«Baccalà su puntarelle di cicoria condite con acciughe - Trebbien (trebbiano) Valter Mattoni (Castorano)
La teoria sul "matrimonio" considera il piatto quasi inabbinabile, vista la verde e amara croccantezza delle puntarelle, per non parlare dei rischi di effetto metallico quando si lavorano acciughe e, soprattutto, baccalà; un dato utile è che vegetale e salato sono dalla stessa parte e richiedono al vino una certa rotondità.
Il Trebbien è abbondante, si concede tutto insieme, le contemporanee sensazioni di aridità e rigoglio evocano sole e luce; tanta generosa ingenuità non è ripagata da un'adeguata lunghezza; tuttavia, il vino è capace di accudire l'amaricante del vegetale e di misurarsi sulla salinità del pesce senza tradirne la trama.»
Il ricorrere al "matrimonio" per descrivere un corretto abbinamento cibo-vino è tipico del linguaggio enologico. Matrimonio, sposarsi, sposarsi perfettamente, possono essere considerati tecnicismi collaterali della lingua del vino.
I termini rotondità e lunghezza rimandano all'area semantica della geometria, a cui spesso il degustatore attinge.
Il vino acquisisce chiaramente caratteristiche antropomorfe nelle ultime quattro righe, quando si deve che è abbondante, che si concede, che accudisce, che è caratterizzato da generosa ingenuità, che si misura e che tradisce.
In conclusione, la lingua del vino risulta essere un ambito poco esplorato, e spesso viene inserita nella comunicazione di un campo che ha maggior successo, quello gastronomico. Il motivo del mancato successo del mondo enologico rispetto a quello della cucina potrebbe risiedere proprio nell'uso del linguaggio: il lessico del vino è per addetti ai lavori e non avvicina i profani.
Tramite l'analisi linguistica della degustazione, ho voluto inquadrare la lingua del vino come lingua speciale per tracciarne le caratteristiche e individuarne le costanti.
Il risultato della mia ricerca ha evidenziato un panorama che vede il vino e la lingua che lo rappresenta come soggetti attivi non solo in ambito economico ma anche culturale e identitario. Il linguaggio dà forma e sostanza all'atto del bere come bisogno primario, offrendo profondità semantica e connettendo l'istinto biologico dell'individuo alla costruzione dell'identità personale e collettiva.
Se il vino è esperienza collettiva, aiutati dallo strumento della lingua, si potrebbe creare una comunicazione più inclusiva, e consegnare al mondo del vino il successo che merita. Ancora oggi il linguaggio del vino non viene compreso dai più: il discorso enologico si riempie di tecnicismi, diventando elitario, mentre invece il consumatore cerca un legame con il produttore attraverso l'esperienza, la storia e il racconto del territorio.
Modificare il linguaggio con cui si parla di vino non vuol dire abbassare il livello o la qualità, ma significa dare al prodotto più accessibilità.
Beccaria, Gian Luigi, 1973, I linguaggi settoriali in Italia, Milano, Bompiani.
Dalla Libera, Cristina, 2017, Le metafore concettuali in un approccio comunicativo nell'apprendimento delle lingue straniere, "EL.LE", (6)1: 25-40.
Gilardoni, Silvia, 2007, Descrivere il vino: analisi semantico-lessicale di una terminologia specialistica, "L'analisi linguistica e letteraria", (15)1: 25-46.
Giovanardi, Claudio - Galdo, Riccardo - Coco, Alesssandra, 2008, Inglese-Italiano 1 a 1, San Cesario di Lecce, Manni.
Lubello, Sergio, 2014, L'itangliano è ancora lontano? Qualche riflessione sull'influsso dell'inglese, in Lubello, Sergio (a cura di), Lezioni d'italiano, Bologna, Il Mulino: 63-80.
Paynaud, Èmile er Al. (a cura di), 1983, Il gusto del vino, Brescia, Edizioni AEB.
Sangiorgi, Sandro, 2014, L'invenzione della gioia. Educarsi al vino. Sogno, civiltà, linguaggio, Roma, Porthos Edizioni.
Serianni, Luca, 1989, Saggi di Storia linguistica italiana, Napoli, Morano Editore.
Soldati, Mario, 2017, Vino al vino, Firenze, Bompiani.
Trifone, Pietro (a cura di), 2015, Lingua e identità, Roma, Carocci Editore.
[1] https://porthos.it/degustazione-trebbiano-ristorante-il-palmizio/