Economia
Gianluigi Coppola
Introduzione
Con la XIX legislatura, che ha avuto inizio nell'Ottobre del 2022, il progetto dell'Autonomia differenziata ha ripreso il suo cammino. Tale percorso costituisce un ulteriore passo di un iter che dovrebbe condurre ad una profonda riorganizzazione del rapporto tra lo Stato centrale e le regioni.
La riforma prevede, in sintesi, la possibilità di devolvere ulteriori funzioni alle regioni sulla base del Titolo V della Costituzione. Il lungo elenco delle funzioni incluse nella legislazione concorrente che è possibile trasferire alle regioni, è stilato nell'articolo 117, III comma, ed include, tra l'altro: tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; governo del territorio; porti e aeroporti produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Il progetto prevede che le materie da trasferire siano oggetto di intese bilaterali tra Il Governo e ciascuna regione. Inoltre, per ogni regione dovrebbero essere garantiti i servizi minimi quantificati attraverso i cosiddetti Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP).
Le caratteristiche essenziali e la filosofia di fondo di tale riforma sono state puntualmente descritte, Gianfranco Viesti (2023), pubblicato nel numero 186/2023 del Menabò di Etica ed Economia.
Lo scopo principale di quest'articolo è quello di interpretare il progetto dell'autonomia differenziata alla luce dei divari regionali esistenti in Italia ed in particolare del dualismo Centro-Nord-Mezzogiorno.
L'assetto Istituzionale in Italia: l'ordinamento regionale
Prima della sua unificazione, avvenuta tra il XIX e gli inizi del XX secolo, l'Italia è stata divisa in un puzzle di piccoli Stati per ben 13 secoli (la divisione politica dell'Italia si può datare al 568 con l'invasione dei longobardi guidati dal re Alboino), tanto da essere definita nel 1847 dallo statista austriaco Klemens Von Metternich una mera espressione geografica.
Con l'unificazione l'ordinamento italiano nacque, sul modello napoleonico, fortemente accentrato. Il decentramento amministrativo, così come il suffragio universale, arrivarono molto tempo dopo l'Unità d'Italia a seguito di un lungo processo che, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha portato ad un progressivo aumento del ruolo svolto dalle regioni.
Nei primi decenni del Regno, i prefetti, funzionari nominati del ministero degli interni, furono autorità chiave per il controllo del territorio. Nel 1865 fu varata la prima legislazione organica provinciale e comunale, successivamente modificata, prima con il testo unico del 1915, e poi nel 1934 con una legge del fascismo con la quale si raggiunse l'apice dell'accentramento statale.
La Costituente dibatté ampiamente dell'ordinamento regionale ed alla fine, escludendo l'assetto federalista, furono previste le regioni. Venne così ad affermarsi il modello dello stato regionale, intermedio tra lo stato accentrato e lo stato federale.
L'articolo 116 della nostra costituzione prende atto delle differenze esistenti tra le regioni, prevedendo 5 regioni a statuto speciale e 15 regioni a statuto ordinario.
Per quel che concerne le regioni a statuto speciale si evidenziano due aspetti fondamentali. Il primo è che le regioni a statuto speciale, elencate nel primo comma dell'art. 116, che dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, sono le regioni italiane più periferiche della Penisola: Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna. Il secondo aspetto sul quale si vuole richiamare l'attenzione è che il primo statuto speciale varato fu quello della regione Sicilia in risposta ai moti separatisti che si verificarono in quella regione dal 1944 al 1946, e che successivamente furono adottati gli statuti speciali delle restanti 4 regioni.
L'articolo 116 (comma 3) prevede che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117, e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s) possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119. In tal caso, la legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.
L'articolo 117, prevedendo le materie di competenza statale, definita competenza "esclusiva" (comma 2), le materie di competenza "concorrente", in cui Stato e regioni si ripartono la funzione legislativa rispettivamente di principio e di dettaglio (comma 3), e le competenze residuali (la legislazione nelle materie non elencate in precedenza spetta alle regioni), di fatto intende offrire gli strumenti per regolare i rapporti tra lo Stato e le regioni ordinarie e quindi, in modo indiretto, tra le regioni stesse.
Tuttavia, con la previsione del cosiddetto "regionalismo differenziato" (art. 116, comma 3) si consente la possibilità di stabilire il grado di integrazione tra Stato e regioni in modo differente, regione per regione, a geometria variabile.
L'ultimo passo in ordine di tempo del cambiamento dell'assetto dello Stato in senso federalista è stata l'approvazione il 2 febbraio del 2023 da parte del Consiglio dei Ministri del disegno di legge, avente il titolo "Disposizioni per l'attuazione dell'Autonomia differenziata a Statuto Ordinario" con il quale si definiscono i principi generali per l'attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell'articolo 116, III comma della Costituzione, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione.
In particolare, il disegno di legge contempla la possibilità di siglare intese tra lo Stato e le singole regioni a statuto ordinario per l'attribuzione, alle regioni stesse, di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia che sono elencate nell'articolo 117 della Costituzione, concernenti prevalentemente le materie relative alla legislazione concorrente. Il procedimento di approvazione delle intese tra Stato e regioni, prevede un iter abbastanza articolato, in cui però il ruolo del parlamento sembra essere secondario.
Inoltre, l'attribuzione alle regioni delle nuove funzioni relativi ai "diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" è subordinata alla determinazione dei cosiddetti "Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). In altri termini, sulla base del disegno di Legge, sopra citato, il trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni, può avvenire solo successivamente allo stanziamento delle risorse finanziarie necessarie.
I Divari Territoriali: i Fatti stilizzati
Come si diceva nell'introduzione, lo scopo del presente articolo è quello di interpretare il progetto della "Autonomia differenziata" nel contesto dei divari territoriali presenti in Italia, ed in particolare, del dualismo Centro-Nord Mezzogiorno.
È noto che l'Italia è caratterizzata dalla esistenza e della persistenza dei divari tra il Nord e il Mezzogiorno d'Italia, così come attestano molti studi.
Il principale indicatore usato per misurare tali divari è la differenza PIL pro capite tra le due aree, perché la crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) viene assunta come una condizione necessaria per garantire la stabilità sociale.
Felice e Vecchi (2015) ricostruiscono l'andamento del PIL pro capite per le 3 Macro aree del Paese (Nord Ovest, Centro e Nord Est, Mezzogiorno) dal 1871 al 2011. Posto pari a 100 Il PIL Pro capite dell'Italia, quello del Mezzogiorno risultava, nel 1871, essere pari a 90, mentre nel 1951 divenne pari a 60, con il conseguente aumento dei divari. Dal 1951 al 1971 i divari tra le due aree del Paese si ridussero poiché il PIL pro capite del Mezzogiorno raggiunse e superò, anche se di poco, il 70% del PIL del Centro-Nord. Al contrario dopo il 1971 tale rapporto è diminuito sino a 60 per restare stabile negli anni successivi. Nello stesso periodo si registra la sostanziale convergenza tra il Nord Ovest e il Centro-Nord Est.
Anche Carrascal-Incera ed altri (2021) misurando, attraverso l'Indice di Theil, la disparità interna dell'Italia per un lungo periodo (dal 1910 al 2011) e confrontandola anche con quelli di altri Paesi Europei, hanno mostrato come i divari territoriali siano aumentati sino al 1950, per poi ridursi sino al 1970 e rimanere pressoché stabili nel tempo.
La dinamica del Pil è certamente utile per misurare in modo sintetico i divari regionali, ed in particolare quelli tra il Centro Nord e Mezzogiorno. Tuttavia, i divari regionali hanno una natura multidimensionale (Amendola ed altri, 1998) e anche per tale motivo, l'andamento dei differenziali in termini di PIL è insufficiente ad evidenziare in prima battura i profondi cambiamenti demografici, sociali ed economici, avvenuti nel corso dei decenni in Italia e, in particolare, nel Mezzogiorno (si veda Graziani, 1998).
Si pensi, ad esempio, alla trasformazione della struttura produttiva avvenuta nei primi decenni del secondo dopoguerra. Tra il 1951 e 1971 il valore aggiunto del settore agricolo si è ridotto nel Mezzogiorno dal 28,6% al 14,5%, mentre è cresciuto quello dell'industria che ha raggiunto nel 1971 il 30% circa (Petraglia Prezioso, 2022). Tuttavia, è l'emigrazione della popolazione meridionale, l'elemento costante che rappresenta l'altra faccia del dualismo Centro-Nord/Mezzogiorno. Tra il 1951 e il 1974 oltre quattro milioni di meridionali sono emigrati, e di questi oltre i due terzi, si sono trasferiti nel Centro-Nord (Petraglia Prezioso, 2022).
Il fenomeno migratorio che è continuato anche nei lustri successivi.
Nel decennio 2012-2021 il bilancio demografico Centro-nord/Mezzogiorno ha registrato circa 1 milione 138mila persone residenti che si sono trasferiti dal Mezzogiorno verso il Centro-nord e 613mila che dal Nord hanno percorso la direzione inversa. Il bilancio tra uscite ed entrate si è tradotto in una perdita netta di 525mila residenti per il Mezzogiorno. Particolarmente grave è stata per il Mezzogiorno la perdita sofferta in termini di capitale umano. Tra le persone che sono emigrate dal Mezzogiorno circa 157.000 sono stati giovani laureati di età compresa tra i 25 e 34 anni. Di questi una metà si è trasferita nel Centro-Nord e l'altra metà è emigrata all'estero (Istat, 2023).
Un altro aspetto importante concernente il dualismo Centro-Nord Mezzogiorno riguarda le differenze in termini di tasso di crescita naturale della popolazione.
Nel 1951 il tasso di crescita naturale in Italia era pari all'8 per mille. Tuttavia, mentre nel Centro-Nord era pari al 3,85 per mille, al Sud era pari al 13,7 per mille. Nel corso degli anni le differenze tra le due aree non solo si sono ridotte ma a partire dal 2011 tutte le macroaree del Paese hanno sperimentato tassi di crescita naturale della popolazione negativi. Nel 2022 il tasso di crescita della popolazione in Italia è stato negativo (-5,4 per mille) in entrambe le aree del Paese: -5,8 per mille nel Centro Nord, -5 per mille nel Mezzogiorno
Questi tre fatti stilizzati, persistenza dei divari in termini di PIL, riduzione nei tassi di crescita naturale della popolazione, e costanza nei flussi migratori dal Mezzogiorno al Centro Nord, sono utili per interpetrare le istanze di maggiore autonomia espresse da parte delle regioni del Centro-Nord.
La Teoria Economica
Come è stato detto prima, la misura fondamentale di Politica Economica è la crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) perché essa viene assunta come una condizione necessaria per garantire la stabilità sociale. Anche se questa visione è stata messa più volte in dubbio, da coloro i quali non considerano il PIL come una misura del Benessere Sociale, essa rimane centrale nella Politica Economica.
Ciò premesso, i modelli di crescita neoclassici più diffusi sono atomistici, cioè considerano le regioni come singole unità territoriali e non tengono conto delle relazioni che esistono tra le regioni stesse. Nel modello di convergenza assoluta, ad esempio, la riduzione dei divari territoriali dipende dall'ipotesi dei rendimenti marginali decrescenti del capitale. Nei modelli di convergenza condizionata i divari in stato stazionario dipendono dal valore dei fattori esogeni delle regioni, quali, ad esempio, i fattori Istituzionali. I modelli di crescita endogena contemplano l'ipotesi di non convergenza e di persistenza dei divari.
Tuttavia, nella realtà i rapporti tra le regioni sono di natura complessa. Essi non sono quasi mai statici, ma dinamici. Inoltre, le regioni si muovono in uno spazio complementare/concorrenziale e i rapporti tra le regioni stesse, sono destinati a cambiare con il verificarsi di eventi e fattori esterni che possono essere di varia natura, tecnologica, demografica, economica o istituzionale.
Nel caso del dualismo italiano, quindi, l'ipotesi di considerare le regioni degli atomi, tra loro indipendenti, è irrealistica poiché esiste una forte interrelazione tra il Nord e Sud, che si sostanzia non solo attraverso un flusso di risorse che va dal Nord al Sud, o meglio, dall'Europa al Sud, soprattutto dopo la fine dell'intervento straordinario e con il mancato rispetto del criterio dell'addizionalità (i fondi europei si sostituiscono e non si aggiungono, come dovrebbero, alle risorse ordinarie) ma anche, come si è appena visto, da un importante e costante flusso migratorio della popolazione, soprattutto di quella più giovane e istruita, ovvero del capitale umano, dal Mezzogiorno verso il Nord.
Ed è soprattutto l'investimento in capitale umano, uno dei principali fattori per la crescita economica, unitamente al progresso tecnico, a rappresentare uno degli elementi fondamentali delle interrelazioni esistenti tra le due aree del Paese, tra il Centro Nord e il Mezzogiorno, come ampiamente documentato anche dalla Svimez.
Esisterebbe, quindi, un divario di stato stazionario, tendenzialmente strutturale tra le due aree del Paese che non sarebbe il risultato di un mancato o di un erroneo funzionamento del processo di convergenza tra le regioni, così come teorizzato dall'ipotesi di convergenza assoluta della teoria neoclassica, né tantomeno dal fallimento delle politiche di coesione, sul quale vi è un ampio dibattito sulla loro efficacia ma l'esito delle interrelazioni, e, in particolare, del rapporto tendenzialmente conflittuale esistente tra le regioni.
Nella teoria economica tale ipotesi è in parte contemplata, ad esempio, nel modello di Boris e Stein (1968). Tale modello si basa sulla ipotesi dell'esistenza di due regioni con strutture produttive diverse e con differenti livelli di produttività e di remuneratività dei fattori. Ciò comporta che i fattori produttivi (lavoro e capitale) si spostano dalla regione in cui la remuneratività sono basse verso quella in cui sono più elevate. Il risultato è la persistenza dei divari o, addirittura, la tendenza alla divergenza nei tassi di crescita del reddito.
Conclusioni: una interpretazione del progetto di autonomia differenziata
Una delle principali caratteristiche dell'Autonomia differenziata consiste nel fatto che un maggior trasferimento delle funzioni alle regioni è associato anche ad una maggiore dotazione di risorse finanziare delle regioni stesse.
Soprattutto per questo motivo nei confronti di questo progetto si registra la presa di posizione di due differenti fazioni. La prima fazione, favorevole a tale riforma, è rappresentata dai Presidenti delle regioni del Nord, i quali ritengono che essa, attraverso il trattenimento delle risorse finanziare generate nei propri territori, sia necessaria ed utile per aumentare l'efficienza e la qualità dei servizi offerti dalle singole regioni. Gli stessi Presidenti sostengono, come corollario, anche la tesi che le regioni più povere, che con l'Autonomia Differenziata riceveranno minori trasferimenti, saranno inevitabilmente costrette a far di necessita virtù, e a migliorare la qualità dei servizi offerti alla popolazione attraverso una gestione più oculata ed efficiente delle minori risorse a loro disposizione. La seconda fazione, formata, con qualche distinguo, dai Presidenti delle regioni meridionali, è contraria all'autonomia differenziata, perché essa potrebbe comportare una riduzione dei servizi essenziali, tale da poter ledere i diritti fondamentali dei cittadini, come l'istruzione e la salute che sono diritti fondamentali della persona che, si ricorda, entrano nel calcolo dell'Indice dello Sviluppo Umano.
In sostanza, la contrapposizione è tra le regioni ricche che puntano a perseguire la crescita economica dei propri territori, e le regioni più povere che credono che il rimanere da sole aumenti le diseguaglianze e il divario sociale ed economico con il resto del Paese.
Il limite di entrambe le visioni, ma soprattutto di quella autonomista o separatista, è che non si tiene in debito conto l'intero sistema Paese, ovvero non si considerano le forti interrelazioni esistenti tra il Mezzogiorno e il Centro Nord.
Una possibile spiegazione delle istanze di maggiore autonomia espresse delle regioni del Nord può essere spiegata principalmente attraverso due fattori. Il primo è la demografia, dalla quale dipende anche il mercato del lavoro. Il secondo è una differente visione prospettica. Partiamo da questo ultimo punto.
Le regioni del Nord sembrano mostrare una visione asimmetrica di corto respiro spazio/temporale, limitato alla macroregione, o alla singola regione. Le regioni portatrici delle istanze autonomiste sembrano essere interessate soprattutto agli effetti di breve sul PIL regionale che nel breve/medio periodo possono contribuire a dare sia i minori trasferimenti di risorse dal Nord al Mezzogiorno, sia il capitale umano che dal Sud emigra al Nord.
In questo caso l'obiettivo non è quello di ridurre i divari territoriali, ma di mantenerli ai livelli attuali, o addirittura di aumentarli al fine di raggiungere una distanza tale, in termini di diritti, di livelli di benessere, di qualità dei servizi e di opportunità lavorative, finalizzata a garantire un flusso migratorio costante o crescente dal Mezzogiorno verso il Nord per rispondere alle istanze provenienti dal mercato del lavoro del Nord.
In altri termini, tale visione sembra essere il frutto di interessi territoriali, marcatamente locali, non moderati dal riconoscimento degli interessi espressi dagli altri territori, e per questo motivo, confliggenti con l'interesse nazionale, poiché il voler determinare le condizioni affinché vi sia un continuo flusso migratorio verso il Nord può rilevarsi nel lungo periodo controproducente non solo per il Mezzogiorno, in termini di minor livelli di istruzione e di benessere, ma per l'intero Paese.
Pertanto, con l'Autonomia differenziata potrebbe diventare più difficile perseguire l'obiettivo di ridurre i divari sociali ed economici esistenti tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno, soprattutto per quanto riguarda i diritti fondamentali dell'istruzione e della salute.
In sintesi, al di là di ogni analisi sociologica o economica, ciò che il progetto dell'autonomia differenziata rileva è l'assenza di una visione unitaria nazionale, il non sentirsi partecipi, soprattutto da parte di alcune regioni del Nord, di un comune destino come Nazione, comportante il rischio di ridimensionare, di fatto, il ruolo che l'Italia ha in Europa e, più in generale, nello scenario internazionale.
Bibliografia
Amendola, A., Caroleo F.E. Coppola G. (1999) "Differenziali territoriali nel mercato del lavoro e sviluppo in Italia." Struttura della contrattazione. Differenziali salariali e occupazione in ambiti regionali. ESI, Napoli (1999): 345-387.
Boris G.H. e Stein J.L. (1968) Regional Growth and Maturity in United States: A study in Structural Change in L. Needlman (a cura di), Regional Analysis, Harmondsworth, Penguin pp. 159-197
Carrascal-Incera A., McCann Ph., Ortega-Argilés R., Rodríguez-Pose A. (2020). UK Interregional Inequality in a Historical and International Comparative Context. National Institute Economic Review. 253. R4-R17.
Coppola G., Destefanis S., Marinuzzi G., Tortorella W. (2020). European Union and nationally based cohesion policies in the Italian regions, Regional Studies, 54:1, 83-94, DOI: 10.1080/00343404.2018.1447099.
Disegno di Legge "Disposizioni per l'attuazione dell'Autonomia differenziata a Statuto Ordinario", 2 febbraio 2023.
Emanuele F. Vecchi G. (2015) Italy's Growth and Decline, 1861-2011.The Journal of Interdisciplinary History 45 (4): 507-548.
Graziani, A. (1998). Lo sviluppo dell'economia italiana: dalla ricostruzione alla moneta europea. Bollati Boringhieri.
Istat (2023) Migrazioni interne e internazionali della popolazione residente | Anno 2021, Roma
Viesti G. (2023), L'autonomia differenziata non è una questione regionale Etica ed Economia, 186/2023.