Storia


Alfonso Tortora

‘Martiri’ senza santi e senza ossa. Il caso dei Valdesi del tardo Medioevo e della prima età moderna

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1. Nel 1909 vedeva la luce ad Edimburgo la seconda edizione di un opuscoletto dedicato alla storia dei Valdesi a firma del reverendo presbiteriano James Gibson. L'opuscoletto, la cui prima edizione era apparsa sempre ad Edimburgo nel 1905, rientrava tra le attività editoriali del presbiteriano Gibson e, più precisamente, nella sua attività di Editor of «A voice from Italy»,  un giornalino di corrispondenza tra i presbiteriani riuniti nella «Religious Society Scotland» e la «Chiesa Cristiana Libera in Italia», una corrente dell'Evangelismo italiano con struttura a modello presbiteriano, quindi affine alla organizzazione Valdese del tempo. Il carattere espressamente apologetico dell'operetta,  avente lo scopo di esaltare il ruolo dei Valdesi nella storia, si coglie fin dalla dedica, che risuona così:

«The object of the present booklet is to keep alive the interest of God's children in this ancient people, and to stir them up to help by their prayers  and gifts in that work for wich the Waldenses have doubtless been so remarkably preserved, the evangelisation of Italy».

Sull'aspetto apologetico di questo testo non vale la pena soffermarsi qui e ciò a motivo del fatto che questo lato dello scritto del presbiteriano Gibson non toglie nulla alla qualità dell'operetta. Quello su cui, invece, vale la pena soffermarsi sono alcune delle ragioni, che sembrano animare le intenzioni del reverendo Gibson. La prima emerge a chiare lettere dalla dedica dell'opuscoletto: trasferire ai giovani la memoria storica dei Valdesi e, soprattutto, di illustrarne la funzione svolta nell'importante processo di evangelizzazione italiana nel corso della storia. Un secondo motivo, che appare costituire, poi, il filo conduttore del libriccino, ci risulta ancora più importante: far emergere le basi su cui la storia dei Valdesi si era, nel tempo e nello spazio, affermata come  storia di martiri ed eroi; pertanto, il martirio e l'eroicità dei comportamenti adottati dai valdesi per mostrare la veridicità di una fede legata all'opera salvifica del Redentore, costituivano i tratti salienti della vicenda storica valdese. Si trattava di una base ovvia, a dire del Gibson, ma decisamente rimossa sul piano della coscienza e della conoscenza storica e che ora riaffiorava in superficie e proprio in Europa, grazie all'opera dei «Risvegliati» e al loro impegno diffuso sul piano della evangelizzazione delle masse. In questo modo il reverendo presbiteriano sollecitava ai giovani membri della «Religious Society Scotland» un rinnovato interesse per il posto da conferire ai Valdesi nella storia. In definitiva, il libriccino dedicato dal Gibson alla vicenda storica dei Valdesi appariva propizia per ricordare i tanti martiri e i tanti eroi, senza i quali il «popolo della Bibbia» non avrebbe avuto nessuna possibilità di affermare la sua «presenza» nella storia . Per il presbiteriano Gibson, dunque, era giunto il tempo, in cui i Valdesi si potevano presentare in lunghi e dettagliati elenchi, da affidare «to a stone slab may», come martiri e come «soldati» di Cristo. La loro vita si era in non pochi casi svolta anche sotto l'egida di una certa clandestinità, ma mai sotto il segno del ripudio e della conversione dalla vera alla falsa  fede in Cristo. Preferibilmente, per Gibson a vantaggio dei valdesi restava una inconfutabile e documentata evidenza sul piano storico: cioè, all'occorrenza, essi avevano saputo mostrare la propria fedeltà al Cristo e ai suoi apostoli pur in presenza delle molteplici coercizioni operate nei loro riguardi dalla Chiesa romana; in tal modo essi avevano testimoniato, con il sacrificio della propria vita immolata sull'altare della fides, la continuità della apostolicità della vera chiesa voluta da Cristo. E tutto ciò costituiva per il presbiteriano scozzese il tratto distintivo dell'essere Valdese nella storia.

 

2. Quando il reverendo presbiteriano Gibson scriveva, si era nel 1909. Sotto un profilo rigorosamente storiografico, con esplicito riferimento alla storia dei valdesi, si era ancora molto lontani dal conferire al fondatore del movimento valdese, all'epoca indicato semplicemente come Pietro Valdo mercante di Lione, una veridicità storica e ciò non soltanto nell'ottica ecclesiastica. A modificare questo punto di vista, però, provvederà, ma molto tempo dopo il 1909, proprio un uomo di chiesa, il domenicano Antoine Dondaine. Attraverso meticolose  ricerche condotte negli archivi spagnoli, Dondaine scopriva e pubblicava nel 1946 la professione di fede cattolica rilasciata da Valdesius nelle mani del Sinodo regionale di Lione nel 1180; in questo modo il frate predicatore conferiva  agli occhi del mondo un minimo di legittimazione storica   all'eretico di Lione. Lo stesso Valdesius, dunque, quando Gibson scriveva il suo opuscoletto ai primi del Novecento appariva, sul piano storico, ancora saldamente legato ad una identità mitica, certamente non agiografica, ma comunque privo di una qualche traccia fisiognomica. Ma i tempi stavano mutando. Nella prima decade del Novecento si era, dunque, certamente più vicini ad una lettura storica più veritiera del movimento valdese e del suo stesso fondatore e ciò per effetto delle ricerche che il pastore e professore di storia ecclesiastica e di teologia pratica alla Facoltà valdese di Teologia di Firenze Emilio Comba, tra la fine dell'800 e l'inizio del ‘900, aveva condotto sulla storia e sulla storiografia dedicata ai valdesi. Si trattava di ricerche svolte in numerosi archivi europei, tendenti al ritrovamento di carte inedite o, più accortamente, alla rilettura di documenti già noti, a volte tendenzialmente viziati da criteri apologetici o altro, su cui Comba poneva attenzione al solo fine di  offrire una nuova, quindi meno fantasiosa, lettura critica della storia dei Valdesi medievali. Inoltre, tra gli scopi perseguiti dal Comba, dichiarati più volte sulle pagine della «Rivista cristiana», mensile fondato proprio dal teologo e storico valdese nel gennaio del 1873, muovendosi sulla falsa riga della parigina «Révue Chrétienne», vi era quello di «elevarsi al di sopra di ogni particolarismo e settarismo»: motivazione, questa, in cui dovevano trovare una precisa collocazione storica, ovvero corporea, i tanti martiri e i tanti eroi, di cui la storia valdese doveva, ora, mostrasi fiera.

Accanto alle intenzioni guidate da un avvertito impulso evangelico, nelle ricerche del Comba facevano capolino, sul piano culturale, anche precise istanze sociali, da intendersi anche come naturali proiezioni politiche della sua epoca. La «Rivista cristiana» nasceva negli anni Settanta dell'Ottocento, epoca in cui vi era stata la liberazione di Roma, che aveva portato a compimento il processo di unità nazionale. Si era, dunque, in una fase in cui gli evangelici scorgevano in questo succedersi di avvenimenti un certo segno dei tempi, quasi un presupposto affinché, finalmente, l'Italia potesse liberarsi dalla soggezione del Papato, rimosso dalla sua sede storica da un'azione condotta non da garibaldini, ossia da forze irregolari, ma da legittimi rappresentanti della nazione. I tempi preludevano alla possibilità di nuovi rapporti tra Stato e Chiesa e, pertanto, il fondatore della «Rivista cristiana» ed i suoi collaboratori potevano dichiararsi «bramosi di dare alla nostra impresa un indirizzo cristiano e nazionale» e di offrire a tutti la possibilità di aprire «una finestra sull'Europa», da cui far entrare «un soffio abbastanza vivace di modernità». Pertanto largo spazio veniva rivolto alla storia religiosa, in particolare alla storia valdese e a quella della Riforma italiana e si apriva così un importante canale di contatto tra due storie, non solo italiane, ma europee, in cui si ritrovavano a confronto, forse per la prima volta con rinnovata e più matura coscienza nella storia moderna, anche due modelli di martiri, entrambi cristiani, ma gli uni legati alla «follia della Croce», gli altri alla follia della Patria. Vittime della Chiesa, i primi; vittime dell'idea di Nazione, i secondi, ma entrambi, ora, si ritrovavano legati per il tramite di una nuova, unica idea, sorta dalle ceneri del Risorgimento: quella di cristianesimo sociale, al cui centro si poneva l'individuo. I due modelli di martiri richiedevano, però, due differenti sistemazioni storiche.

Prima di proseguire questo discorso, mi sembra interessante ricordare che le prime raffigurazioni marmoree e pittoriche di Valdo, quindi le prime rappresentazioni iconografiche dell'ipotizzato fondatore del movimento valdese, siano da datarsi, nei paesi riformati della Germania, tra il 1878 e il 1908; prima di tale data, ci informano gli studi condotti dall'olandese Albert De Lange su questo specifico aspetto della storia valdese, non troviamo alcuna raffigurazione di Valdesius. Ma non è forse questo il periodo, si chiede De Lange, in cui cominciano a prendere corpo, in diversi spazi cittadini europei, le rappresentazioni marmoree degli uomini illustri del passato?

 

3. Nel 1909 il teologo valdese Teofilo Gay pubblicava in Torre Pellice il manoscritto che il napoletano Scipione Lentolo, ex frate carmelitano poi passato alla Riforma, aveva dedicato all'Historia delle grandi e crudeli persecuzioni fatte ai tempi nostri in Provenza, Calabria e Piemonte contro il popolo che chiamano valdese e delle gran cose operate dal signore in loro aiuto e favore. Il ritrovamento di questo manoscritto nella Biblioteca di Berna era stato effettuato qualche anno prima da Emilio Comba, il quale ne descriveva il contenuto, accanto ad altra documentazione ritrovata nella medesima Biblioteca, in un articolo apparso sul «Bulletin de la Société d'Histoire Vaudoise» del novembre 1897. La segnalazione del Comba, divisa in sezioni, si soffermava, tra l'altro, sul valore storico da conferire al concetto di martire valdese e al ruolo che tale concetto aveva svolto nella storiografia valdese, soffermandosi con particolare attenzione sul sacrificio del  cuneese Giovan Luigi Pasquale, consumatosi tra i valdesi di Calabria nel più generale quadro storico delle persecuzioni cominciate nel 1559 e dei conseguenti eccidi del 1561. In tal modo il Comba sottolineava,  tra l'altro, il martirio di un uomo e, perché ad esso legato, la santità di un popolo, quello dei valdesi dell'alta Calabria tirrenica, appunto.

Da soldato del principe Emanuele Filiberto di Savoia, Pascale era passato a soldato di Cristo attraverso una conversione lenta, ma meditata. «[...] Discepolo dei grandi Riformati- scriveva Arturo Muston in un «saggio storico del 1892 tutto dedicato al Pascale»-, colto, istruito, maestro nell'arte del dire, si sentiva spinto verso la pubblica predicazione, la controversia ardita, l'aperta polemica [...]». Tutte onorate qualità, queste, che il cuneese ben dispiegava con crescente ardore presso le comunità valdesi del Mezzogiorno d'Italia, a cui era stato destinato come predicatore dalla venerabile compagnia dei pastori di Ginevra.

«[...] Si faceva tutto a tutti - proseguiva Muston - alla Guardia, spezzando il pane della Parola agli affamati di giustizia, fasciando le piaghe dei cuori feriti, animando i timidi e fortificando i deboli».

Del  sacrificio di «ce saint personnage», così si esprimeva nel 1563 il poligrafo ginevrino Jean Crispin nella redazione della Cinquieme partie du recueil des martyrs, restavano le lettere, che  pure il Lentolo e il Crespin, anche se il primo in misura più ampia, avevano raccolto e ognuno a suo modo poi divulgato. Proprio sulla base delle lettere riportate dal Lentolo e dal Crespin il Comba giungeva a considerare le stesse come il corpo materiale del Pascale, mentre al loro contenuto attribuiva la valenza tutta teologica e spirituale della estrema coerenza alla vocazione al martirio. Ed il carattere dell'eroicità valdese per la fede costituiva per il Comba, in sintonia con la propria matrice «risvegliata», uno dei caratteri nodali dell'essere valdese. In questo modo, però, le parole di Emilio Comba ci riportano al presbiteriano Gibson, il quale aveva ben letto ed utilizzato nella sua sintesi storica sui Valdesi, proprio gli studi di Emilio Comba. Ma  il tema dei «santi personaggi valdesi» era molto più risalente al Comba; esso aveva i suoi natali nel secondo ‘500.

 

4. Nella tradizionale storia ecclesiastica, ripresa in chiave controversistica da Girolamo Muzio (meglio noto come Mutius Justinopolitanus), attraverso cui passava la vicenda dei seguaci di Valdesio, eretici fra gli altri, si intravedeva una linea di demarcazione formale tra storia percepibile, quella generalmente trasmessa dallo spaccato tracciato dagli apologeti cattolici e storia impercepibile, ovviamente ricostruita dagli storici di parte opposta (si pensi alle «Centurie» capeggiate da Flacio Illirico), all'interno della quale rimaneva disponibile un ampio spazio dove poter collocare, a livello emotivo, qualunque grado di fatica, di «sofferenza» a carico del dissenso evangelico-religioso. La rappresentazione e la divulgazione di questa «sofferenza» era stato l'obiettivo mirato e realizzato, seppure in diversi momenti e con differenti modalità descrittive, da Flacio Illirico e da Jean Crispin, le cui rispettive opere avevano visto la luce, rispettivamente, a Ginevra a partire dal 1554 (Crespin: Histoire des martyrs[...]) e a Basilea a partire dal 1556 (Flacio: Catalogus testium [...]). In entrambi i personaggi la «sofferenza» si manteneva implicita nella stessa ricostruzione della storia del dissenso religioso basso medievale, restando la prova fondamentale, agli occhi dei riformati di ogni ordine e grado, di una realtà, dove la testimonianza umana del martirio serviva a descrivere e a tramandare, con precisi criteri di decifrazione e di riproduzione, il senso della vera traditio cristiana: attraverso questi autori si prospettava ai veri credenti un itinerario esegetico-letterario del puro cristianesimo colto nella sua reale appartenenza a Cristo, martire supremo tra i martiri, per la salute dell'uomo e la «réconciliation - scriveva Crespin nella primissima redazione della già richiamata Cinquieme partie - a  l'Église à son Dieu». Contro questa posizione, in particolare contro Flacio Illirico e i suoi collaboratori, era sceso in campo, tra gli altri, Mutius Justinopolitanus, autore nel 1570 di una Historia sacra apparsa in Venezia nel 1570. In quest'opera, dedicata al pontefice Pio V, il Muzio si proponeva di non dover polemizzare con i luterani, affatto meritevoli d'attenzione, ma di parlare «a quelli veramente che per le altrui fallacia, et per la loro ignoranza ingannati si ritrovano [...] mostrando loro quanto diversa sia stata la vita et la doctrina de' Santi Apostoli, de' Santi Martiri, de' Santi Pontefici».

In realtà, tutta l'opera del Muzio si proponeva di rispondere per le rime agli attacchi dei Centurioni, soprattutto dove, precisava egli «la qualità del loro scrivere sforzatamente mi ha trasviato dal mio camminino», soffermandosi puntigliosamente sul fatto che quegli scrittori tedeschi, a suo giudizio, non avevano scritto una storia:

«[...] perciocché essendo cosa propria di historia il narrare le cose passate [...] questa è la minima cosa, che da loro si faccia. Et se scrivono qualche historia, si stendono in quella degli Hebrei , quella de' Christiani a pena la toccano; anzi rifiutano tutti gli scrittori, che hanno trattato de' Martiri, perciocché non vogliono consentire alla venerazione de' Santi».

Nelle parole di Mutius si coglie un sapore apertamente apologetico; ma ciò, è noto, rientrava nella polemica religiosa e, per molti aspetti, anche politica del tempo. Ma proprio in quel momento storico un altro personaggio affrontava e sviluppava un tema storico, all'interno del quale si concentravano vecchie e nuove questioni relative alla santità ed al martirio di un intero popolo: i valdesi, che erano passati, sul piano confessionale, da «Poveri di lione» a Riformati.

 

5. Nel tentativo di cogliere costruttivamente il processo storico da cui venivano i valdesi ed i motivi degli «andamenti et successi» dello stesso movimento e delle sue conseguenti dispersioni, il pinerolese Gerolamo Miolo, ex frate predicatore successivamente convertitosi al calvinismo e autore nel 1583 di una Historia breve e vera de gl'affari de i Valdesi delle Valli,  procedeva ad un'attenta selezione delle fonti di cui disponeva. L'operazione appariva legata al fatto che il Pinerolese sapeva di avere di fronte a sé un mercato culturale protestante avido di conoscenze, parzialmente nuovo sotto il profilo intellettuale e variamente stratificato: un mercato che poneva molta attenzione alla fase insieme vitale e tumultuosa del duplice patrimonio del passato e del presente valdese. Capace tuttavia di saper mediare tra l'antico ordine sociale e culturale chiuso del valdismo con le aggregazioni estesissime prodotte dall'ordine aperto della nuova cultura riformata, quest'ultima in rapido diffondersi nell'Europa della seconda metà del Cinquecento, l'autore dell'Historia breve creava una precisa mediazione tra le fonti che gli illustravano la storia del vecchio mondo valdese a cui aveva probabilmente libero accesso e l'ideologia manifestata dalla più accreditata  storiografia protestante di quegli anni. Nel racconto di Miolo si rifletteva una serie di temi ripresi sia dal luterano Flacius Illyricus, estraendo citazioni dal suo Catalogus testium veritatis, sia dall'editore calvinista, grande amico di Théodore de Bèze, Jean Crespin, autore di una fortunatissima, già ricordata Histoire des martyrs apparsa nel 1554 a Ginevra. Parafrasando i versanti pedagogici dell'ortodossia luterana, il Miolo definiva in termini stilizzati la nascita e la storia del movimento valdese, secondo il grado e le forme, però, prescelti dalla storiografia riformata. La caratteristica di questa storiografia, senz'altro apologetica e polemista nei riguardi dei cattolici, risiedeva nel saper bene esibire la funzione fondamentale svolta dalla Riforma raffigurata competitivamente attraverso una equilibrata e sapiente miscela di conoscenze storiche, politiche, retoriche, diplomatiche, filologiche ed infine teologiche. Il tutto, poi, era disposto in maniera da fondersi in una grande pluralità di voci compatte per la relativa autosufficienza che la Riforma stessa mostrava nei confronti di tutte le tradizioni esterne ad essa o ideologicamente distanti da essa, tra cui primeggiava quella cattolica.

A ciò si aggiunga che intorno alla metà del secondo Cinquecento «novità e tradizione si stavano fondendo nel concetto di "popolo valdese"» e ciò si realizza, come oggi ci è meglio noto, su precise istanze degli stessi valdesi (lettere, suppliche, ecc.) e per la mediazione culturale svolta dal già ricordato Scipione Lentolo, di Étienne Noël, dello stesso Gerolamo Miolo, di cui  sappiamo che rivestirono un autorevole ruolo pastorale nell'ambito delle nascenti parrocchie valdesi delle Valli a partire dal 1555, senza dimenticare il più volte richiamato Jean Crespin. Ma fu Miolo, da quanto ci è dato finora conoscere, che tra gli altri si assunse per primo l'arduo compito di intervenire, cercando un qualche aggiustamento, sulla comprensione di quel giudizio di valore che, dopo Chanforan, all'indomani cioè di uno degli incontri più importanti che i valdesi alpini ebbero con la Riforma di matrice elvetico-strasburghese nel 1532 nella Valle d'Angrogna, collocava in basso, a puro motivo di martirologio, la posizione storica dei valdesi rispetto ad una proclamazione di superiorità storicamente concreta dei protestanti. Martiri da riabilitare, dunque, per Gerolamo Miolo i valdesi agli occhi dei riformati? Nel periodo più maturo dell'«assolutismo» religioso calvinista emergeva nella storia del pinerolese Gerolamo ciò che si mostrava come la salvaguardia del culmine di una vicenda unitaria, la cui lettura, certo generosa, ma ovviamente apologetica, poneva in risalto la totale «santità» del movimento valdese delle Alpi, «il quale è stato eletto da Dio - scriveva appunto Miolo - in questi ultimi tempi come le primitie di tutte le Chiese de l'Europa per conservare la pura dottrina». Si trattava pur sempre di una vicenda umana e di fede, a dire del Miolo, che si era retta su una serie notevole di «persecutati per la Religione Valdese», il cui elenco l'ex Predicatore riportava dettagliatamente al centro del suo racconto, affrettandosi, però a precisare che:

«Essi erano perseguitati solamente per non credere alla Messa al Papa, et a sue altre superstizioni, volendo essi solamente credere et vivere secondo che commanda la parola di Dio».

Nello sguardo di Miolo e nella sua capacità di saper coniugare la propria contemporaneità con le vicende intellettuali, religiose, umani e materiali del movimento valdese medievale, la forza dell'epicentro Lutero, prima, e del sistematizzatore Calvino, dopo, veniva confrontata  con la tensione unitaria espressa dagli articoli Valdensium, che pur venivano adattati, per dir così, al nuovo corso della storia avviato dal protestantesimo. In questa centralità non c'era nessun posto per le comunità periferiche e ciò per l'enorme sovraccarico di ragioni e di sanzioni ideali che il processo della Riforma aveva avviato nei confronti di chi si era designato erede del vero messaggio evangelico senza, però, viverlo in solare evidenza: l'ombra del nicodemismo celava la realtà storicamente provata della verace fides valdese. Ma di ciò doveva dare ampia testimonianza, e proprio nel Mezzogiorno d'Italia, l'altra sponda del movimento valdese medievale, attraverso il martirio del «popolo santo», quello dell'alta Calabria tirrenica e del suo condottiero: Giovan Luigi Pascale. Di tutto questo si dette carico il napoletano Scipione Lentolo, come ben ricordava Teofilo Gay nell'introduzione alla'Historia delle grandi e crudeli persecuzioni  editata, non ci sembra un caso, lo stesso anno in cui vedeva la luce la seconda edizione del volumetto del presbiteriano James Gibson.

 

6. Proprio dal Mezzogiorno d'Italia, del resto, risaliva la china il contemporaneo protestantesimo italiano. Durante i primi decenni del secolo XX l'esperienza evangelica fu prevalentemente stimolata in Italia da un duplice processo storico: il primo, proveniva dalla ottocentesca rivoluzione garibaldina, sulle cui tracce pure il protestantesimo aveva trovato una espansione degna di nota in pochi anni, prolungandosi, con gli adattamenti del caso, fino all'alba del secolo successivo. Il secondo si legava, invece, a quella più generale tendenza, abbastanza diffusa negli ambienti contadini del Mezzogiorno d'Italia e della Sicilia, al rifiuto del cattolicesimo tradizionale e delle forme di devozione ancestrali, privilegiando, per converso, alcune delle forme del biblicismo protestante.

Questo secondo processo storico fu fortemente incoraggiato dalle nuove esperienze offerte ai contadini meridionali e siciliani dall'emigrazione negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone. Inoltre, ricordiamo che all'indomani del «Risveglio» evangelico degli inizi dell'Ottocento e della fase risorgimentale, una parte dei persuasi italiani al «Risveglio» ingrossò le fila dell'antica Chiesa valdese, che all'epoca, ciò fino alla prima metà del secolo scorso, si articolava in due diverse amministrazioni, la Tavola valdese ed il Comitato di evangelizzazione, entrambe convergenti nel Sinodo valdese. Coloro che non entrarono nell'alveo dei valdesi, per converso, dettero vita a Chiese Evangeliche libere e, a partire dal 1870, a due distinte diramazioni della stessa: una corrente rigorista, strutturata su basi congregazionaliste, ed una corrente con struttura a carattere presbiteriano, quindi più affine alla organizzazione Valdese, da cui ne derivò la «Chiesa Cristiana Libera in Italia». Dai rigoristi, invece, per i contatti che essi mantennero fin dagli inizi con i «Plymouth Brethren» inglesi e per l'acceso pietismo che li caratterizzava ne derivò la «Chiesa Cristiana dei Fratelli». Sul piano della distribuzione geografica dell'Evangelismo sul territorio italiano nel corso dell'Ottocento, comprese le aree della Sicilia occidentale e della Sicilia orientale, i rigoristi si mostrarono più idonei ad una penetrazione negli ambienti rurali; la Chiesa Cristiana Libera, invece, si diffuse maggiormente nell'ambiente urbano e ciò a motivo della vecchia radice mazziniana e garibaldina, dunque anticlericale, presente in questa comunità evangelica, che veniva a legarsi alle istanze politiche, economiche e sociali avanzate dalla piccola borghesia radicale o repubblicana delle città. Coll'eclissarsi, però, dell'era garibaldina veniva a trasformarsi in qualche modo anche  la Chiesa Cristiana Libera, che assumeva al suo interno un carattere decisamente più nazionale nel contesto del protestantesimo italiano, accettando così la denominazione di Chiesa Evangelica Italiana. Diverse componenti, però, della Chiesa Evangelica Italiana nel 1895 passarono progressivamente nelle comunità valdesi, decretandone lo scioglimento.

A seguito della presenza delle chiese metodiste, di provenienza inglese o americana, e delle missioni battiste, anch'esse di derivazione inglese o americana, a partire dal 1905 gruppi di fuoriusciti dalla Chiesa Evangelica Italiana confluirono nei metodisti, wesleyani e episcopali, riversando in questi ambienti alcuni degli originari motivi «anticlericali e radical-massonici di stampo garibaldino».

È in questa cornice storica che vedeva la luce nel 1851 a Parigi l'opera del valdese, teologo e storico dei valdesi Alexis Muston dall'emblematico titolo l'Israël des Alpes. Histoire du Piémont et de leurs colonies. In quest'opera, che per i tempi in cui vide la luce si poneva certamente innovativa sia sotto il profilo metodologico, sia sotto l'aspetto documentario, ritroviamo due capitoli «qui traitent des martyrs vaudoise». Attingendo dalle note opere cinquecentesche e seicentesche del Crespin, del Perrin, del Gillio, del Léger  e da un'abbondante, inedita documentazione estratta dai più disparati archivi europei, Muston riportava un dettagliato elenco di martiri, soffermandosi anche sul Pascale, esaltandone l'eroico martirio. Mancava, però, nella sua pur ampia ricostruzione storica una precisa esposizione delle stragi dei valdesi di Calabria. Ma Muston era animato da  propositi evangelici e, pertanto, i suoi obiettivi erano orientati verso fini più religiosi che politici. Lo stesso deve dirsi per il già citato Emilio Comba e il metodista, poi valdese, Teofilo Gay, a cui pure si deve una Histoire des Vaudois riscritta nel 1912 alla luce di più aggiornate ricerche sull'argomento, nella quale pure troviamo un nutrito elenco di martiri valdesi dal basso Medioevo al 1689. Dobbiamo al liberale Filippo De Boni, invece, con un libro del 1864 dedicato alla Inquisizione e i Calabro-Valdesi il primo, vero interesse per le vicende di sangue che avevano investito le popolazioni di Calabria, ora unite sotto un'unica bandiera. Erano, questi, gli anni in cui la soluzione sabauda della questione italiana si era imposta su quella proposta dalla corrente democratico-repubblicana, nelle cui fila militava il De Boni nel nuovo Parlamento italiano. Inoltre, erano questi gli anni in cui ferma appariva la volontà del governo italiano di giungere all'annessione di Roma e di farne la capitale del Regno d'Italia; progetto a cui, come è noto, si opponeva papa Pio IX, il quale mirava alla conservazione della propria sovranità sulla città. Questa condizione politica, dunque, caratterizzata dalla mancanza di un movimento nazionale di massa, che di fatto non poneva all'Italia una valida alternativa rispetto a quella propugnata dal Cavour e dai suoi alleati, ossia l'ascesa al trono del Regno d'Italia di Vittorio Emanuele II, accanto alla pur sofferta e dibattuta «questione romana», aveva generato nella coscienza della stragrande maggioranza della popolazione una certa forma di estraneità ai richiami patriottici, con la sola eccezione, come sappiamo, dei picciotti siciliani. Questo stato di cose, allora, aveva indotto il De Boni ad occuparsi dei Calabro-Valdesi, ma ciò sempre nell'ottica di una dichiarata polemica politica nei riguardi della Chiesa cattolica, alla quale, nel 1850, aveva dedicato due scritti: Il  Papato e le Riforme, contenente un proclama del Mazzini; Il'Sant'Ufficio, in cui descriveva gli effetti nefasti arrecati da questa istituzione sulla ragione e sulla morale degli italiani. Ma è nell'operetta dedicata ai Calabro-Valdesi, una sorta di naturale prosecuzione del discorso già avviato dal De Boni con il Sant'Ufficio, che si coglie, per la prima volta, il nuovo valore ed il rinnovato senso storico che il martirio dei valdesi di Calabria cominciavano ad occupare nella storia d'Italia. Vale la pena lasciare la parola al De Boni, il quale così si rivolgeva al lettore:

«Giacché mi si offre occasione, vorrai concedermi ch'io t'apra l'animo mio. Mentre non pochi italiani, alti e bassi, nel parlamento e fuori del parlamento, dai pulpiti e sui giornali, tra la falange governativa ed in quella non meno numerosa degli sciocchi, degli aspiranti e degli avidi, fecondano tristi germi messi da improvvide leggi  per dividere provincia da provincia, le popolazioni settentrionali da quelle del mezzogiorno e distruggere la miracolosa fratellanza del 1860, a me sembra pio e cittadino obligo ricordare almeno la incancellabile fratellanza del sangue e delle sciagure. Gli alpigiani d'Angrogna, a modo d'esempio, e molti de' Calabresi che abitano il territorio di Paola ebbero padri comuni e comuni scempii da un comune inimico, la chiesa di Roma. Serriamo adunque le file nazionali in nome de' nostri martirii, studiando i modi ad evitarne altri».

 

7. Colui che accolse meglio e più degli altri l'invito del De Boni a studiare i «nostri martiri» all'indomani della raggiunta unità d'Italia, fu il medico Irpino Luigi Amabile. Sul piano storico ci sono ben noti i problemi che con l'avvento dell'unità d'Italia il Mezzogiorno e la sua capitale si trovarono ad affrontare sotto i diversi aspetti politici, sociali e culturali. Volendoci soffermare qui in estrema sintesi sui alcuni temi culturali del periodo,  possiamo rilevare come nel trentennio 1860-1890 circa si fosse definita una nuova fisionomia culturale, sociale e politica nella vecchia capitale del Mezzogiorno d'Italia mediante l'osservazione del serrato confronto che si era aperto tra hegeliani e positivisti: cioè tra coloro che, come il patologo Salvatore Tommasi, insistevano sul carattere materiale del fatto in sé e sulla ricezione «positiva» dell'esperienza concreta operata sulla fisicità della materia e quelli che, come lo Spaventa, impegnati in una sorta di forzata mediazione tra idealismo, positivismo e naturalismo, tendevano a precisare  - anticipando molti aspetti del più attuale epistemologismo confutativo - come il limite del pensiero e dell'esperienza dipenda tanto dalle condizioni del soggetto, quanto da quelle del procedere storico. Proprio nell'ambito di questo dibattito sarebbe possibile - ma ciò non è possibile in questa sede - individuare qualche rilevante apporto volto a tentare possibili mediazioni fra la dialettica hegeliana e la scienza moderna nell'opera medico-scientifica e critico-storiografica del clinico chirurgo Luigi Amabile. Ai nostri fini basti qui rilevare il contributo che Amabile offrì a questo dibattito attraverso le parole che il filosofo Francesco Fiorentino utilizzo per illustrare le ricerche dell'Amabile sul Campanella per sottolinearne il metodo tassonomico. Il filosofo calabrese notava che «quando sono arricchite [le indagini storiche] di tante e così riposte notizie, non servono soltanto ad illustrare la vita di un uomo, ma gittano un vivo sprazzo di luce su tutto quanto un secolo». E poco dopo, volendo l'allievo di Spaventa proprio precisare l'evidente novità riscontrabile sia nella forma, sia nella sostanza delle ricerche storiche svolte dall'Amabile, che aveva ai suoi occhi confermato il superamento della semplice visione settecentesca della ricerca storica erudita, annotava:

 

«La storia, come si faceva prima, non ci soddisfa più, e quel cumulo di citazioni, e di documenti che a prima vista sembra debba inaridire il racconto, lo rende anzi più istruttivo, più svariato, e più aggradevole. Del resto - aggiungeva Fiorentino - chi non si diverte, legga bozzetti: gli autori, come l'Amabile, non scrivono per diletto degli annoiati, o delle signorine isteriche, o di quelli che leggono soltanto per ammazzare il tempo».

E l'Amabile non scriveva per ammazzare il tempo, ma - come egli spesso ripeteva - per mutare la prospettiva di condotta agl'italiani, a coloro i quali, cioè, egli rimproverava un certo disagio sociale, una certa ignoranza e una buona dose di pigrizia mentale. Ciò che l'Amabile esprimeva con queste poche, ma interessanti parole sul carattere degl'italiani, costituiva un'esigenza diffusa nell'età postunitaria, quella del rinnovo del popolo italiano. L'idea, che era penetrata in Italia dalla Francia ad opera del giacobinismo e più specificamente dei patrioti che avevano vissuto l'esperienza delle repubbliche napoleoniche, progressivamente si era fatta strada nella formazione politica e sociale degli uomini del Risorgimento, di cui pure Luigi Amabile costituiva una viva espressione. La riforma della «pianta uomo», motivo che trovava il suo ispiratore in Rousseau e la sua affermazione nei turbinii della rivoluzione francese, individuava nel «governo uno strumento di formazione del popolo» nuovo. Occorreva, dunque, una profonda educazione civile e politica degli italiani, che contribuisse al miglioramento delle generazioni cittadine. In quest'ottica possiamo leggere gli studi storici dedicati dall'Amabile al Campanella, al Pignatelli, al «Sant'Ufficio dell'Inquisizione in Napoli» ed altro ancora, scritti tutti ruotanti intorno al grave problema dell'educazione di una coscienza nazionale, che sotto la penna dell'Irpino si trasformerà, attraverso varie forme, in coscienzioso adeguamento delle idee alle esigenze dei nuovi tempi. Pur non trattandosi la necessità di creare uomini nuovi per una libera repubblica, ma molto più arditamente di formare coscienze per liberare l'Italia dai limiti di una precaria conoscenza della sua stessa storia, torneranno utilissimi la durezza del carattere e l'orgoglio dell'Amabile come strumenti di educazione del nuovo uomo italiano. Lungo questo nuovo corso della storia d'Italia si espresse l'attività di ricerca di Luigi Amabile, sul cui cammino egli trovò, studiando il Sant'Officio dell'Inquisizione in Napoli le stragi dei valdesi di Calabria: un popolo di martiri senza ossa e senza santi, ma di certo un popolo, parte integrante della storia d'Italia.



· Questa relazione, che viene qui pubblicata senza le note, è stata presentata al Seminario: «Ossa in cerca di santi; santi in cerca di ossa», Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Istituto per la Storia della Società e dello Stato Veneziano, 7 - 9 maggio 2012. Essa vedrà la luce, con note critiche ed ampliamenti vari, in un volume in corso di stampa, dal titolo Valdismo Mediterraneo. Aspetti storici e problemi storiografici, presso la Viva Liber Edizioni.