Storia
Alfonso Tortora
La Chiesa salernitana è sempre stata, sin dai primi secoli dell'Alto Medioevo, un importante centro di spiritualità, di cultura e di autorità politica. Le più antiche istituzioni ecclesiastiche, depositarie di fede e di saperi, appartenevano all'ordine monastico benedettino, cioè il monastero di San Massimo e quello di San Benedetto, entrambi in stretto contatto con l'abbazia di Cava e con l'illustre cenobio di Montecassino; quest'ultimo solerte custode e divulgatore della scienza e della filosofia greco-ellenistica. Tali continui scambi crearono le premesse per la nascita della Scuola Medica e per attribuire alla città un ruolo storico di particolare rilevanza, sotto la guida dei principi longobardi. Essi fondarono varie chiese e monasteri, cui fecero molte donazioni di beni immobili, rivelandosi ben generosi, come attestano le pagine di Paolo Diacono e dell'anonimo autore del Chronicon Salernitanum. Ma la munificenza dei "signori" longobardi si manifestò in speciale modo nei riguardi della Chiesa madre, la cosiddetta Ecclesia Maior, altro faro di vita religiosa, destinata a diventare una grande basilica, avendo accolto le spoglie del principe Arechi e dei suoi figli, nonché quelle ancor più prestigiose dell'apostolo san Matteo, dopo la traslazione del corpo dell'Evangelista.
Le continue concessioni alla Chiesa metropolita vanno lette non soltanto come espressione di fedele devozione, ma soprattutto come doveroso ossequio ai suoi vescovi. Si tratta di quei personaggi, questi ultimi, considerati di alto profilo morale e culturale, quasi tutti conoscitori della medicina e delle lettere, nonché abili diplomatici, che in campo politico svolgevano ruoli di primo piano e, all'occorrenza, potevano diventare alleati importanti e prestigiosi. I presuli salernitani si impegnarono a conciliare le mire espansionistiche degli imperatori sull'Italia meridionale con la politica dei Pontefici, inoltre evitarono non pochi scontri tra i Longobardi ed i Normanni, i nuovi conquistatori.
Appare opportuno ricordare l'arcivescovo Alfano, di famiglia longobarda, che studiò nella Scuola medica, vi fu maestro, ma poi, esortato dall'abate Desiderio di Montecassino, si fece benedettino e passò un lungo periodo nel monastero cassinese al fianco di personaggi quali Amato e Federico di Lorena, il futuro papa Stefano IX, promotore della riforma della Chiesa. Nominato capo della diocesi salernitana nel 1058, entrò in familiarità con il principe Gisulfo II, ma per la sua opera di mediazione fu molto stimato anche da Roberto il Guiscardo, che gli promise subito la costruzione di una nuova cattedrale. Alfano, dunque, si può considerare una delle più significative figure del tempo, profondo conoscitore delle scienze sacre e profane, scrisse di agiografia, di teologia, di medicina, ma i più famosi sono i suoi "carmi", ricchi di cultura classica.
Ugualmente molto erudito ed amante della scienza ippocratica, un altro prelato, Romualdo Guarna, esponente di una nobile famiglia salernitana, che lo indusse a frequentare la Scuola medica. Fu autore di un Chronicon, dove raccontò alcuni principali avvenimenti, di cui fu partecipe mediatore, spesso risoltisi a favore dei Normanni, i quali lo considerarono un prezioso consigliere, soprattutto il re Guglielmo II.
I meriti pastorali e diplomatici di coloro i quali guidarono la Chiesa salernitana accrebbero a dismisura il patrimonio di quest'ultima, costituito per lo più da beni fondiari. Esso comprendeva vasti terreni fuori le mura della città, lungo il fiume Irno, coltivati a grano ed a riso, varie masserie con vigneti ed agrumeti ubicate presso il fiume Picentino, alcuni latifondi situati nella "piana" compresa tra il fiume Tusciano e il Sele, zone fertili, irrigue, molto adatte alla coltura dei cereali, ugualmente feconde le terre presso Eboli ed altre località limitrofe. Ma l'abbondanza di frumento e la buona resa agricola dei possedimenti non erano gli unici aspetti rilevanti di tale patrimonio, in quanto anche sui fiumi ora richiamati la Mensa arcivescovile esercitava una serie di diritti e di prerogative, che assicuravano il totale controllo delle acque e delle risorse idriche, consentendo solo ai presuli la facoltà di realizzare mulini, gualchiere, macine etc. Per di più essi avevano ricevuto una vera e propria investitura feudale su due paesi, Olevano e Montecorvino, grazie alla munificenza del principe longobardo Gisulfo e del re normanno Guglielmo II.
Nel periodo medievale, dunque, gli arcivescovi salernitani erano considerati dei veri e propri feudatari, anzi esponenti della feudalità ecclesiastica, con esercizio di funzioni ben diverse da quelle pastorali e destinate ad aumentare. Infatti durante la dominazione sveva questi singolari baroni ricevettero un'altra importante giurisdizione, quella sulla fiera di San Matteo. È noto che la città di Salerno, inizialmente, non mostrò grande simpatia per la casa sveva: per l'insurrezione contro l'imperatrice Costanza, mentre soggiornava nel castello di Terracena, e per la resistenza opposta nel 1194 all'imperatore Enrico VI, sceso per la seconda volta in Italia meridionale per conquistarla, venne assediata e saccheggiata con particolare violenza dalle truppe germaniche, le quali avevano anche il compito di uccidere e di imprigionare i principali esponenti delle fazioni antitedesche, il cui capo era proprio un salernitano, Matteo d'Aiello, famoso consigliere dell'ultimo re normanno.
La vittoria di Enrico VI non mise fine al clima di stragi e di vendette; esemplare il fatto che i tre figli di Matteo d'Aiello, di cui il primo, Nicola, era arcivescovo di Salerno, vennero deportati in Germania per essere liberati solo dopo la morte dell'imperatore. Toccò a Federico II fare un gesto di distensione, confermando nella carica di arcivescovo di Salerno Niccolò d'Aiello e riconoscere alla Chiesa di San Matteo tutto il patrimonio e i benefici, di cui era in possesso. In effetti per il giovane sovrano, una volta ingaggiata la dura lotta contro il Papato, era di grande importanza avere dalla sua parte l'arcivescovo salernitano, sia per l'autorità politica e spirituale di un tale personaggio, sia perché poteva disporre a suo piacimento dell'importante castello di Olevano, ubicato in una posizione veramente strategica.
L'imperatore, inoltre, da uomo di cultura sempre desideroso di arricchire le sue conoscenze, cominciò ad interessarsi alla Scuola medica ed entrò in amicizia proprio con un medico salernitano, anche dello Studio, il quale, divenuto signore dell'isola di Procida per volere dello stesso Federico, fu ricordato sempre come Giovanni da Procida. Questo insigne studioso ricoprì per vari anni la carica di medico di corte, ma si guadagnò anche quella di gran Cancelliere, concessagli da re Manfredi, cui fu particolarmente legato. Sta di fatto che il figlio di Federico cercò di assecondare ogni desiderio del suo caro amico Giovanni, il quale, pensando di incrementare le attività commerciali e i traffici della sua Salerno, chiese l'istituzione di una fiera annuale, da tenersi nel mese di settembre, in onore di San Matteo. Manfredi non ebbe nulla in contrario a mettere in pratica un tale progetto, che venne realizzato, assieme con l'ampliamento del porto della città, in breve tempo e "sotto il patrocinio di San Matteo", queste le parole che si leggono nel famoso diploma del 1259.
Il rapido sviluppo delle "liberae nundinae" arrecò molti vantaggi alla città, che divenne il crocevia di traffici e di commerci in mano a mercanti regnicoli ed extraregnicoli, ma si rivelò di grande utilità anche per gli arcivescovi, che si videro aumentare di centinaia di ducati le entrate della Mensa. Infatti solo ad essi fu consentito di costruire nella "platea de Santo Laurentio", le zone dove si svolgeva questo "forum francum", una serie di "baracche seu pergule, apothheche, fondaci" etc., che venivano assegnati a mercanti i quali, dietro pagamento di un canone, li utilizzavano come deposito di merci o come banchi di vendita.
Altri rilevanti introiti derivavano alla Chiesa salernitana dal fatto che essa vantava il monopolio sulle acque fluviali dell'Irno, del Picentino e del Tusciano, cui si è accennato, impedendo a privati cittadini o ad istituzioni municipali la costruzione di mulini, gualchiere per la lavorazione dei panni, trappeti e macine per le olive. Gli impianti esistenti erano di proprietà della Mensa e funzionavano a pieno ritmo, perché tutti avevano bisogno di macinare le olive, così come gli artigiani dediti alla tessitura non potevano rinunciare a tecniche alimentate dalle acque.
Questa vasta serie di attribuzioni feudali, diritti proibitivi, concessioni e prerogative varie cominciò ad essere contestata sin dagli inizi del Cinquecento. I primi ad insorgere furono i comuni di Olevano e Montecorvino che, mettendo in discussione la liceità dei diritti feudali degli arcivescovi di Salerno sui due paesi e le relative acque fluviali che li attraversavano, volevano provvedere in maniera autonoma alla macinazione dei cereali e alla produzione dell'olio. Tali richieste, portate davanti ai giudici della Camera della Sommaria e del Consiglio Collaterale furono dibattute in vari processi di interminabile durata, che però finivano per respingere le istanze della municipalità e dei cittadini.
Anche lungo il corso del fiume Irno si incontravano mulini e macine, ma nel tratto finale del fiume, tra Mercato San Severino e Baronissi, Fratte, funzionavano varie gualchiere, segno di un certo dinamismo a livello artigianale e commerciale, favorito dai signori di Salerno, i principi Sanseverino, ai quali gli arcivescovi avevano dato in concessione alcuni impianti.
Con la fine dei Sanseverino, la Valle dell'Irno passò prima sotto il dominio dei Gonzaga, poi fu concessa in feudo ai principi di Avellino, i Caracciolo, che cominciarono a rivendicare molti diritti sulle acque del fiume, aprendo un contenzioso con la Mensa arcivescovile e la stessa città di Salerno, i cui artigiani erano costretti ad utilizzare le gualchiere dei Caracciolo. Numerosi i decreti, molte le previsioni e le sentenze della Camera della Sommaria, che raccontano i particolari di questo scontro giuridico.
Un'altra vicenda giudiziaria, che vide come protagonisti gli arcivescovi salernitani fu quella contro i duchi di Eboli, i Doria, che pretendevano di estendere la loro signoria feudale sulla cosidetta "piana" di San Vito al Sele, che apparteneva alla Mensa, ed anche su due boschi, chiamati Cornito e Cornitiello e considerati una grande riserva di legname pregiato. Ma la controversia che ebbe i toni più accesi nei riguardi della Chiesa salernitana fu sostenuta dai numerosi mercanti che frequentavano la fiera di San Matteo, cui si è fatto cenno, i quali denunciarono l'esosità dei fitti delle botteghe, iniziando a reclamare il trasferimento del raduno commerciale verso un'altra zona della città, più vicina al mare. Essi, dopo lunghe trattative, riuscirono ad ottenere che il "forum" di settembre si svolgesse nei pressi della spiaggia, un'area di proprietà delle nobili famiglie Cioffi e Pinto, le quali iniziarono ad avere le medesime pretese degli arcivescovi.
I fatti appena riferiti, avvenuti nell'arco del Cinquecento ed oltre, testimoniano quanto sia stato arduo liberarsi dei diritti o, meglio, dei soprusi feudali da parte delle istituzioni comunali dei vassalli, dei cittadini. Spezzare queste antiche catene significava soprattutto ricorrere allo Stato assolutistico, che, nel periodo in questione, si stava sviluppando in tutta Europa anche grazie alle prime affermazioni del giurisdizionalismo. In altri termini, mentre si andava sviluppando la stretta distinzione tra politica e religione, tra potere laico e potere ecclesiastico, quest'ultimo da ridimensionare e riportare nell'ambito spirituale, l'imperatore Carlo V decideva di sconfiggere la Lega Santa organizzata da papa Clemente VII. La vittoria delle armate tedesche comportò, com'è ben noto, il "Sacco di Roma" del 1527, seguito, però, poco dopo da un accordo tra l'Asburgo ed il Pontefice, trascritto nel trattato di Barcellona.
In questo patto la Curia romana riconosceva, tra l'altro, al sovrano spagnolo la facoltà di nominare i vescovi in 24 diocesi dell'Italia meridionale; una concessione ottenuta sulla scia di quelle già acquisite per alcune diocesi siciliane e della Castiglia. Tale diritto, nel codice canonico era chiamato diritto di "patronato regio" (ius patronatus), consisteva nell'accordare al sovrano la presentazione di candidati alle sedi vescovili. Tra le 24 città metropolitane scelte da Carlo V figurava anche Salerno, probabilmente ritenuta una importante base marittima per la difesa contro i Turchi, nonché una zona nevralgica per la sicurezza e l'ordine interno, da controllare sia durante la signoria di Ferrante Sanseverino, sia dopo la sua fuga.
Il primo arcivescovo destinato da Carlo V alla diocesi salernitana fu Gerolamo Seripando, un personaggio troppo noto per essere qui trattato, nonché ben presente alla sensibilità politica e diplomatica di Carlo V. L'illustre prelato ebbe molto a cuore le sorti non solo spirituali, sociali, culturali e morali della città di Salerno. Il medesimo discorso si può fare anche per i successori del Seripando, quasi tutti spagnoli ed anch'essi legati da sentimenti di stima ed amicizia con i sovrani madrileni, ai quali cercarono di rendere più agevole il compito di governare il Mezzogiorno.
Un esempio di lealtà e di collaborazione nei riguardi della Corona spagnola può considerarsi il cardinale Savelli, che resse la Chiesa salernitana durante i moti masanelliani e svolse un ruolo di primo piano nel cercare di riportare, in città e nei paesi limitrofi, l'ordine e la fedeltà alla Spagna. Altri esempi non mancano, ma le vicende dei presuli salernitani attendono una puntuale ricostruzione, che non si fermi solo agli aspetti pastorali di evangelizzazione, ma anche e soprattutto agli aspetti della «feudalità in età moderna».
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