Diritto


Ciro Galisi

Il munus regendi del Vescovo diocesano nel canone 392 del CIC

 

 

 

Gli apostoli, costituiti come gruppo stabile o collegio, ricevettero la piena missione pastorale in un duplice modo: individualmente e congiuntamente.

Con la piena missione e con la potestà apostolica ricevuta da Cristo, gli apostoli, predicando il Vangelo, fondarono le prime chiese particolari che presiedettero; in seguito posero al loro posto i vescovi che ne furono successori. Questi vescovi, nel diritto vigente denominati vescovi diocesani, succedono agli apostoli nella funzione di capi delle chiese particolari e le presiedono con piena responsabilità pastorale; hanno la pienezza del sacerdozio (potestà di ordine) ed hanno anche la pienezza della missione pastorale, con potestà di magistero e potestà di giurisdizione. Essi hanno ricevuto, quindi, la missione di predicare l'intero messaggio evangelico, di amministrare tutti i sacramenti e di  governare la porzione di popolo di Dio loro affidata; la loro missione e la loro potestà sono le stesse degli apostoli.

La missione pastorale del vescovo diocesano, con la connessa potestà, è piena ma non suprema: è, infatti, subordinata alla suprema potestà della Chiesa, cioè al papa e al collegio episcopale. V'è parallelismo e corrispondenza tra la piena funzione pastorale del vescovo diocesano e la totalità della chiesa particolare.

La funzione di presidenza e di governo delle chiese particolari era di natura apostolica, in quanto inclusa nella missione che gli apostoli ricevettero da Cristo; a loro corrispose per diritto divino la presidenza e il governo delle chiese particolari. E poiché i vescovi sono i loro successori, ogni vescovo diocesano ha per diritto divino la funzione di capo della chiesa particolare. Benché la forma dell'elezione e la nomina siano di diritto umano, l'ufficio, le funzioni e i poteri connessi sono di diritto divino e il vescovo li riceve da Cristo.

 

Questo lavoro di tesi vuole evidenziare, attraverso un'attenta analisi del canone 392, gli elementi essenziali che caratterizzano il munus regendi del Vescovo diocesano. La funzione di custodire l'unità della Chiesa, che è parte integrante della sua sollecitudine per tutte le Chiese, chiede al vescovo di esigere, nella propria circoscrizione, l'osservanza della disciplina ecclesiastica, sancita tanto nel diritto universale quanto nel diritto particolare, quale che sia la relativa fonte di produzione: la Santa Sede, i Concili particolari, la Conferenza Episcopale, oppure lo stesso Vescovo o i suoi predecessori.

Con la promulgazione del Nuovo Codice di Diritto Canonico, mi sembra, che nella Chiesa vi sia stata una rinnovata coscienza dell'importanza della disciplina nel corpo sociale ecclesiale.

Alcuni eventi testimoniano questo fatto:

a) diversi discorsi di Giovanni Paolo II alle Conferenze Episcopali o alle Congregazioni della Curia Romana o nei suoi viaggi apostolici;

b) l'Esortazione apostolica post-sinodale "Pastores gregis" di Giovanni PaoloII;

c) il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi della Congregazione per i Vescovi;

e) la celebrazione di Sinodi particolari nazionali o incontri tra i Vescovi di alcune Conferenze Episcopali ed il Romano Pontefice e la Curia;

f) per l'Italia è significativo il documento della Conferenza Episcopale: "Comunione, Comunità e disciplina ecclesiale";

g) una coscienza viva in diversi settori del Popolo di Dio della necessità di un maggiore ordine nella vita sociale della Chiesa, anche se in molti permane l'idea della inutilità o della inopportunità della disciplina, concezione alimentata da quell'onda antigiuridica levatasi nella Chiesa e non ancora del tutto giunta a riva.

In questo campo c'è molto da camminare ancora per far riscoprire la necessità della disciplina, in quanto essa non è estrinseca alla Chiesa ma è  insieme alla fede e ai sacramenti è parte fondamentale di quella communio che definisce la Chiesa stessa.

Il canone 392 sancisce il dovere del Vescovo diocesano di promuovere la disciplina e di vigilare contro gli abusi per difendere l'unità della Chiesa universale.

Questo dovere evidenziato dal codice, il Vescovo lo adempie nell'esercizio della sacra potestas di cui è rivestito.

Il Capitolo II del secondo libro del Codice di Diritto canonico espone la normativa sui Vescovi, il primo Articolo considera i Vescovi in genere. Il canone 375 nel primo paragrafo interpreta unitamente i numeri 19 e 20 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II. In questi numeri si afferma l'istituzione del Collegio apostolico da parte di Gesù che fece dei dodici suoi apostoli per predicare il Regno di Dio e, perché, partecipi del suo potere rendessero tutti i popoli discepoli del Signore e li santificassero e governassero diffondendo così la Chiesa, e loro, sotto la guida del Signore fossero i ministri e i pastori. Gli Apostoli lasciarono come successori i Vescovi, affidarono ad essi il proprio ufficio di maestri[1]..

Pertanto sono mandati a governare la Chiesa come pastori di anime e il modo imminente e visibile rendono presente e perpetuano la missione di Cristo sostenendone le parti di maestro, pastore e pontefice, e agendo in persona di Lui[2], presiedono alla Chiesa quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto e ministri del governo della Chiesa.

"Si è pastori perché evangelizzatori, santificatori e guide. Il concetto di pastoralità è cosi circoscritto e ben definito dal triplice munus che caratterizza la missione della Chiesa e che nella gerarchia ha la titolarità piena della potestas"[3].

L'origine divina della potestas pastoralis dei vescovi è affermata dal can. 375 § 1, ex divina istitutione.

Il secondo paragrafo dello stesso canone codifica da una parte la sacramentalità dell'episcopato e l'unitarietà dei tria munera, dall'altra sottolinea l'esigenza della comunione gerarchica con il capo e con le membra del Collegio Episcopale.

La costituzione Lumen Gentium dopo aver affermato che la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'ordine, fa discendere i munera propri di Cristo, esercitati dai Vescovi dalla stessa consacrazione come da fonte primaria, ma che non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica con il Romano Pontefice e con il Collegio dei Vescovi. La Nota Explicativa previa dichiara che per l'esercizio dei munera deve intervenire la determinazione canonica o giuridica da parte dell'autorità gerarchica che può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione di sudditi[4]. L'unitarietà del triplice munus potestatis viene confermata dal Codice del 1983 quando nel Canone 331 tratta del Romano Pontefice, "in quo permanent munus a Domino singulariter Petro, primo Apostolorum, concessum et successoribus eius trasmittendum", poi quando definisce la natura e l'ambito della potestà del Collegio Episcopale al canone 336, infine quando qualifica la figura dei Vescovi al canone 375[5].

L'affermazione dell'unità del triplice munus assume importanza in quanto evidenzia che la potestas della Chiesa comprendente i tria munera è pastorale, compresa quella di regime, infatti il governo stesso come l'ufficio di santificare e quello di insegnare derivano unicamente e direttamente da Cristo, di conseguenza nella Chiesa non esiste separazione dei poteri.

"Parlando del Vescovo si potrebbe certo designare il suo triplice ufficio; ma il plurale tre funzioni non è adatto alla natura della sua carica. I tre elementi si possono sì discernere, ma sono tanto compenetrati che non si potrebbe districarli senza letteralmente lacerare il loro contesto"[6]. Queste affermazioni indicano chiaramente come la potestas episcopalis non è triplice ma unica, comprendente le tre dimensioni della stessa potestas ecclesiae.

Tale potestà nel Romano Pontefice e nel Collegio episcopale, unito al Successore di Pietro, è piena, suprema e universale. Il Codice di Diritto Canonico nei canoni 331, riferito al Papa, 336 primo di quelli riguardanti il Collegio afferma tali caratteri della potestà. Considerando il modo come la sacra potestas risiede nei due soggetti che godono della suprema autorità nella Chiesa, si può affermare che essa è "quel tralcio del seme apostolico che, per ininterrotta successione, da Cristo è stata conferita agli Apostoli e da questi a coloro che essi hanno scelto a successori, i quali hanno così fissato la regola di trasmissione[7]. La potestas ecclesiae ha come tutta la missione della Chiesa origine, qualificazione e finalità in Cristo pastore. Questo Suo potere affidato alla Chiesa nel popolo di Dio sotto due aspetti: come principio vitale perchè dona la vita di Cristo e, sotto questo aspetto costituisce il potere di ordine e, come principio dinamico in quanto guida e coordina la vita ecclesiale e la sua crescita. E' con questa potestà che la Chiesa annunzia la Parola di Dio perchè accolta divenga normativa per i fedeli; l'ufficio di insegnare e quello di governare sotto l'aspetto dinamico mentre l'ufficio di santificare sotto il primo aspetto in quanto con l'esercizio del munus sanctificandi viene donata la vita stessa di Cristo. La potestas ecclesiae che, scomposta in un prisma manifesta i suoi  tre aspetti, è esercitata da coloro che con la consacrazione Episcopale ne hanno ricevuto la pienezza, quindi la capacità di agire in persona Christi Capitis. Il canone 100 echeggia ciò quando afferma che: "Sacramento ordinis ex divina institutione inter christi fideles guidam, charactere indelebili quo signantur, costituuntur sacri ministri, qui nempe consecrantur et deputantur ut, pro suo quisque gradu, in persona Christi Capitis munera docendi, sanctificandi et regendi adimplentes, Dei populum pascano". La categoria pastorale affermata dal magistero conciliare ed entrata anche nella normativa canonica, è la nota specifica della missione e dell'attività ministeriale del Vescovo "la ragion d'essere e il contenuto dinamico della sua potestà"[8].

Anche la terminologia è significativa al riguardo.

Riferendosi al servizio episcopale la costituzione conciliare sulla Chiesa usa sempre il singolare ministero[9] anche per evidenziare l'unicità del triplice munus.

Cosi il rapporto tra i tre aspetti della potestas è dato dall'unità inscindibile intercorrente fra loro ed esercitata nelle tre angolazioni del munus docendi, sanctificandi et regendi di coloro che con l'imposizione delle mani sono istituiti Vescovi nella Chiesa.

Riguardo alla comunione gerarchica l'allora Card. Ratzinger affermava che essa non e "un elemento estraneo al sacramento dell'ordine, ma come il suo sviluppo connaturale, in Cui soltanto esso raggiunge il suo pieno significato perchè la consacrazione episcopale è per sua natura inserimento nella comunità del servizio episcopale"[10].

I "Vescovi da parte loro non possono operare isolatamente, per se stessi, essi formano insieme l'ordo dei Vescovi...il Vescovo non è Vescovo da solo, ma lo è solamente nella comunione cattolica di coloro che lo furono prima di Lui, che lo sono con Lui e che lo saranno dopo di Lui"[11].

Il Codice definisce diocesano il Vescovo al quale è stata affidata una Chiesa particolare[12]. Egli insignito alla sacra potestas è "situato al centro della Chiesa particolare affidatagli, attorniato dal suo presbiterio, aiutato dai religiosi e dai laici il Vescovo ammaestra, santifica, governa in nome e con l'autorità di Cristo il popolo che sta strettamente unito a Lui come il gregge al suo pastore"[13].

Ai tre uffici con i quali il Vescovo educa la sua comunità cristiana corrispondono in qualche modo alcuni caratteri peculiari della Chiesa particolare. Essa va considerata una comunità di fede da istruire continuamente con l'annuncio della Parola di Dio, una comunità di grazia nella quale con la celebrazione eucaristica, l'amministrazione dei sacramenti, le suppliche dei fedeli si eleva incessantemente a Dio la preghiera; una comunità gerarchica, affidata nel suo pellegrinaggio terreno alla guida dei pastori. Questi aspetti della diocesi sono intimamente connessi tra loro come una potestas con la quale il Vescovo presiede la Sua Chiesa.

Il primo ministero che compete al Vescovo è quello di insegnare: "il Vescovo per l'intero suo gregge è costituito ma fede e ai estro autentico, testimone della fede, custode e giudice di ciò che appartiene alla costumi morali"[14]; il canone 386 sottolinea questo servizio[15]. Al munus docendi la legislazione canonica ha riservato il terzo libro del codice, comprendente i canoni 747-833.

Il primo canone richiama una verità semplice che la Parola di Dio è della Chiesa o meglio la Chiesa ha la Parola in deposito come un tesoro in prestito da custodire santamente e da annunciare santamente e fedelmente. Il canone sottolinea una titolarità di tutta la Chiesa alla quale va riconosciuto officium et ius nativum di predicare il vangelo a tutte le genti, questa titolarità è graduata: "occorre ben distinguere tra soggetti primari e soggetti secondari o subordinati che partecipano e cooperano all'esercizio di questo munus. Le norme del libro III mentre attribuiscono la capacità a tutti i fedeli di annunciare il Vangelo nello stesso tempo configurano una soggettività differenziata che trova nella stessa legge costituzionale della Chiesa la sua ragione d'essere"[16]. La gradualità di cui si è fatto cenno scaturisce dal modo in cui Cristo ha affidato alla Chiesa la Parola. Al vertice abbiamo il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi. Questi due soggetti godono dell'infallibilità, a loro compete oltre l'annuncio anche il magistero che non possiedono altre componenti ecclesiali, il mandato è stato affidato loro da Cristo e lo ricevono con l'ordinazione episcopale[17].

Il canone 756 § 2 riconosce al Vescovo diocesano l'esercizio della funzione di araldo della Parola di Dio, di maestro autentico della Parola di verità, rendendolo moderatore di tutto il ministero della stessa Parola nella Chiesa particolare che presiede. Da questa fonte nascono i canoni 768 - 772 che richiamano il diligente, accurato e fedele annuncio della Parola di Dio sotto la vigilanza del Vescovo diocesano, allo stesso principio si riferiscono i canoni 773- 781 circa la istruzione catechistica. Diversi canoni del terzo libro chiamano in causa la Conferenza Episcopale, come ad esempio i canoni 772 § 2, 775 § 2, 810.

Il criterio interpretativo della legislazione descritta si trova nel canone 753: "i Vescovi che sono in comunione con il Capo del Collegio e con i membri, sia singolarmente, sia riuniti nelle Conferenze Episcopali o nei Concili particolari, anche se non godono dell'infallibilità nell'insegnamento, sono autentici dottori e maestri della fede per i Fedeli affidati alla loro cura; a tale magistero autentico dei propri Vescovi i fedeli sono tenuti ad aderire con religioso ossequio dell'animo".

 "Il Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da Lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo"[18]. Il direttorio pastorale dei Vescovi ritiene questa funzione del Vescovo come il culmine e la fonte di tutti gli altri ministeri anche se è collegata con l'ufficio di insegnare, perchè essa si svolge nella persona di Cristo sacerdote[19].

Anche in riferimento al munus sanctificandi il Codice canonico riserva un libro: il quarto compreso nei canoni 834 - 1253. In esso è racchiusa la normativa sui sacramenti canoni 840 - 1165, sugli atti di culto cann. 1166 -1204; i tempi e i luoghi sacri cann. 1205 - 1253. Il libro espone bene la funzione essenziale che tutte le componenti ecclesiali costituenti il nuovo Popolo di Dio sono chiamate ad esercitare dopo essere state convocate con l'annuncio evangelico per "l'unità del Corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza"[20].

Tutta la materia si presenta emanante dal Vaticano II. Il canone 204, aprendo il libro secondo del Codice, aveva già definito i fedeli come coloro che sono stati incorporati a Cristo con il Battesimo e resi partecipi nel loro modo proprio all'ufficio sacerdotale di Cristo. Come per il munus docendi anche per la funzione sacerdotale il canone 835 afferma la diversità di titolo e stabilisce la gerarchia nell'esercizio del sacerdozio: "esercitano la funzione di santificare innanzitutto i Vescovi, che sono i grandi sacerdoti, i principali dispensatori dei misteri di Dio e i moderatori, i promotori e i custodi di tutta la vita liturgica nella Chiesa loro affidata (§1).

Esercitano la stessa funzione i presbiteri sotto l'autorità del Vescovo (§2), seguono i diaconi a norma delle disposizioni del diritto e hanno una parte loro propria anche gli altri fedeli, in modo peculiare partecipano alla stessa funzione i genitori vivendo la vita coniugale ed educando i figli cristianamente (§3-4).

Il Vescovo quindi come grande sacerdote è nella sua Chiesa particolare l'unico liturgo al quale spetta "entro i limiti della sua competenza dare norme in materia liturgica alle quali tutti sono tenuti[21], egli ha la titolarità del munus sanctificandi e le sue competenze sono proprie. Il Vescovo è chiamato prima di tutto al dovere di promuovere incessantemente la santità "sia personalmente sia per mezzo dei suoi collaboratori nel sacerdozio, effonde sui suoi fedeli la pienezza della santità di Cristo, ne accende gli animi e li incoraggia a perseguire la perfezione cristiana ciascuno nel proprio stato di vita"[22]. Questo dovere emana da una duplice fonte la prima ontologica, è nella missione stessa del Vescovo, la seconda è esistenziale e rientra nell'obbligo della testimonianza. Il canone 387 si muove su questa linea affermando che il Vescovo è tenuto ad offrire un esempio di santità nella carità, nell'umiltà, nella semplicità di vita[23]. I canoni 388, 389, 390 richiamano il dovere di preghiera al Pastore della diocesi applicando la Santa Messa per il popolo ogni domenica e nelle feste di precetto (Can. 388) presiedendo frequentemente nella Chiesa Cattedrale o in un altra Chiesa della diocesi sopratutto nelle feste di precetto e nelle altre solennità (c. 389); infine, il Vescovo può celebrare pontificali nella sua diocesi ma non fuori del suo territorio senza il consenso espresso o presunto dell'Ordinario del luogo (c. 390). Anche i pii esercizi e le preghiere del popolo cristiano devono essere pienamente conformi alle norme della Chiesa in quanto anche con questi mezzi la Chiesa adempie la funzione di santificare, gli Ordinari del luogo devono adoperarsi a questo scopo (c. 839).

Legati alla funzione santificatrice sono una serie di Canoni che affidano al Vescovo poteri e facoltà circa i sacramenti, la fissazione di giorni festivi e penitenziali anche occasionali, inoltre deve vigilare sui religiosi per quanto riguarda la cura d'anime e l'esercizio pubblico del culto divino[24] al Vescovo diocesano è riservato il battesimo degli adulti e l'amministrazione della cresima; tra i luoghi sacri è prerogativa episcopale benedire una chiesa[25].

Tra tutti i diritti e i doveri del Vescovo diocesano circa il munus sanctificandi ha prevalenza la presidenza della Eucarestia che gli è riservata[26].

Questo principio costituzionale espresso nel canone 899 si può collegare a quello basilare sulla Chiesa particolare, il canone 369 per affermare che chiesa particolare, Eucarestia e Vescovo sono realtà interdipendenti e, dove sono contemporaneamente presenti i tre elementi si ha la piena manifestazione del mistero di Cristo e della genuina natura della Chiesa del Signore.

I Vescovi, "reggono le Chiese particolari loro affidate, col consiglio, la persuasione, l'esempio, ma anche con l'autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità ... anche come giudici e amministratori della giustizia essi prestano un non meno eccellente servizio alla comunità, assai utile al bene spirituale dei fedeli. Essi hanno il sacro diritto e davanti al Signore il sacro dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare, e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all'apostolato"[27]. La potestà di regime è nella Chiesa per istituzione divina ed è parte dell'unico munus di Cristo[28]. Si può definire come "il potere di governare i fedeli nella vita sociale della Chiesa... ed è esercitata per il conseguimento della salvezza delle anime... non mira solamente a dare forma ad un ordine sociale meramente esterno, ma tende inoltre a far sì che l'ordine esterno sia consono con le disposizioni interiori dei fedeli"[29].

Da queste affermazioni si comprende bene come la potestas regiminis abbia nell'ordinamento canonico una sua peculiarità estranea ad altri ordinamenti e gettano luce sulle affermazioni conciliari che il Vescovo: regge la sua Chiesa oltre che con l'autorità anche con l'esempio, il consiglio, la persuasione[30]

Diversamente dalle altre funzioni il Codice non riserva al munus regendi un proprio libro, ciò non era possibile date le connessioni che ha questa funzione con molti istituti canonici e con l'intera disciplina codiciale. In varie parti del Codice si possono cogliere, però, gli elementi costitutivi e gli ambiti nei quali questo munus si articola e si esplica. Innanzitutto la potestà di governo è triplice: legislativa, esecutiva e giudiziaria, e legata all'ordine sacro, soggetti ne sono i ministri sacri, i laici possono cooperare all'esercizio di tale potestà[31]; quindi soltanto i chierici possono assumere uffici il cui esercizio richiede la potestà di governo ecclesiastico[32]. Il Vescovo ottiene il governo con la consacrazione episcopale e il rispettivo esercizio con la missio canonica. A lui spetta il potere legislativo, esecutivo e giudiziario che deve esercitare a norma del diritto, esercita la potestà legislativa personalmente sia mediante i Vicari Generali o Episcopali, a norma del diritto; esercita la potestà giudiziaria sia personalmente sia mediante il Vicario giudiziale e i giudici, a norma del diritto (can. 391,2).



[1] "Episcopi, qui ex divina institutione in  Apostolorum locum succedunt per Spiritum Sanctum qui datus est eis, in Ecclesia Pastores cunstituuntur, ut sint et ipsi doctrinae magistri, sacri cultus sacerdotes et gubernationis ministri" (can.375 § l).

[2] S. Ireneo, Adv. Haer. III, 3,1: Pg 7, 848

[3] V. Fagiolo, L´Episcopato: sacramentalità, collegialità,, ministerio, secondo il CIC, in AA.VV., «Episcopato, presbiterato, diaconato», Ed. Paoline, Milano, 1988, p. 244

[4] Cfr. N.E.P. 2 in EV 1/449, 450.

[5] V. Fagiolo, "Potestas" del Vescovo e Conferenza Episcopale, in Jus Ecclesiae, vol. 1, n. 1 (1989) pag.49.

[6] G .Philips, La Chiesa e il suo mistero, Milano, Jaca Book, 1982, p. 279

[7] V Fagiolo, "Potestas" del Vescovo e Conferenza Episcopale, in Jus Ecclesiae vol. 1, n. l (1989) pag.48

[8] E. I. 213in EV 4/2319

[9] Circa l'uso de l termine "ministero" l'assemblea  del sinodo dei Vescovi del 1987 ha auspicato la chiarezza sul significato della parola usata indiscriminatamente con il pericolo di un livellamento tra sacerdozio comune e ministeriale (cfr. proposizione18 in EV 10/2146). Giovanni Paolo II accogliendo l'auspicio ha costituito una commissione per chiarire tale significato e per studiare in modo approfondito i problemi teologici, liturgici, giuridici e pastorali sollevati dai ministeri locali (cfr. Christi Fidelis Laici n.23, EDB, pag. 35)

[10] K. Rahner - J. Ratzinger, La Collegialità Episcopale dal punto di vista teologico, in Episcopato e primato, Morcelliana (1966) pp. 151ss.

[11] J. Ratzinger, Chiesa ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Edizioni Paoline (1987) p.18.

[12] "Episcopi vocantur diocesani, quibus scilcet alicuius diocesis cura commissa est, ceteri titulares  appellantur" (Can.376).

[13] E.I. 54 in EV 4/2023

[14] E. I. 55 in  EV 4/2027

[15] "Veritates fidei credendas et moribus applicandas Episcopus dioecesanus fidelibus proponere et illustrare tenetur, per se ipse frequenter praedicans; curet etiam ut praescripta canonum de ministerio verbi, de homilia praesertim et catechetica institutione sedulo serverntur, ita ut universa doctrina christiana omnibus tradatur (can.386 § 1).

[16] V. Fagiolo, op.cit., pag.253.

[17] La gradualità della titolarità nell'annuncio della Parola di Dio si trova nel canone 749 § 1-2

[18] SC 41 in EV 1/72

[19] Cfr. E.I. 75 in EV 4/2058

[20] Cfr. LG 26 in EV 1/348.

[21] "Sacrae Liturgiae moderatio ab Ecclesiaeauctoritate unice pende: quae quidem est penes Apostolicam sedem et, ad normam iuris, penes Episcopum diocesanum can. 838 § 1.Ad Episcopum diocesanum in Ecclesia sibi commissa pertinet, intra limites suae competentiae, normas de re liturgica dare, quibus omnes tenentu" (can. 838 § 4).

[22] E.I.79 in EV 4/2062

[23] "Episcopus diocesanus, cum memor sit se obligatione teneri exemplum sanctitatis praebendi in caritate, humilitate et vitae semplicitate, omni ope promovere studeat sancticatem christi fidelium secundum uniusquiusque propriam vocationem atque, cum sit praecipuus misteriorum Dei dispensator, iugiter annitatur ut christifideles suae curae commissi sacramentorum celebratione in gratia crescant utque paschale misterium cognoscant et vivant". (can. 387).

[24] Cfr. cann. 1244, 678, 680

[25] Cfr. cann. 895, 1207

[26] "In Eucarestia Sinaxi populus Dei in unum convocatur, Episcopo aut, sub eius auctoritate, presbitero praeside, personam Christi gerente, atque omnes qui intersunt fidelés, sive clerici sive laici, suo quisque modo pro ordinum et liturgicorum munerum diversitate, participando concurrunt" (can.899 § 2).

[27] E.I. 92 in EV 4/2085, anche LG 27, EV 1/351.

[28] "Potestatis regiminis, quae quidem ex divina institutione est in Ecclesia et etiam potestas iurisdictionis vocatur, ad normam praescriptorum iuris, habiles sunt qui ordine sacro sunt insigniti" (can.129 § 1).

[29] P. Lombardia, Lezioni di Diritto Canonico, Milano, Giuffrè 1985, pag.127.

[30] Cfr. LG 27, EV 1/351.

[31] Il canone 129 dopo aver affermato l'origine divina della potestà di governo e affermato che sono abili a tale potestà, nel paragrafo secondo dice: "in exercito eiusdem potestatis, christifideles laici ad normam iuris cooperari possunt" (can. 129 § 2).

 

[32] "Soli clerici ubtinere possunt officia ad quorum exercitium requiritur potestas ordinis aut potestas regiminis ecclesiastici" (can. 274 § 1).