Economia


Salvatore Farce

Sviluppo regionale e commercio internazionale nelle regioni italiane

 

Abstract

The objective of this paper is to understand if the system of small and medium firms in traditional sectors still plays an important role in regional development and in international competitiveness of Italy. The new tendencies in international trade start from the evidence that very often factor distribution, the presence of firms and the industrial structure are not homogeneous within a single country. A second important point is that, as a consequence, regions do not show the same degree of involvement in international trade. This second point is influenced by sectoral specialization, by the regional level of development and sometimes also by the closeness to the foreign market. The paper focuses on international competitiveness of Italian regions in the period 1995-2005, in order to understand export specialization in the areas with a major concentration of industrial districts. The analysis has been conducted on 120 exporting sectors and the results show that regions with a high presence of districts have a higher degree of openness at international level, rather than other regions. Besides, “District regions” have a higher degree of specialization in more industrial sectors, and in particular in those of “Made in Italy”. Those regions seems also to have, in that same period, a higher degree of growth in GDP and export. This paper focuses on the importance of international specialization in Italian Regions in order to analyse the degree of openness in the last years and verify the kind of sectoral specialisation at international level. Italian regional trade is analysed by using exports database provided by Italian National Statistic Agency (ISTAT) and a cluster analysis based on some GDP and export in order to investigate the competitiveness at regional level and the weight of the single region in terms of market shares. Keywords: International trade, Regions, Development JEL: F14; R11; L11

Introduzione

La struttura industriale, le dotazioni fattoriali e le infrastrutture all’interno dei paesi non sono uniformi ed omogenee, di conseguenza il commercio internazionale del paese stesso è quindi influenzato dalla diversa partecipazione e dal diverso ruolo delle regioni nel processo di sviluppo e nella competizione internazionale. Negli ultimi anni è sempre maggiore l’interesse verso le scelte localizzative e gli approcci di tipo geografico (Bagnasco, 77; Borzaga, 85; Catin-Djondang, 92; Dixon, 73; Krugman, 95) che sono riusciti a rinnovare il potere esplicativo delle economie di scala e delle forme di mercato non concorrenziali. L’obiettivo di questo lavoro è quello di presentare le tendenze recenti nella teoria del commercio internazionale partendo da una riflessione sul ruolo delle regioni nel commercio estero intende procedere all’analisi del legame tra sviluppo e commercio estero nelle regioni italiane. Tale tipo di analisi per quanto presenti indubbi vantaggi nella comprensione dei fenomeni, presta il fianco ad alcuni problemi (D’Antonio Scarlato, 97; Viesti, 96) relativi all’attribuzione effettiva dei movimenti, specialmente nel caso di semilavorati trasferiti ad altre aziende che si occupano successivamente della esportazione e che conducono una sottostima per alcune aree ed una sovroastima per altre . Tuttavia, la lettura di tali dati fornisce informazioni di rilievo sulla diversa partecipazione delle regioni all’interscambio commerciale in quanto fornisce informazioni sulla loro specializzazione e competitività internazionale; inoltre, nel caso italiano è molto importante il ruolo della piccola e media impresa nei distretti industriali a livello regionale, in quanto spesso ne determina in maniera decisiva la capacità competitiva a livello internazioanle. Ciò consente, da un lato un avvicinamento tra regioni, anche se in alcuni casi si allargano i divari territoriali a livello nazionale a vantaggio delle regioni specializzate in produzioni ad alto valore aggiunto ed in grado di esportare una quota rilevante della produzione. L’attuale dimensione dello scambio internazionale, raggiunta attraverso la crescita degli ultimi anni, il diverso ruolo delle regioni e le recenti tendenze nei mercati, implicano una complessità che non trova una spiegazione esaustiva all’interno di modelli consolidati. Il futuro lascia presagire una ulteriore crescita dell’apertura internazionale sia alla luce del crescente grado di apertura di alcune economie (ad esempio all’interno dell’Unione Monetaria Europea) sia in funzione degli effetti potenziali derivanti dalla liberalizzazione legata al WTO (World Trade Organization). La definitiva eliminazione degli ostacoli alla circolazione delle merci, del capitale e dei lavoratori e l’allargamento dell’Unione possono determinare un ulteriore quanto significativo aumento del commercio tra i paesi europei ; inoltre, anche in altre parti del mondo tale fenomeno si sta realizzando a ritmi crescenti. La complessità raggiunta dallo scambio ha determinato l’impossibilità di riferirsi ad uno schema teorico tradizionale ed ha fatto emergere nuovi approcci. Il passaggio dal vantaggio comparato ad altri elementi determinanti l’internazionalizzazione dei paesi ha fatto emergere l’importanza delle economie di scala e la differenziazione dei prodotti (Helpman Krugman 85, Krugman 92) e delle forme di mercato non concorrenziali, ma anche l’importanza del commercio intra-industriale (Becuwe-Mathieu 92, Vona 91) che negli ultimi anni ha assunto un potere esplicativo rilevante soprattutto nella spiegazione dell’interscambio relativo ai paesi più industrializzati e con dotazioni fattoriali simili. Ma la differenziazione dei prodotti ha fatto emergere anche l’importanza dei fattori non di prezzo oltre alla competitività di aree geografiche definite e storicamente individuate come i distretti industriali (Becattini 87, Becattini-Rullani 93). In tempi più o meno recenti (Krugman 95, Borzaga 83, Lassudrie-Duchene 84) è emersa l’importanza dell’aspetto regionale del commercio regionale; la riflessione di fondo dei lavori è sintetizzata nella diversa partecipazione che le regioni hanno al commercio internazionale di un paese e che è frutto anche dei concetti visti in precedenza di localizzazione storica di industrie e di interventi (anche dello Stato) volti a migliorare il livello di industrializzazione delle diverse aree. Questi aspetti teorici sono di sicuro interesse, in quanto il loro potere esplicativo è molto rilevante; infatti, le diverse tipologie di scala, statiche e dinamiche, di impresa o di settore, hanno riflessi molto importanti sulla tipologia e sulla struttura di mercato. Anche la differenziazione dei prodotti, intesa quale capacità di soddisfare il grado di complessità raggiunto dalla domanda e la diversa percezione che questa possiede circa le caratteristiche degli stessi beni, fornisce dei validi elementi sulla direzione e sulla tipologia dei beni scambiati. La nuova “lettura” del commercio con l’estero degli ultimi anni, a partire dal presupposto che quasi sempre le dotazioni fattoriali, le infrastrutture e la struttura ed il sistema industriale all’interno dei paesi non sono uniformi ed omogenee, è influenzata dalla diversa partecipazione delle regioni al commercio internazionale. E’ evidente, allora, che il diverso grado di sviluppo delle aree regionali influenza in maniera decisiva la performance del paese a livello internazionale. Il presente lavoro, dopo aver riflettuto sull’interazione tra commercio estero e crescita regionale, si focalizza sul caso italiano, approfondendo l’analisi sul diverso ruolo che le regioni hanno in termini di partecipazione al prodotto interno lordo ed al commercio estero del nostro paese, cercando di comprendere se in qualche modo la composizione distrettuale a livello regionali dia luogo ad un effetto positivo sulla competitività regionale a livello internazionale contribuendo nel periodo considerato a delineare un modello specifico. Commercio estero e crescita economica regionale In questo paragrafo si vuole sottolineare il ruolo cruciale svolto dalla domanda esterna nel determinare il tasso di crescita regionale e, attraverso la teoria export-base, considerare anche il modo in cui la regione reagisce alle variazioni di domanda per le proprie esportazioni. La tesi centrale del modello export-base evidenzia come inizialmente lo sviluppo economico di una regione può essere ricondotto allo sfruttamento delle sue risorse naturali e come, la distribuzione geografia delle risorse possa spiegare perché le regioni crescano a tassi differenti (Krugman, 95). Le analisi condotte su tale modello hanno posto rilevato che in molte regioni (in modo particolare nella parte nord-occidentale del Nord-America) lo sviluppo è stato determinato “dall’esterno” e non “dall’interno”, con il capitale ed il lavoro che affluivano per sfruttare la ricca dotazione di risorse naturali. Quando la domanda mondiale per queste risorse naturali è cresciuta in maniera significativa si sono realizzate nuove linee di comunicazione che portarono queste regioni all’integrazione con i mercati mondiali (Rivera-Batiz Ginsberg, 93). Questo punto è stato abbastanza dibattuto nella teoria (North, 55; Tiebout, 56), poiché si è discusso e tuttora si discute sugli elementi che influenzano in maniera rilevante la crescita regionale e la competitività internazionale delle regioni. Secondo North (North, 55), lo sviluppo regionale passa attraverso cinque fasi a partire da un’economia di sussistenza, passando ad uno sviluppo guidato da miglioramenti nelle reti di trasporto, con successivi incrementi del commercio interregionale, verso la trasformazione dei prodotti agricoli. Successivamente, a causa dell’incremento della popolazione “a region is forced to industrialize” (North, 55 pag 244) a causa dei rendimenti decrescenti in agricoltura e le forme di preindustrializzazione sono influenzate dalla disponibilità di materie prime. Lo stadio finale è quello in cui la regione produce per le esportazioni; il raggiungimento di questa fase è condizionato molto dall’abbassamento dei costi di trasporto che renderebbe competitive all’esterno le produzioni regionali. Infatti, l’abbassamento dei costi di trasporto determina da un lato la concentrazione industriale, dall’altro lato causa la differenziazione e la specializzazione delle diverse aree. Tale condizione gioca un ruolo cruciale all’interno di questo modello ; tuttavia, nel meccanismo descritto da North alcuni stadi possono mancare senza che per questo possa venire pregiudicata la struttura descrittiva; quanto detto prima può essere riferito sia a specifiche aree, sia a settori produttivi . Da quanto detto, emerge che lo sviluppo regionale è sostanzialmente un processo endogeno mentre la crescita del commercio regionale che ad esso si accompagna ne è diretta conseguenza. Tuttavia, secondo North la crescita della regione è intimamente collegata alla crescita di nuove esportazioni e all’aumento nella quota dei prodotti già esportati. Queste ultime considerazioni sono alla base del modello sviluppato da Graziani (Graziani, 69) che si segnala principalmente per l’analisi degli squilibri tra Nord e Sud d’Italia, più che per le implicazioni di commercio internazionale. Le riflessioni di Graziani partono dall’esame del dualismo territoriale, salariale e della struttura produttiva italiana degli anni ‘50 e ‘60 e si inseriscono in un filone di ricerca molto ricco che ha analizzato il divario tra Nord e Sud cercando di studiarne le principali cause . La necessità di sviluppare un consistente flusso di esportazioni quale stimolo per la ripresa delle produzioni nazionali aveva dato luogo ad una struttura produttiva suddivisa in due settori, ciascuno con un proprio ruolo: il primo comprendeva le imprese che producevano per il mercato estero e che per affrontare la concorrenza erano costrette a realizzare elevati livelli di produttività, di efficienza e di innovazione tecnologica; il secondo settore comprendeva le produzioni destinate al mercato interno e che erano meno dinamiche in termini di produttività e di efficienza. Al di là delle implicazioni territoriali in termini di dualismo, visto che il Nord era maggiormente presente il settore avanzato, mentre al Sud vi era quello arretrato ; ciò che a noi interessa maggiormente riguarda la necessità di sviluppare un consistente flusso di esportazioni per alimentare la domanda nel settore avanzato e la concentrazione di tali attività produttive nel triangolo industriale. In realtà, le caratteristiche della domanda hanno favorito effettivamente la concentrazione ed inoltre un ruolo importante è stato giocato da due elementi fondamentali: il primo riguarda le economie di scala, che hanno favorito gli impianti di dimensioni elevate anche per la tipologia di produzione connessa . Il secondo elemento riguarda la disponibilità di manodopera trasferitasi dal Sud del paese e disposta a lavorare con salari e condizioni di vita marginali pur di riuscire ad emergere da una situazione originaria di sottosviluppo. In tempi più recenti tale modello ha perso parte della sua capacità esplicativa, con l’emergere del modello più articolato delle tre Italie e dello sviluppo fondato sui distretti industriali, a partire dalla consapevolezza che il nostro paese continua a mantenere una forte competizione internazionale che si basa in grande parte su produzioni di tipo tradizionale ma appartenenti al sistema del made in Italy (quali il settore moda, l’arredamento, ecc.). Il punto di vista che vede un legame forte tra sviluppo di un consistente flusso di esportazioni e crescita regionale è, come si diceva, molto dibattuto in letteratura; secondo Tiebout (Tiebout, 56) sono necessarie, in tale approccio, alcune cautele. Innanzitutto è necessario precisare che non esiste una regione ideale e che la dimensione regionale considerata riveste un ruolo non piccolo nel definire la dimensione del fenomeno. Per quanto riguarda il primo punto, è importante comprendere che il concetto utilizzato tipicamente si riferisce alle circoscrizioni amministrative, ma secondo Tiebout “the quantitative importance of exports as an explanatory factor in regional income determination depends, in part, on the size of the region under study” (Tiebout, 56, pag 161); quindi, secondo l’approccio geografico è importante definire l’entità di riferimento e l’area di analisi. Il problema risiede nella verifica empirica, in termini di disponibilità di dati; quando la dimensione del fenomeno si colloca a cavallo delle aree amministrative, la sua rilevanza viene influenzata da problemi di misurabilità . Il secondo punto riguarda la dimensione dell’area di riferimento: quanto è più piccola maggiore è la rilevanza del fenomeno. Infatti, se la dimensione di riferimento è sufficientemente ridotta, è chiaro che la dipendenza dall’esterno sarà maggiore, a parità di ogni altra condizione. Tuttavia, un aspetto importante riguarda la forma di mercato: in concorrenza monopolistica sarà più facile riuscire a ricavarsi una nicchia di competitività riuscendo a differenziare i propri prodotti da quelli dei concorrenti; in presenza di oligopolio, invece, la possibilità di incrementare il proprio export dipenderà in maniera molto grande dalle economie di scala. La complessità degli elementi da tenere presente nell’analisi della relazione tra commercio estero e sviluppo regionale non si ferma a questo punto; il reddito delle regioni vicine, infatti, influenza la domanda per la varietà dei prodotti in maniera diretta; maggiore è il reddito, più grande e differenziata sarà la domanda. In pratica deve assumersi la disponibilità del mercato ad assorbire le produzioni realizzate localmente, altrimenti, pur in presenza di elevata competitività, non vi sarà il circolo virtuoso tra esportazioni e crescita economica. Le considerazioni fatte fino a questo punto non intendono assolutamente sminuire le disponibilità fattoriali, che pure giocano un ruolo importante; infatti, la dotazione fattoriale influenza il costo dei fattori, e determina l’orientamento settoriale delle attività regionali. Nel caso delle aree con forte specializzazione nelle trasformazioni agricole, ad esempio, è importante disporre delle risorse da impiegare in tali produzioni; tuttavia non si deve dimenticare che spesso esiste un trade-off tra produzioni per il mercato interno e quelle per il mercato estero. Uno dei punti più importanti che ne consegue riguarda la spiegazione della specializzazione di una regione in alcuni prodotti piuttosto che in altri. Vi sono stati diversi tentativi di utilizzare il modello Hecksher-Ohlin per spiegare la specializzazione regionale a partire dalla dotazione relativa di fattori produttivi; tuttavia, negli ultimi anni è emersa la consapevolezza dei limiti di una spiegazione della specializzazione regionale fornita dal modello H-O perché troppo semplicistica. Il problema principale è che tale modello ipotizza una sostanziale immobilità dei fattori della produzione tra le diverse regioni, poiché, diversamente, verrebbe meno una delle condizioni di base del modello: l’abbondanza relativa di un fattore a livello regionale. L’ipotesi di immobilità è indiscutibile per le materie prime o per la terra, ma sicuramente non lo è per il lavoro e per il capitale, che al contrario, sono molto mobili a livello regionale . Le regioni con abbondanza di materie prime si specializzeranno nelle produzioni e nell’export dei beni in cui è maggiore il loro utilizzo, dato che questo è il fattore relativamente più abbondante; vi potrebbe essere anche uno spostamento di altri fattori se ciò si rendesse necessario per un migliore sfruttamento di tali risorse . Una volta affermatasi tale specializzazione, la domanda esterna avrà un effetto dominante sulla produzione regionale e sulla crescita delle esportazioni, mentre le produzioni delle altre regioni non specializzate in quei prodotti saranno svantaggiate. Queste implicazioni scaturiscono direttamente dai modelli che sottolineano l’importanza dei fattori dell’offerta. Tuttavia, può accadere che la crescita regionale sia influenzata piuttosto da fattori di domanda, diversi da regione a regione, in modo da ottenere un criterio alternativo di specializzazione produttiva. Si determina così un “equilibrio generale dinamico”: ciascuna regione si specializza nella produzione di quei beni in cui gode di un vantaggio comparato in termini di prospettive della domanda, importando dall’esterno tutti gli altri prodotti. Il passaggio da un’economia chiusa ad una aperta consente generalmente alla regione di accrescere il reddito e di aumentare le entrate finanziarie, quindi si avranno più risorse da investire nel processo di crescita produttiva interna; più in generale, si può affermare che lo scambio internazionale aumenta la produzione regionale, sia per l’incremento del grado di utilizzazione delle risorse interne, sia perché è uno dei fattori che determinano la composizione settoriale della produzione favorendo la crescita delle produzioni verso l’export. In una regione, però, le esportazioni generalmente non crescono in maniera indefinita, per due ragioni: 1) la regione caratterizzata da economie di scala e quindi inizialmente da bassi costi, potrebbe essere caratterizzata successivamente da alti costi; 2) potrebbe non essere possibile aumentare in maniera indefinita l’output, né il grado di apertura regionale può crescere indefinitamente. Ciò porterebbe la domanda esterna ad allontanarsi dal bene esportato e ad orientarsi verso beni simili o sostitutivi esportati da altre regioni con costi più bassi. Il modello export-base, che pone l’accento sulla domanda esterna e sul suo ruolo positivo nel determinare la crescita economica regionale, ma non riesce a spiegare alcuni processi di crescita, poiché vi sono dei problemi nell’analizzare il ruolo svolto dai fattori interni alla regione. Infatti, in tempi recenti, è emersa l’influenza sempre maggiore che hanno, sulla crescita regionale, l’iniziativa locale e i programmi pubblici di sviluppo; inoltre manca una spiegazione degli elementi che determinano la domanda di esportazioni, per cui verrebbe meno la spiegazione dei divari interregionali di crescita (Bagnasco, 77; Borzaga Brancati, 85). Localizzazione e specializzazione regionale Le difficoltà di una rappresentazione adeguata delle regioni nel commercio internazionale ha spinto, sia in passato sia in tempi più recenti, verso una revisione di teorie tradizionali in un’ottica più localistica ed ha fatto emergere anche contributi il cui punto di vista è sostanzialmente interdisciplinare. Smith (Smith, 75), in un approccio alla Dixon (Dixon, 70) e alla Woodward (Woodward, 70), afferma che vi sono delle differenze salariali tra regioni e tra industrie; questo fatto, in un’ottica ricardiana, non consente un’adeguata spiegazione del diverso modello di sviluppo di alcune industrie e regioni. Basandosi sulla teoria della proporzionalità dei fattori (Ohlin, 33), e utilizzando un test di verifica univoco e significativo, Smith procede ad un ranking delle regioni sulla base dei ricavi per lavoratore, indicatore che viene utilizzato quale proxy del grado di abbondanza relativa di capitale : maggiore è il valore aggiunto per addetto, più intensiva in capitale è l’industria in questione. Secondo Smith (Smith, 70 pag 39) bisogna riprendere Dixon quando afferma “Non-economic, or at least non-price determined models, appear to be necessary if we are to understand the patten of regional specialisation in the U.K.” allo scopo di discutere l’applicazione del modello della proporzionalità fattoriale al Regno Unito che fornirebbe risultati molto confortanti. In tale modello esistono due tipi di regioni: centrali e periferiche. Nelle prime i fattori si muovono liberamente, mentre nelle seconde ciò non avviene; nelle prime la mobilità compensa la scarsezza e l’abbondanza relative, mentre è nelle seconde che la teoria viene verificata in maniera significativa . L’applicazione alla specializzazione regionale di un modello H-O implica una suddivisione del capitale tra fisico ed umano; per quanto riguarda il secondo la spiegazione più idonea si fonda su teorie del salario di efficienza, molto più adeguate a spiegare i prezzi dei prodotti rispetto alle teorie di stampo classico. Elevati dotazioni di capitale a livello regionale sono derivabili da elevati ricavi per lavoratore; infatti: “the transition from positive to negative degrees of specialisation in capital intensive industries coincides with the transition from above average to below average earnings per employee” (Smith, 70, pag 49). Dall’analisi di Smith emerge che vi è una relazione fra dotazione fattoriale e specializzazione internazionale delle regioni; tuttavia, non sempre è chiaro il legame di causa-effetto che esiste tra loro; in alcuni casi tale legame sembra invertirsi favorendo l’accumulazione di un fattore piuttosto che l’altro a partire dalla specializzazione. Ciò porta a concludere che l’esistenza di regioni centrali e periferiche non mette in discussione l’intero modello, poiché nelle prime l’elevata mobilità fattoriale implica elevati flussi fra regioni ed esclude la stabilità nel tempo di una specializzazione fondata sull’abbondanza relativa di fattori, che invece, in assenza di mobilità, riuscirebbe a fornire un’adeguata spiegazione del pattern delle regioni periferiche. Nell’ambito di un filone di studi multidisciplinare si colloca Krugman (Krugman, 95) che, tra l’altro, analizza la specializzazione del manufacturing belt degli Stati Uniti. In questo lavoro, la localizzazione riveste un ruolo importante, specialmente in considerazione del fatto che la struttura economica all’interno dei paesi è molto varia . La localizzazione e la concentrazione sono spesso frutto del caso piuttosto che della storia, ed avvengono attraverso processi che sicuramente non sono lineari ma conoscono aggiustamenti ed anche punti di rottura. Il punto di vista statico giustifica ad esempio l’industrializzazione statunitense, ma anche quella dei distretti industriali presenti storicamente in Inghilterra, Germania ed, in fase successiva, caratterizzanti il modello italiano . Tale approccio consente di evidenziare il vantaggio derivante dalla vicinanza con altre imprese in termini di scambio di informazione, ma anche di economie di scala; le scelte localizzative risentono di un approccio marshalliano (Marshall, 20) ed evidenziano i fattori identificativi dei distretti industriali: 1) la concentrazione industriale in un ambito territoriale ristretto; 2) l’esistenza di industrie di servizi e sussidiarie delle precedenti che consentono di esternalizzare fasi e azioni costose e specialistiche; 3) la circolazione di informazioni che discende dall’esistenza di un sistema di relazioni interimpresa L’esistenza di tali condizioni (Becattini, 87; Onida Viesti Falzoni, 92) opera come fattore di spinta verso la concentrazione industriale, ma un ruolo molto grande è esercitato dalle economie di scala, dai costi di trasporto, dalla forma di mercato e dall’esistenza di una domanda locale rappresentativa. Nel modello centro-periferia di Krugman l’esistenza di forti economie di scala spinge verso la localizzazione, ed il tempo la rafforza se le condizioni non mutano, poiché tali processi sono cumulativi; la fase storica attuale dell’economia mondiale che spinge sempre più verso l’abbassamento e la eliminazione degli ostacoli al commercio, favorisce l’allargamento del divario tra regioni, in quanto un incremento della competitività sul piano sovranazionale avvantaggia le aree più sviluppate. Molto forte è il ruolo dei c.d. spillover tecnologici (Marshall, 20; Krugman, 95); le conoscenze settoriali spingono verso una fortissima concentrazione locale dei settori; in molti casi non si tratta di conoscenze tecniche in senso stretto ma di un saper fare inteso in senso molto più ampio. La localizzazione implica ed è implicata da un flusso di informazioni, conoscenze ed altro, che non sono misurabili, ma che rendono un’area più specializzata e competitiva di altre ; la non misurabilità di tali elementi li rende scarsamente utilizzabili ai fini di una indagine quantitativa rigorosa e fa in modo che molti economisti ne trascurino l’effettiva importanza. In presenza di reti di trasporto che consentano una circolazione delle merci in tempi rapidi e a costi bassi, la localizzazione sarà favorita in quanto i mercati si ampliano in maniera consistente; tuttavia, la rete di trasporto è anch’essa soggetta ad economie di scala (Krugman, 95), per cui può essere più efficiente in una regione piuttosto che in un’altra . L’insieme di queste condizioni comporta una certa stabilità temporale degli equilibri produttivi territoriali; quando gli elementi di base e le condizioni si modificano anche la struttura può modificarsi in maniera radicale ; inoltre, un ruolo molto importante è giocato dalle aspettative (Krugman, 95) che hanno una spiccata tendenza verso l’autorealizzazione. Un aspetto molto importante, si diceva essere la concentrazione nel mercato dei fattori, in particolare del lavoro e degli inputs intermedi. I lavoratori sono incentivati a concentrarsi territorialmente nelle zone in cui vi sono più industrie e quindi più possibilità di trovare (o di ritrovare nel caso di espulsione temporanea dal mercato del lavoro) una collocazione occupazionale; anche i fornitori di semilavorati saranno incentivati a concentrarsi dove la domanda è più forte, perché sarà più grande il mercato per i loro prodotti. Questi elementi tendono a far crescere la concentrazione industriale e a creare economie di scala territoriali indipendenti dalla struttura di mercato; fino a questo punto non si è fatta alcuna ipotesi sulla forma di mercato, ma dati i rendimenti crescenti è plausibile la concorrenza monopolistica (o al più l’oligopolio) anche in considerazione della differenziazione dei prodotti che riveste un ruolo molto rilevante al pari degli altri fattori non di prezzo. Tuttavia, secondo altri (Garavini e Cilona, 91), i fattori che determinano lo sviluppo delle aree locali sarebbero di due tipi: endogeni ed esogeni; i primi risiedono nella domanda internazionale di beni di consumo e di investimento (modello export-led), mentre i secondi riguardano la trasformazione nel modo di vivere delle persone, specie quando sono espulse dal tessuto lavorativo tradizionale, che le spinge in parte verso la creazione di nuova imprenditorialità. Questo approccio implica lo sviluppo di due tipi di imprese: dominanti e minori, oltre alla creazione di un doppio mercato del lavoro e ad una frammentazione del ciclo produttivo. Un’ulteriore caratteristica importante riguarda l’elasticità operativa dei soggetti intesa come capacità di strutturarsi ed operare secondo quanto richiesto dalle circostanze in un ambiente mutevole. A noi sembra che le scelte localizzative delle imprese siano influenzate dagli elementi propri della teoria dei distretti industriali, cioè si tratta di processi storici, influenzati dalla crescita e dalle modificazioni della domanda mondiale, e caratterizzati da economie esterne territorialmente limitate, mentre i costi di trasporto giocano un ruolo importante ma in diminuzione, dati i continui miglioramenti di efficienza delle reti di trasporto stesse. Esportazioni e sviluppo nelle regioni italiane Il tema della concentrazione geografica della attività produttiva e la conseguente influenza sulla competitività internazionale delle regioni è il punto di partenza della nostra analisi empirica; come si evince dalla tabella 1, nel caso dell’Italia vi è una forte concentrazione del prodotto interno lordo e delle esportazioni in poche regioni. Nei tre anni considerati in tabella, la Lombardia conserva la leadership in entrambe le variabili, visto che oltre il 20% del PIL italiano si concentra in tale regione, anche se con una lieve flessione dal ’95 al ’05 (mezzo punto percentuale). L’export presenta una concentrazione ancora maggiore, visto che tale regione, pur avendo perso un punto e mezzo, può vantare poco meno del 30% dell’export italiano. Il Lazio si trova al secondo posto nella graduatoria regionale del PIL con il 10,6%, ed è tallonata da Veneto (9,0%), Emilia Romagna (8,7%) e Piemonte (8,4%). Tuttavia queste ultime tre regioni fanno decisamente meglio del Lazio in termini di quota sulle esportazioni nazionali, dal momento che il Veneto può vantare il 14,3% del totale, seguito dall’Emilia Romagna con il 12,4%. Per queste due regioni, tradizionalmente distrettuali, l’export è in netta crescita nel decennio considerato. Situazione diversa si verifica per il Piemonte, che pur attestandosi su una quota dell’11,2% è in netto calo (oltre 2 punti). Il PIL italiano si distribuisce poi in Campania, prima tra le regioni meridionali e Toscana (entrambe al 6,7%), ma con la prima vede la propria quota crescere di quasi mezzo punto percentuale. Tuttavia, se la Toscana si colloca al quinto posto tra le regioni esportatrici con il 7,8% del totale, sotto questo punto di vista, meglio della Campania (2,6%), fanno anche Lazio (4,0%), Friuli Venezia Giulia (3,6%) e Marche (3,2%). Queste ultime due regioni vantano una quota sul PIL totale che è intorno al 2,5%. Tra le rimanenti regioni meritano una citazione Sicilia, che vanta il 5,9% del prodotto interno totale, e la Puglia al 4,7%; entrambe tali regioni mantengono la posizione nei dieci anni considerati, ma la seconda presenta una quota sull’export totale leggermente superiore. Dalla lettura dei dati è evidente come sia il PIL che le esportazioni siano fortemente concentrati nelle regioni centro-settentrionali, a riprova di una migliore e più competitiva struttura della produzione. Nelle regioni meridionali, a parte pochi casi, il peso sull’economia nazionale è invece abbastanza ridotto e scarsamente significativo.

 

continua