Universitą


Lucio Avagliano

Una politica per l'universitą. Profilo Storico

 

Sergio Fabbrini ha dato una lucida sintesi delle vicende della politica per l'università a partire dal dopoguerra ad oggi[1]. Dopo aver evidenziato le poche positività realizzate dal recente governo (chiusura di molte università telematiche sorte durante la legislatura precedente, razionalizzazione dei raggruppamenti disciplinari, casi più eclatanti di nepotismo accademico), Fabbrini sottolinea che questi provvedimenti, per quanto lodevoli, non costituiscono in sé una politica di riforma trattandosi di innovazioni che in realtà rafforzano un rinnovato centralismo ministeriale.

Come indica chiaramente il regolamento che riguarda la struttura del funzionamento dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) la quale dovrà valutare non solo la qualità e l'intensità della produzione scientifica e la sua diffusione a livello nazionale ed internazionale ma anche "la qualità del reclutamento del personale docente e di ricerca dell'università e degli enti di ricerca" osserva Fabbrini come può tale agenzia assolvere a compiti cosi numerosi in relazione ad un sistema di grandi dimensioni com'è il nostro, senza prefigurare un ritorno all'egemonia delle grandi sedi universitarie inefficienti ed ipertrofiche, in possesso però di centinai di voti per controllare i concorsi o per farsi ascoltare dalle istituzioni politiche (parlamento e governo)? In realtà quella che è in atto sembra piuttosto essere la rilegittimazione del sistema burocratico accademico che blocca la nostra università.

Secondo Fabbrini già dal '48, cioè dall'eredità del fascismo si istaurò un ordinamento prevalentemente basato sul sistema delle cattedre, sul provincialismo e sul corporativismo.

Con gli anni sessanta si ebbe la liberalizzazione degli accessi, giusta e opportuna, che però sorti l'effetto di produrre 30 laureati su 100 studenti.

Una maggiore discontinuità si ha invece dall'89 con i provvedimenti sull'autonomia, che però non sono sostenuti da alcun finanziamento. Seguono la riforma dei curricula, l'istituzione dei dottorati e della riforma del cosiddetto 3+2, provvedimenti che certamente non giovano ai figli degli operai e ad un rinnovamento della classe dirigente. Per Fabbrini in realtà in primis occorre abolire il valore legale del titolo di studio "rendendo evidente a tutti (anche sul piano simbolico) che l'università va valutata per ciò che insegna e produce e non per il pezzo di carta che fornisce". Particolarmente condivisibile a nostro avviso la mancata creazione di graduate schools come in Europa e negli Stati Uniti, per l'istituzione delle quali occorreva collegare le lauree magistrali ai dottorati e non già ai trienni come avviene ora.

In realtà sembra condivisibile la critica di Fabbrini riguardo ad una istituzionalizzazione di un sistema di autorità fondamentalmente basato sul controllo delle cattedre e non sulla nuova idea di università di cui ha scritto, com'è noto tra gli altri, Clark Kerr che prende atto della nascita di una multiversity e di una governance che non rispecchi in prevalenza il modello medievale.

La domanda alla possibilità di sviluppo di una moderna università di massa restava ancora senza risposta.

Insomma non c'è stata nessuna rivoluzione accademica in Italia, nessun passaggio di potere di banca o finanza all'affermazione dell'università di massa, nessun decentramento o sistema elettivo, cioè piena scelta di docenti e studenti, ma piuttosto l'obiettivo di una accumulazione di conoscenze.

Quanto al ruolo giocato dallo Stato occorrerebbe una più approfondita ricerca storica sul ruolo reale della burocrazia, pur restando lontano dagli esempi delle migliori università europee e americane[2].

 



[1] Cfr. Sergio Fabbrini, Quale politica universitaria in "Italiani ed Europei", 4/2007

[2] Cfr. L. Veysey, The emergence of the American University, Chicago 1965, anche L. Avagliano, Il cuore del capitalismo Americano, Milano 1998, pp. 51 ss.