Attualitą
Enrico Maiorino
Generazioni "privilegiate" o generazioni invisibili?
Intervista a Peppino Ortoleva (professore di Storia e teoria dei media all'Università di Torino) autore tra l'altro di I movimenti del '68 in Europa e in America (Editori Riuniti) e di Il secolo dei media (Il Saggiatore)
Maiorino: Si sente spesso parlare di "nativi digitali". Qual è il significato che lei attribuisce a questa espressione?
Ortoleva: Naturalmente, può avere una sua plausibilità l'idea di definire "nativi digitali" i nati dopo gli anni Ottanta: avendo conosciuto fin dalla prima infanzia da un lato il computer e la rete dall'altro forme di comunicazione su base informatica come i videogame, questi si avvicinano all'universo di queste tecnologie con un atteggiamento diverso rispetto a coloro che hanno dovuto adattarvisi con maggiore o minore fatica. La storia ci insegna che le relazioni con i media (i vecchi e i nuovi) si modificano sempre con le generazioni, e in particolare che quelle che li incontrano quando sono già maturi rischiano da un lato di sopravvalutare i loro presunti effetti perversi, dall'altro di pensarli nei termini delle tecnologie più antiche. E' la famosa osservazione di McLuhan per cui i primi a disegnare le automobili le pensarono come "carrozze senza cavalli", perché non riuscirono a togliersi dalla mente l'immagine dei veicoli che le avevano precedute; solo successivamente le auto sarebbero state concepite come una realtà autonoma e distinta.
Detto questo, io considero l'espressione "nativi digitali" ingannevole e mistificante da vari punti di vista. Prima di tutto, quando parliamo dell'universo dei media non dovremmo farci condizionare da un linguaggio che nasce più che altro nel mondo del marketing: espressioni come "Web 2.0", come qualche anno fa "realtà virtuale", e appunto "nativi digitali" sono tutte nate con implicazioni promozionali e/o celebrative, per cui poco si prestano anche semplicemente a osservazioni rigorose, meno ancora ad analisi critiche. Non a caso, sono espressioni che si deteriorano rapidamente: oggi quasi nessuno parla più di "virtuale", e anche "multimediale" è un termine obsoleto. Come si sa non c'è niente di più vecchio di quello che passa di moda, e questo è tanto più grave se di questi termini vogliamo servirci per interpretare l'innovazione e il cambiamento. Più che di nativi digitali dovremmo parlare della dinamica di penetrazione delle tecnologie e di come cambia nel tempo; per farlo dovremmo conto, oltre che dell'età, della collocazione sociale, dell'istruzione, e di fattori pure importanti come l'essere single o il vivere in famiglia.
Ma la cosa più grave è un'altra. L'espressione "nativi digitali" implica che sia un privilegio l'appartenere alla generazione nata dopo il 1990 o anche a quella nata tra il 1978 circa e il 1990. Un privilegio? Ma andiamo. Stiamo parlando di due generazioni che pagano costi spaventosi in termini di occupazione, reddito e riconoscimento sociale: la più anziana in particolare rischia di essere l'autentica "generazione perduta" del nostro tempo, li stiamo vedendo invecchiare (loro e quelli nati poco prima, dal 1970 in poi) senza avere mai conosciuto né un vero posto di lavoro né un reddito che li faccia sentire veramente padroni del proprio destino. D'altra parte, gli attuali trenta-trentacinquenni trovano in Internet, grazie alla loro abitudine all'uso, e anche al loro livello d'istruzione in genere più elevato di quello delle generazioni più anziane, una possibilità di consumi e di partecipazione culturale che possono permettersi, almeno finché l'uso della rete resterà gratuito o quase, nonostante redditi spesso inferiori ai mille euro al mese.
E' un privilegio o una consolazione? Io credo che Internet (che pure resta una delle massime innovazioni degli ultimi cento anni), i voli a basso costo, le merci cinesi che hanno operato una discreta forma di deflazione, abbiano tutti contribuito a nascondere uno dei problemi sociali più gravi del nostro tempo, una catastrofe che sta attraversando tutti i paesi occidentali nel silenzio generale: perché su questo la sinistra ha almeno altrettante colpe della destra. E credo che la questione generazionale sarà nei prossimi due-tre decenni una delle massime cause di conflitto, un conflitto che sarà traversale alle linee tradizionali degli schieramenti politici.
Altro che nativi digitali.
Maiorino: A questo proposito, che senso attribuisce alle rivolte giovanili di quest'estate nel Regno Unito. Sono un sintomo di una decadenza di quel paese?
Ortoleva: Non sono un esperto del Regno Unito, paese dal quale manco del resto da parecchi anni. Una risposta generale quindi rischia di essere un po' generica: comunque ho la sensazione che il thatcherismo (mai realmente superato dai successori, né conservatori né laburisti) abbia accelerato una tendenza già insita nella società britannica a dividersi su linee di classe in modo più evidente che altrove in Europa, e parallelamente a dividersi tra due economie, quella di Londra fortemente metropolitana e legata soprattutto al ruolo finanziario di livello mondiale della piazza londinese, e quella del resto del paese, che presenta livelli gravi di de-industrializzazione e di disoccupazione diffusa. Molti sono i disoccupati figli di disoccupati cronici, o addirittura nipoti, cosa che produce da un lato forme di disperazione profonda e difficile da comprendere in termini puramente socio-economici, dall'altro forme di dipendenza dallo Stato che fanno da contenitore a un possibile dissenso.
Proprio per questo le rivolte di quest'estate sono un segnale, secondo me, importante. Molti anche a sinistra le hanno giudicate severamente, sottolineando che si è trattato di azioni di pura violenza senza obiettivi e definendole prive di significato politico. Credo che abbiano la memoria corta. Tra il 1964 e il 1967 ci furono rivolte nere nelle grandi metropoli degli USA, dal ghetto nero di Los Angeles, a Detroit, a Newark a un passo da New York: non erano poi molto diverse, si trattò soprattutto di grandi gesti di rabbia, anche autodistruttiva, passarono alla memoria con la parola d'ordine Brucia, ragazzo, brucia. Chiunque ripensi storicamente a quegli eventi però deve rendersi conto che si trattò di un passaggio importante, tra gli inizi del movimento nero nel Sud con la lotta per i diritti civili e con l'azione di figure come Rose Parks (il boicottaggio dei bus di Montgomery, Alabama) e come Martin Luther King, e lo sviluppo di un vero e proprio movimento di massa che avrebbe nel giro di pochi decenni cambiato gli Stati Uniti.
E se le rivolte dell'estate scorsa, non a caso nel paese d'Europa dove la divisione su linee di reddito e di classe è la più intollerabile, fossero il segnale di una generazione che non è più disposta ad accettare una condizione non solo di miseria ma di negazione? Alle soglie del formarsi del movimento nero, nel 1952, il romanziere Ralph Ellison aveva pubblicato Invisible Man. Oggi dovremmo parlare non di una ma di più generazioni invisibili: speriamo che lo restino ancora per poco; e speriamo, questo sì, che diano vita a fenomeni di mobilitazione meno distruttiva e più consapevolmente politica.
Altro che nativi digitali.