Universitą


Roberto Galisi

Intervista prof. Patrizio Bianchi (Universitą di Ferrara e Regione Emilia Romagna)

Galisi: prof. Prof. Bianchi In Italia, la crisi economica, potrebbe apparire come il prodotto di uno stesso e più generale declino di un modello di sviluppo; sembrerebbe opportuno contrastare questa dinamica recessiva con una azione comune, che affronti congiuntamente le criticità manifestate dal sistema economico, dando risposte attraverso innovazioni in modo da innalzare i tassi di crescita. Quali sfide servono?

Prof. Bianchi: I processi di innovazione debbono essere visti come il fattore cruciale per lo sviluppo del Paese in una fase di completo ridisegno dell’ organizzazione della produzione e degli scambi commerciali, connessi alla grave crisi economica che ha segnato questi ultimi anni a livello mondiale. I dati ci consegnano infatti un Paese che continua a crescere troppo lentamente per risolvere i gravi problemi di occupazione e di crescita, che ci trasciniamo ormai da oltre dieci anni. È infatti dalla seconda parte degli anni novanta che i tassi di crescita dell’economia italiana si mantengono attorno all’1%, nettamente al di sotto della media europea e lontanissimi da quei paesi, che entrati in ritardo nell’economia mondiale, da allora ne determinano i tassi di crescita.

Galisi: Che impatto ha avuto l’euro sull’economia italiana e come si è sviluppata l’economia italiana?

Prof. Bianchi: Esauritasi la spinta delle svalutazioni strategiche ed inserita nell’economia dell’Euro, la struttura produttiva italiana ha progressivamente delineato un profilo dualistico, in cui si distinguevano nettamente imprese, settori ed ambiti territoriali interconnessi con i paesi in forte crescita ed imprese e territori, che rimanevano lontani ed esclusi da questa vera e propria nuova rivoluzione industriale, che si stava realizzando a livello globale. Mentre i settori della meccanica di produzione – macchine utensili, packaging, sistemi di controllo numerico – crescevano a ritmi accelerati, perché orientati a sostenere i processi di industrializzazione delle nuove economie emergenti, i settori rivolti al mercato interno registravano tassi di crescita più lenti, proprio perché rivolti ad un contesto nazionale segnato da stagnazione dei consumi privati e forti difficoltà della spesa pubblica, segnata a sua volta dal gravame del pesante debito dello stato.

Galisi: Come ha vissuto l’Italia la crisi finanziaria globale?

Prof. Bianchi: La crisi finanziaria del 2008 esaspera questo contrasto interno al Paese. La crisi globale vede dunque un’Italia da tempo afflitta da una malattia interiore, che ne ha segnato i ritmi di crescita, una malattia ricordiamolo che si accompagna nel mondo ad altre sindromi depressive, come quella giapponese o quella stessa che ha colpito l’industria americana. Sulle origini di questo male gravano certamente pesi enormi, come un debito pubblico senza confronti ed un apparato statale che non riesce ad esprimere quella dinamicità necessaria per sostenere lo sviluppo. Tuttavia bisogna riflettere anche se la stessa struttura industriale sia ancor oggi adeguata a rilanciare una rapida crescita.

Galisi: Cosa fare?

Prof. Bianchi: Su questo tema ad esempio la Banca d’Italia individua il rischio che, superata la crisi finanziaria globale, il nostro Paese si ritrovi non solo con più debito pubblico, ma anche con un capitale privato depauperato dal forte calo degli investimenti e dall’aumento della disoccupazione. Questa riflessione sulla debolezza interna del sistema industriale italiano viene avanzata sulla base dei dati della ricerca interna realizzata dalla Banca d’Italia. Secondo la Banca d’Italia un processo di ristrutturazione si era avviato in parti importanti del nostro sistema produttivo nella prima metà del decennio, in coincidenza dell’entrata dell’euro; molti segnali evidenziavano significativi aumenti di produttività e forza competitiva sui mercati internazionali. La caduta della domanda a livello globale, ma in particolare sui mercati in cui le nostre imprese erano più forti, cioè Germania e Stati Uniti, ha comportato forti riduzioni di fatturato, più del 20 per cento per molti comparti produttivi, e questi, in connessione con l’incertezza sulla durata della crisi hanno portato a piani di riduzione degli investimenti del 12% nel complesso dell’industria e dei servizi, di oltre il 20 nella manifattura nel solo 2008 (Banca d’Italia, Relazione annuale del Governatore, 2009, p.14). Il Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano della stessa Banca d’Italia aveva individuato in Italia circa 65.000 imprese dell’industria e dei servizi con almeno 20 addetti. Di queste metà sono state coinvolte nel processo di ristrutturazione. Per queste vi è un calo del fatturato nel 2009 nettamente inferiore all’altra metà, che non ha ristrutturato ed è arrivata alla crisi con significativi problemi di indebita-mento. Le imprese che hanno già ristrutturato e che sono finanziariamente più solide presenti in questo gruppo affrontano la crisi globale, non solo reggendo alla caduta di domanda, ma anche consolidando la propria posizione sia intermini tecnologici e che di sbocchi di mercato. Queste sono circa 5.000, con quasi un milione di addetti.

Galisi: La restrizione dei finanziamenti compromette il processo di ristrutturazione delle PMI?

Prof. Bianchi: Vi sono poi imprese che avevano già deciso di accrescere scala dimensionale, intensità tecnologica, apertura internazionale, ma per realizzare la loro ristrutturazione si erano indebitate con il sistema bancario e finanziario. Per queste imprese la crisi globale genera pesanti effetti sui flussi di cassa, l’irrigidirsi dell’offerta di credito bancario, la forte difficoltà ad accedere al mercato dei capitali; la Banca d’Italia stima queste imprese attorno alle 6.000, che impiegano anch’esse quasi un milione di lavoratori (Banca d’Italia, Occasional paper, n.45, aprile 2009).

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Prof. Bianchi: Questa la situazione delle imprese con più di venti addetti, la situazione delle piccolissime imprese industriali ed artigiane viene ritenuta dalla Banca d’Italia negativa, al punto di dover rilevare che a risentire della crisi sono soprattutto le imprese piccole, sotto i 20 addetti; si parla qui di quasi 500.000 imprese, con poco meno di due milioni di occupati, nella sola manifattura. Le difficoltà maggiori sono per quelle imprese piccole e piccolissime imprese che operano in qualità di sub-fornitrici di imprese maggiori, da cui subiscono tagli degli ordinativi e dilazioni nei pagamenti, con l’effetto che per molte di loro la crisi mette a rischio la stessa sopravvivenza (Banca d’Italia, Relazione annuale del Governatore, 2009, p.10). Ecco allora una prima risposta alla domanda prima avanzata. Dai dati riportati la situazione appare infatti evidente che solo metà delle 65 mila imprese con più di venti addetti aveva già avviato un processo di ristrutturazione interno, tale da permettere di affrontare la crisi mondiale reagendo alla caduta della domanda. Di queste però solo un gruppo significativo ma minoritario è anche in una condizione finanziaria e patrimoniale tale da consolidare le posizioni di vantaggio sui mercati internazionali; un secondo gruppo invece, di dimensione pari al primo, ha ritardato la ristrutturazione e si è trovato nel pieno della crisi in una condizione patrimoniale molto delicata. Riprendiamo allora le indicazioni della Banca d’Italia e mettiamoli in fila dividendo le 65 mila imprese in quattro gruppi in relazione al modo in cui le imprese hanno affrontato la crisi: I) 5000 imprese dinamiche, con un milione di addetti, che hanno affrontato la crisi avendo già ristrutturato sia le loro attività produttive, sia la loro situazione patrimoniale. Questo è il 7,7% del totale. II) 6000 imprese, pari al 9,3% del totale, che avendo ritardato nell’avvio di ristrutturazione, debbono affrontare la crisi pesanti posizioni debitorie che frenano il loro riposizionamento internazionale. III) circa 21500 imprese, pari al 33% circa del totale, che pure hanno solo marginalmente ristrutturato, non sono gravate da grandi carichi di debiti, ma sono in difficoltà sul mercato in questa fase di crisi non avendo vantaggi competitivi significativi. IV) circa 32500 imprese, pari al restante 50%, che non sembra avere neppure intrapreso una ristrutturazione, né della organizzazione produttiva, né della struttura patrimoniale, per affrontare l’apertura dei mercati globali.

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Prof. Bianchi: Infine, sempre secondo la Banca d’Italia, le imprese maggiormente danneggiate dalla crisi sono le imprese con meno di 20 addetti, ed in particolare proprio quelle che vivevano di subfornitura ed outsourcing di quelle imprese più grandi, che oggi di fronte alla crisi: - o riportano all’interno della azienda madre le proprie produzioni già decentrate, scaricando sui subfornitori la riduzione della domanda, - oppure recuperano internamente produzioni che però vengono for-temente meccanizzate, - oppure, infine, decentrano sempre più lontano in altri contesti più competitivi.

Galisi: Le imprese sono il motore dello sviluppo economico. Per reggere le sfide poste dalla crisi globale bisogna rafforzare questo modello?

Prof. Bianchi: La prima considerazione allora è che in Italia ci sono circa 5000 imprese, che riteniamo di media dimensione, che sono capaci di crescere anche nella crisi globale, perché hanno già compiuto quel processo di riposizionamento sul mercato mondiale, che le porta ad essere leader di mercato. Non si tratta più solo di punte eccellenti, ma di una area che occupa un milione di addetti. Questi operano probabilmente nei comparti del Made in Italy, come abbigliamento, arredamento, alimentare, ma anche nella meccanica avanzata e nell’automazione industriale. Sono imprese in genere del nord, che da imprese strettamente famigliari si sono evolute in gruppi d’impresa in grado di esportare e di investire al’estero. Non di meno queste sono il 7,7 per cento del totale, che non è sufficiente a trascinare un Paese verso una crescita adeguata.

Galisi: Approfondiamo gli effetti della crisi internazionale nel contesto italiano?

Prof. Bianchi: La crisi finanziaria globale scoppiata alla fine del 2007 è solo l’elemento che rende evidente quanto lunga sia ormai la “malattia italiana” e quanto questa scarsa dinamica produttiva abbia radici in dati strutturali, sempre più chiaramente individuati nelle analisi, ma sempre più rimandati nelle soluzioni.

Galisi: Quali sono i fattori critici e quali capacità di innovazione bisogna apportare al sistema Italia?

Prof. Bianchi: Nel lungo periodo precedente la crisi, tre fattori critici esterni hanno cambiato le condizioni stesse del mercato, sconvolgendo i vantaggi competitivi consolidati nel commercio mondiale, ma alterando anche gli strumentari d’intervento da parte degli stati nazionali. Questi sono: 1) la globalizzazione come fenomeno di entrata sul mercato di nuovi grandi competitori, 2) l’integrazione europea e l’introduzione dell’Euro, che hanno mutato significativamente la stessa estensione del mercato, 3) la rivoluzione tecnologica, data dall’ introduzione sistematica delle tecnologie ICT, che ha inciso significativamente su processi, prodotti ed organizzazione industriale. Il rapporto del Gennaio 2009 dell’EUROPEAN INNOVATION SCOREBOARD, COMPARATIVE ANALYSIS OF INNOVATION PERFORMANCE, delinea per l’ottava volta un’analisi molto approfondita delle capacità innovative di ogni Paese europeo, collocandoci in base all’indice composito di “innovation performance” al 19esimo posto sui 27 membri della Unione. Si ricordi che l’European Innovation Scoreboard (EIS) è lo strumento dell’Unione europea per misurare come i Paesi europei abbiano sviluppato le loro capacità innovative, secondo quanto sottoscritto con la Strategia di Lisbona. Si tratta dunque di un indice composito che sintetizza trenta indici specifici relativi a risorse umane, finanza, investimenti delle imprese, relazioni e capacità imprenditoriali, risultati (brevetti, etc.), innovazioni di prodotto, processo, organizzazione, effetti economici. (EIS, 2009, p.7). L’ottava indagine rileva dunque che Svezia, Finlandia, Germania, Danimarca e UK vengono oggi considerati i cosiddetti Innovation leaders, con risultati innovativi molto al di sopra della media europea. Di questi è la Germania il Paese che ha accelerato di più il suo tasso di crescita nella performance innovativa. Austria, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Francia and Olanda sono gli Innovation followers, con l’Irlanda come Paese più dinamico. Cipro, Estonia, Slovenia, Republic Ceca, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia sono definiti Moderate innovators, con risultati innovativi sotto la media europea. Mentre Cipro e Portogallo sono al di sopra della media del gruppo, Spagna e Italia risultano stagnanti e l’Italia risulta l’ultima di questo gruppo. Malta, Ungheria, Slovacchia, Polonia, Lituania, Romania, Lettonia e Bulgaria sono Catching-up countries, con medie molto al di sotto della media europea (EIS, 2009, p.3). Lo Scoreboard 2009 rileva in particolare per l’Italia, ultimo dei Moderate Innovators, che non solo il livello medio di innovazione è più basso della media, ma che anche il tasso di miglioramento è al di sotto di quello degli altri 27 Paesi europei.

Galisi: L’elemento significativo è dato dall’analisi dei punti di forza e di debolezza del Paese, la nona edizione dell’EIS 2009 fornisce una valutazione comparativa della capacità di innovazione dei 27 Stati membri, nell'ambito della Strategia di Lisbona dell'UE. La metodologia per il 2009 EIS è identica a quella del 2008 EIS: «Punti di forza relative, in confronto ai risultati medi degli altri Paesi, sono le voci Finanza ed attività di sostegno e Effetti economici; I punti di debolezza sono invece Risorse umane, Investimenti delle imprese e Relazioni e imprenditorialità (Linkages & entrepreneurship)» (EIS, 2009, p.35). Quali sono i punti di forza?

Prof. Bianchi: I punti di forza sono quindi nelle attività di sostegno finanziario, negli effetti economici di tali interventi innovativi, mentre i punti di debolezza sono le risorse umane, gli investimenti e qui merita tutta la nostra attenzione- proprio la voce “linkages and entrepeneurship” che esplora le capacità di innovazione delle piccole e medie imprese, e la loro capacità di innovare collaborando con altre piccole imprese o con altre istituzioni innovative.

Galisi: Nella relazione, preparata dal Comitato economico e sociale di Maastricht centro di ricerca e formazione in materia di innovazione e tecnologia (UNU-MERIT), viene precisato ancora più chiaramente che:«Negli ultimi 5 anni, si è registrato un vistoso miglioramento nelle voci Risorse umane, Finanza e attività di sostegno, e Prodotti (brevetti, contratti, ecc.), che sono risultati i maggiori fattori di crescita degli esiti innovativi. Questi derivano in particolare da una forte crescita nelle voci relative al numero di laureati di primo livello (lauree triennali, + 8,8%) e di secondo livello (lauree magistrali e dottorati, +22,7%), alla diffusione degli accessi delle imprese alle comunicazioni a banda larga (+18,6%), all’utilizzo dei marchi commerciali (+4,7%). I risultati relativi agli investimenti delle imprese non risultano affatto migliorati e i risultati degli innovatori e gli effetti economici sono addirittura peggiorati, in particolare a causa del peggioramento degli indici relativi a Vendite di beni innovativi finali (-7,8%) e Vendite di beni innovativi intermedi (-5,3%)» (EIS, 2009, p.35).

Prof. Bianchi: Prendendo quindi in considerazione i dati europei che misurano la capacità dei singoli Paesi di seguire quella Strategia di Lisbona, su cui si erano impegnati dapprima nel 2001 e poi nel 2005, risulta che il maggior miglioramento nei risultati si è avuto proprio nelle risorse umane ed in particolare nell’indice di laureati triennali ogni 1000 abitanti fra i 20 e i 29 anni e nell’indice che misura i laureati di secondo livello, cioè le lauree magistrali e i dottorati, ogni 1000 abitanti fra i 24 e i 34 anni, testimoniando i risultati raggiunti dalle università italiane con la riforma del 2000. Galisi: Cosa succede in tale situazione? Prof. Bianchi: Per contro gli investimenti delle imprese in attività innovative non crescono e peggiorano i risultati dell’innovazione, in particolare per la caduta nelle vendite di prodotti innovativi, sia finali che intermedi, segnalando come è da attribuire proprio al sistema delle imprese il centro delle difficoltà strutturali del sistema produttivo italiano. Questa analisi fotografa dunque un Paese in grande difficoltà, che si sta indebolendo in quegli aspetti sia organizzativi che comportamentali, che apparivano in passato essere la chiave del suo successo produttivo. La capacità di produrre beni innovativi fortemente legati ad una domanda specifica, disponendo di processi innovativi e flessibili viene meno, con il venir meno di quella capacità di relazione e di imprenditorialità diffusa, che è stata per due decenni la cifra vincente dei nostri distretti, che chiaramente- secondo questa analisi comparativa a livello europeo- non è riuscita a mantenere il passo con il resto dei Paesi europei più avanzati e dinamici, rimanendo all’ultimo posto, prima della pattuglia dei Paesi di nuova adesione.

Galisi: Quali sono le strutture produttive e le prospettive per il territorio?

Prof. Bianchi: La crisi economica globale agisce su questo contesto indebolito con effetti disomogenei nelle diverse aree del Paese. Un calo del prodotto interno lordo è stato marcato nel Centro Nord, in particolare a causa della crisi dell’intero comparto dell’automobile, ma le maggiori difficoltà si sono registrate nel Mezzogiorno, dove la catena di fornitura e subfornitura ha trasmesso gli impulsi recessivi alle imprese minori, lasciando registrare difficoltà di pagamento e di reperimento dei fondi che per le piccole imprese meridionali, ultime nella catena produttiva, sono risultate in molti casi devastanti (Banca d’Italia, Economie regionali, 2009, p.5). La difficoltà a trovare credito da parte delle imprese meridionali si è del resto accentuata proprio nei primi mesi di crisi, delineando difficoltà “ambientali”, che rendono particolarmente difficile operare nel Sud e nelle Isole (Banca d’Italia, Economie regionali, 2009, p.17).

Galisi: Potrebbe risultare dunque evidente che l’esistenza di tali dualismi pregiudica di gran lunga le possibilità di trovare un terreno comune su cui dialogare e stabilire alcuni comuni punti programmatici di tutela erappresentanza degli interessi industriali?

Prof. Bianchi: I dati del 2010 e dei primi mesi del 2011 confermano questi dati, con una sempre più netta divaricazione fra le imprese che si rivolgono alle esportazioni e quelle orientate al mercato interno. Le previsioni per il prossimo triennio confermano infatti che la domanda interna rimarrà schiacciata a livelli dell’0, 5% annuo, mentre le esportazioni cresceranno in maniera molto differenziata settore per settore, in ragione della tipologie dei beni che le imprese italiane riusciranno a collocare su mercati mondiali in rapida trasformazione. A livello mondiale si sta infatti registrando un ampio processo di frammentazione dei cicli produttivi con allocazione delle singole fasi nei contesti ambientali più favorevoli, cosicché i fenomeni di delocalizzazione della produzione, già conosciuti in passato per le fasi a minore aggiunto, oggi si realizzano nell’ambito di cicli produttivi sostanzialmente globalizzati. Infatti mentre in passato le imprese dei paesi industrializzati decentravano in aree meno sviluppate produzioni a basso costo del lavoro, mantenendo ben saldo il controllo delle attività a più alto valore aggiunto, quali ricerca e finanza, ora si evidenzia sempre più una tendenza a spostare nei paesi in rapida crescita anche le funzioni più pregiate, ricercando negli stessi paesi già sviluppati di ridurre il costo del lavoro e di affermare condizioni contrattuali meno garantiste.

Galisi: C’è la necessità delle Istituzioni di ottimizzare la gestione dei processi per raggiungere una maggiore crescita? La metodologia didattica utilizzata dovrà essere fortemente orientata alla gestione di progetti a livello internazionale?

Prof. Bianchi: Del resto i dati del OECD Education at Glance 2010 ci dimostrano la rapida crescita delle strutture didattiche e di ricerca nei paesi in via di sviluppo ed in particolare nei BRICs dove crescono rapidamente in particolare i laureati in ingegneria e nelle materie scientifiche. Ne è riprova la straordinaria crescita nel 2009 del numero di brevetti registrati in Cina, dove visibilmente si sta strutturando in breve tempo un sistema innovativo nazionale, che ha nelle università il suo punto di forza. Il caso di Canton, dove di recente le 13 università presenti in città, hanno ristrutturato congiuntamente un intera isola, per realizzare un enorme campus integrato, in cui consolidare laboratori ed attività spin off, è divenuto esemplare di come la Cina intenda proporsi ora non solo come centro di trasformazione manifatturiera, ma anche come centro di ricerca e formazione superiore.

Galisi: Quali piani strategici Lei pensa che potrebbe adottare l’Italia?

Prof. Bianchi: Nel complesso processo di trasformazione dell’economia a livello mondiale infatti emerge sempre più evidente un fenomeno che chiameremo di “unboundling produttivo”, cioè di utilizzo da parte delle imprese di infrastrutture esistenti, per sviluppare le proprie attività a più alto contenuto di ricerca e formazione. In altre parole le imprese tendono a localizzare le loro fasi strategiche connesse con ricerca e sviluppo, laddove possano godere dei vantaggi di agglomerazione con concentrazioni di università e centri di ricerca, potendone utilizzare le reti di conoscenza, ma anche laddove si ritrovano scuole pubbliche e centri privati, in grado di formare il personale ai diversi livelli, richiesti in produzioni complesse. Galisi: Quale ruolo dovrebbero avere le università? Prof. Bianchi: Il tema dell’innovazione – o meglio dell’organizzazione dei sistemi innovativi - resta dunque centrale per il rilancio del Paese, tuttavia bisogna ricordare che i sistemi di relazione fra centri di produzione della conoscenza sono per loro definizione basati sulla esistenza di circuiti comunicativi in grado di intersecare, confrontare, mutuare le innovazioni introdotte nel singolo centro. Tali circuiti sono in taluni casi già codificati, in altri vanno ridefiniti sia dal basso, generando opportunità di relazione, sia dall’alto regolandone l’effettiva possibilità di scambio. In tutti i Paesi più avanzati il perno di tali network conoscitivi sono le università.

Galisi: L’università italiana sta cambiando. La progressiva riduzione delle risorse finanziarie etc sono problemi con i quali l’Università deve sapersi misurare in maniera prospettiva e progettuale? Inoltre si dispone di un patrimonio umano di grande grandissima qualità, ma credo indubbiamente sottodimensionato?

Prof. Bianchi: In questo contesto le università italiane stanno vivendo una fase di straordinario interesse, perché per un verso, da ormai dieci anni, stanno subendo processi di riforma tali da modificarne gli stessi assetti storici e per l’altro dal basso si stanno generando nuovi fenomeni di aggregazione, essenzialmente in base alla capacità del singolo ateneo di relazionarsi nel contempo con la propria realtà locale e con la comunità scientifica internazionale. In questo senso le università più dinamiche sono quelle che riescono ad agire da effettivo snodo fra il livello globale ed il livello locale.

Galisi: La riforma universitaria ha risposto all’ esigenza di migliorare la qualità dell’istruzione universitaria e le modalità di funzionamento dell’apparato universitario, al fine di recuperare competitività nell’ ambito della formazione professionale europea? L’introduzione dei nuovi titoli universitari (laurea triennale e laurea specialistica) e la definizione delle diverse classi di laurea ha avuto i suoi effetti desiderati?

Prof. Bianchi: Dopo la riforma del 2000 – riforma che recepisce il cosiddetto Processo di Bologna- gli iscritti alle università italiane sono cresciuti fino a 1.800.000 con un numero di immatricolati che si è assestato sui 325 mila all’anno ed una incidenza rispetto al numero di 19enni presenti (575 mila) in forte crescita negli ultimi anni, passando dai 45 immatricolati su 100 del 2001/2 (primo anno della riforma) fino a 56 nel 2005/6 (primo anno di piena applicazione della riforma) ed un numero di laureati che ha raggiunto i 300 mila, attestandosi poi su questi valori. Dal 2009 il trend si inverte ed il numero di immatricolati comincia a ri-dursi, con il contrarsi dell’offerta formativa, come effetto della manovra finanziaria, prima ancora della Riforma Gelmini. Nel 2010-11 la riduzione generalizzata appare attorno ad un 10%, riportando l’Italia fra gli ultimi paesi della classifica OECD. Galisi: Per le sfide del futuro occorre una maggiore qualificazione del capitale umano e diffusione della conoscenza? Quali ulteriori strategie adottare? Prof. Bianchi: Lo sforzo realizzato è stato dunque quello di rendere l’università accessibile al maggior numero di giovani, sostenendo l’innalzamento dei livelli educativi essenziali. In questo senso la riforma e la diffusione territoriale delle università sul territorio hanno risposto ad un obiettivo sociale di ampliamento della base educativa del Paese, tuttavia il Paese non ha riconosciuto questo risultato perché il mercato del lavoro che non ha voluto riconoscere lo sforzo di innovazione del sistema e non ha acquisito come proprio il cambiamento organizzativo del sistema educativo.

Galisi: Il dottorato di ricerca è stato introdotto in Italia solo nel 1980. Ad oggi quali sono gli effetti?

Prof. Bianchi: All’interno degli obiettivi educativi dati oggi all’università, vi è quello di formare la punta avanzata del sistema educativo stesso cioè i dottorati, non solo come percorso necessario alla entrata nel sistema universitario, ma come formazione avanzata di una classe dirigente che formandosi alla ricerca si propone per le funzioni direttive del Paese. Anche in questo caso lo sforzo è stato notevolissimo, ma non si è generato un fenomeno di riconoscimento da parte del mercato del lavoro, e più in generale del Paese, del ruolo che il dottorato deve giocare per la formazione di una classe dirigente. Si è rimasti tuttavia all’interno di un sistema universitario non sufficientemente interrelato con il sistema industriale.

Galisi: Le recenti politiche per l’internazionalizzazione del sistema universitario, hanno messo in luce l’esigenza, da parte delle università italiane in particolare, di porsi e proporsi quali punti di riferimento di qualità per la formazione e la ricerca nella comunità internazionale, l’Università italiana come sta reagendo?

Prof. Bianchi: La seconda missione riguarda la ricerca, o meglio la presenza nella comunità internazionale della ricerca. Il posizionamento dell’Italia in questo ambito appare paradossale, poiché nonostante la scarsità di risorse pubbliche i risultati in termini di pubblicazioni scientifiche appaiono molto rilevanti nel confronto internazionale.

Galisi: Come rafforzare il sistema produttivo?

Prof. Bianchi: La terza missione è ancor più significativa, produrre innovazioni e trasferirle in modo efficiente al sistema produttivo. Prima del 2000 solo 5 università in Italia avevano un ufficio dedicato al trasferimento tecnologico, nel 2007 54 università hanno un ufficio dedicato al trasferimento ed alla creazione di spin off. Questo ultimo caso è particolarmente rilevante. Nel 2007 erano state create dalle università italiane 364 nuove imprese high-tech, con almeno 17 università con più di 10 imprese (Netval, 2009). Un risultato di grande importanza che tuttavia rischia di disperdersi in singoli casi pur importanti, come appunto il Politecnico di Torino o la stessa università di Ferrara (riconosciuta dal CIVR - Commissione ministeriale per la valutazione della ricerca al primo posto per valorizzazione della ricerca). Egualmente in crescita su base nazionale sono i contratti e le invenzioni tutelate dai centri di trasferimento tecnologico istituiti presso le università italiane. Rilevante è anche l’analisi delle fonti di finanziamento della ricerca universitaria, che ha portato a esiti registrati dai TTO italiani, con la evidenza di una rapida riduzione delle risorse provenienti dal governo cen-trale, con un aumento significativo dei contratti da privati e dei fondi comunitari e regionali. Tale evidenza ovviamente sconta una diversa condizione da parte delle università che si ritrovano ad operare in contesti in cui è possibile sviluppare rapporti diretti con imprese di maggiori dimensioni, in condizioni di investire direttamente nella ricerca anche in contesti regionali, in cui i governi territoriali esprimono politiche a favore dell’innovazione e della ricerca industriale. Sia pure con molte difficoltà le università sono riuscite a dotarsi di stru-menti per una più sistematica diffusione dei risultati della ricerca; tuttavia nella generale situazione di riduzione delle risorse pubbliche che ha accompagnato la Riforma Gelmini bisogna riallineare gli obiettivi dell’università ai grandi problemi che il paese deve affrontare.

Galisi: La riforma universitaria da poco approvata dal Parlamento modifica il sistema universitario in particolare in tre settori: organizzazione interna delle università, diritto allo studio, stato giuridico e forme di reclutamento dei ricercatori e dei professori. Nel complesso, qual è il Suo parere su questa riforma?

Prof. Bianchi: Il primo tema che si pone è dunque come la Riforma Gelmini inciderà sulla capacità delle università di sostenere ed aumentare le interrelazioni fra la ricerca e l’alta formazione e l’economia sia locale che internazionale in cui il singolo ateneo e collocato. Il secondo tema è dato dal ruolo che strutture di servizio come le fonda-zioni possono offrire in questa fase alle singole università ma anche al sistema universitario nel suo insieme. I compiti che le università e delle fondazioni promosse dalle università sono dunque essenzialmente tre: 1 – formazione superiore in particolare dei dottorati e sostegno degli ITS; 2 – finanziamento della ricerca e e sostegno della research community; 3 – diffusione dell’innovazione e promozione di nuova impresa; a cui possiamo aggiungere nei diversi contesti locali servizi per gli studenti e per i docenti, che le università si trovano in difficoltà a gestire di-rettamente. Sul primo punto ricordo che il dottorato sarà sempre meno assistito da borse nazionali, e che del resto è sempre meno probabile che i dottorandi restino nell’università. Lo sforzo dovrebbe allora essere quello di trasformare il dottorato in un processo di formazione di classe dirigente, necessario ma non esclusivo per un percorso universitario, ma anche appealing per chi vuole indirizzarsi verso le imprese. Bisogna però rendere il dottorato credibile, utile e attrattivo anche per le imprese. D’altro lato la legge 240 pone esplicitamente fra gli obblighi dell’università il sostegno dei percorsi ITS – Istituti tecnici superiori, che debbono formare tecnici di impresa, con forte vocazione professionaliz-zante. Sul secondo punto ricordo solo che la ricerca diviene sempre più struttura essenziale per lo sviluppo di sistemi produttivi, operanti in mercati aperti e globali, ma che tuttavia il profilo industriale italiano rischia di essere il vero limite per uno sviluppo della ricerca industriale. Il rischio di rimanere intrappolati in un contesto locale asfittico è realistico, cosicché compito della autonomia universitaria e delle fondazioni universitarie diviene quello di sostenere la ricerca locale in un contesto più ampio, inserendo la ricerca universitario nel mercato mondiale della ricerca, contribuendo al compito, questo sì nazionale, di far uscire il paese dal rischio di provincialismo in cui oggi operiamo; il contributo allo sviluppo locale può essere proprio accentuato se università e fondazione operano come tramiti tra contesti locali oggettivamente chiusi e periferici e il contesto scientifico ed industriale più ampio. In questo senso la terza missione diviene tanto più importante quanto più si opera in contesti pe-riferici e chiusi localmente.

Galisi: Bisogna modernizzare anche L’istruzione e la formazione professionale?

Prof. Bianchi: La riforma delle scuole secondarie, realizzata nel 2009 dal Governo, ha nettamente separato le configurazioni dei licei, delle scuole tecniche e delle scuole di istruzione e formazione professionale. La Riforma Gelmini della scuola secondaria centra nuovamente il sistema scolastico sui licei, mentre riordina l’intero ambito della scuola tecnica, azzerando vecchie professioni, come ragionieri e geometri, e ricompattando scuole con diversi indirizzi specialistici in strutture, che rischiano di perdere le specificità professionali a cui erano dedicate. Entrambi questi ambiti restano di competenza nazionale, anche se dal 2008 giace irrisolta una bozza di accordo per trasferire la gestione funzionale della scuola alle regioni. Il comparto della Istruzione e formazione professionale invece viene attribuito al potere programmatorio delle regioni, che del resto avevano già fra le proprie competenze la formazione professionale. La linea del governo sposa l’esperienza lombarda, che porta a separare nettamente la scuola pubblica, che da tre passa a cinque anni e quindi si “liceizza” e la formazione professionale, che diviene quindi una scuola della regione, tanto che in Lombardia si procede a portare da tre a cinque anni anche questo corso di studi, ad imitazione della scuola pubblica. La Regione tuttavia eroga la qualifica al fine del terzo anno, che può essere estesa anche agli studenti degli istituti pubblici, a cui nel frattempo sono state ridotte drasticamente ore e strutture di laboratorio. Bisogna ricordare però che proprio le scuole professionali e i centri di formazione raccolgono per lo più studenti “difficili”, la quasi totalità dei figli degli “stranieri”, la quasi totalità degli studenti bocciati dalle scuole medie inferiori, cosicché proprio in questo comparto si coglie il vero nesso tra capacità di formare competenze per studenti direttamente rivolti al lavoro, ma anche il diritto di cittadinanza per persone altrimenti escluse e marginalizzate, già nella loro fase di entrata nella comunità locale.

Galisi: Quali obiettivi concreti bisogna adottare e come migliorare la qualità dei sistemi di istruzione e di formazione?

Prof. Bianchi: Infine ricordiamo che nel 2007 il Governo Prodi avviò come ultimo atto gli Istituti Tecnici Superiori, come fondazioni autonome per creare corsi di due anni post diploma e per formare i quadri avanzati dell’industria. Questi centri tuttavia vennero avviato con grande ritardo e molto diversamente fra le diverse regioni. Questi centri, che assumevano come riferimento le Hochfachshule tedesche, mettono assieme imprese, scuole, università, centri di formazione, enti locale per generare corsi, ampiamente collocati nelle stesse imprese, rivolti a profili di responsabili di produzione o anche di nuovi imprenditori, così come le scuole professionali in molte città italiane riuscirono a realizzare nell’immediato dopoguerra.

Galisi: Il lavoro molto importante che sta portando avanti, in primis, come assessore della Regione Emilia Romagna, è importante alle dinamiche di sviluppo e crescita, potrebbe diventare un esempio anche per altri?

Prof. Bianchi: La Regione Emilia-Romagna (RER) sta svolgendo – sia pure nella esplicita limitazione delle competenze e delle risorse- un’ampia azione politica nei confronti di Università, Ricerca, Scuola, Formazione e Lavoro. RER ha sviluppato da tempo politiche per lo sviluppo dei sistemi produttivi locali. In una sua prima fase, che possiamo posizionare tra fine anni settanta ed anni ottanta, la Regione riteneva che sua missione fosse quella di consolidare le comunità locali, offrendo asili, assistenza sociale, e per quanto di sua competenza, scuole ed ospedali di grande qualità. La convinzione era che proprio questi servizi alla persona costituissero il perno di quella azione di sviluppo, che passava per una forte affermazione della identità locale. Bisogna ricordare che in Emilia Romagna esisteva una tradizione robusta di formazione professionale, sorta localmente addirittura all’inizio del secolo scorso, e fortemente rilanciata nel dopoguerra. Le Scuole Pro-fessionali Aldini Valeriani e le Scuole Sirani a Bologna, le Taddia a Cento, il Corni a Modena sono esempi, fra i tanti di scuole tecniche e professionali comunali “parificati” e statizzati solo di recente, che portavano nelle realtà locali quella missione educativa per il lavoro, che ha generato non solo generazioni di operai ad alta qualificazione, ma anche una intera classe di imprenditori, nati e formati in scuole in cui si consolidavano competenze tecniche e professionali di eccellenza, ma an-che un forte senso civico ed un senso di identità, che ha contribuito in maniera essenziale a costituire quei distretti industriali, che hanno caratterizzato dagli anni settanta lo sviluppo della regione e del Paese. Oltre a queste scuole opera in regione una fittissima rete di centri di formazione professionale di derivazione religiosa, oggi riunite nella rete AECA, ed una altrettanto consolidata rete di centri di derivazione sindacale e datoriale, i primi più centrati sulla formazione dei ragazzi in età dell’obbligo, i secondi nella formazione continua degli adulti già occupati, o di adulti espulsi dal ciclo produttivo ed in cassa integrazione. La RER interviene in questo ultimo ambito con il concorso del Fondo sociale europeo, che sempre più si dirige in tutta Europa verso la qualifi-cazione del lavoro. RER oggi opera nell’ambito dell’indirizzo e sostegno dell’innovazione in tre direzioni: A) PRIITT e TECNOPOLI B) SPINNER e DOTTORATI C) ITS e I&FP A) dal 2002 la RER ha avviato un massiccio investimento, utilizzando i fondi FESR, di creazione di laboratori congiunti fra le università presenti in regione e le imprese, partendo da sei piattaforme tecnologiche comuni. Il Piano per la ricerca industriale, l’innovazione, il trasferimento tecnologico PRIITT ha creato poi con le università tecnopoli specializzati per piattaforma tecnologica. B) dal 2005 RER ha lanciato un programma su fondi FSE per la creazione di impresa da ricerca e tecnology transfer con imprese già esistenti. Nel 2011 abbiamo lanciato una sovvenzione globale FSE un pro-gramma SPINNER II, che segue una fortunata esperienza che ha sostenuto lo sviluppo di nuove imprese spin off generate in ambito universitario e una vasta azione di technology transfer da parte delle università emiliane nei confronti delle imprese della regione; questo secondo programma, lanciato nel marzo 2011 rivolge molta attenzione ai dottorati congiunti fra le università presenti in regione, i rapporti con le imprese ed infine la creazione di impresa legate ad esperienze di lavoro. Questa azione ha visto oltre 70 dottorati proporsi per partecipare a questo processo di inte-grazione. C) Questi interventi sono all’interno di un quadro complessivo di in-tervento sulla scuola professionale e tecnica, che ha visto la riforma della Istruzione e Formazione professionale (14 – 18 anni) e l’avvio di 9 fondazioni ITS, coincidenti di fatto con le piattaforma tecnologiche, poste anche a base dei tecnopoli.

Galisi: Il contributo del sistema territoriale della Regione è importante per l’attuazione dei programmi in una politica federalista?

Prof. Bianchi: Le Fondazioni promosse dalla Regione per sostenere i corsi ITS sono infatti Logistica a Piacenza, ma coinvolgendo anche il Porto di Ravenna, gli aeroporti della regione, gli interporti, agroalimentare a Parma, Meccanica a Reggio Emilia, Modena e Bologna, sia pure con diverse declinazioni, ICT centrato su Forlì-Cesena, Tecnologie dalle costruzioni e dell’abitare a Ferrara, Energia e ambiente a Ravenna, Benessere e turismo a Rimini. In ognuna delle fondazioni convergono le diverse istituzioni presenti in regione, così da generare reti interattive che possano coinvolgere le università, gli istituti scolastici, i centri di formazione e soprattutto le imprese dell’intera regione. L’azione più complessa ha riguardato invece la riforma della I&FP, mettendo insieme le scuole di formazione professionale pubbliche e i centri di formazione professionali privati, secondo una linea decisamente alternativa a quella sperimentata in Lombardia e quindi sostenuta dal Governo. La convinzione espressa nelle linee guida, approvate il 6 dicembre 2010 in Assemblea legislativa regionale senza voti contrari, ha portato ad un ridisegno dell’intero comparto spingendo gli istituti ed i centri a co-progettare l’intero percorso tenendo conto delle esigenze dei singoli ra-gazzi. Ricordiamo che gli studenti dei primi tre anni delle scuole e dei centri professionali sono oltre 35 mila in Emilia Romagna; si tratta quindi di un intervento di grandi dimensioni, che coinvolge quasi un terzo di tutti gli iscritti al primo anno delle scuole secondarie superiori. Dopo un primo anno nella scuola professionale, i ragazzi possono scegliere se seguire il percorso di cinque anni nella istruzione, o quello più rivolto al lavoro di due anni. In entrambi i casi il successo del sistema si basa sul coinvolgimento diretto delle imprese nell’orientamento e com-partecipazione nel nuova modello educativo centrato sulla cultura del la-voro. Si completa quindi un quadro complesso del sistema della Educazione e della Ricerca in Emilia Romagna, dove diventano cruciali i PIL – percorsi di inserimento lavorativo che ai diversi livelli debbono permettere non tanto tirocini di breve durata, ma effettivi percorsi lunghi e contrattualizzati di inserimento degli studenti in contesti di lavoro, ampiamente predisposti e strutturati. Questo quadro complessivo di riferimento viene presentato nello schema sotto riportato, che vede le azioni che si stanno conducendo sull’intero ambito della educazione e della ricerca. Un tale quadro programmatorio vede ovviamente una regione con si-tuazioni interne molto differenziate, comunque nell’insieme sostenute da una economia che ha pesantemente sofferto per la crisi, ma che nell’insieme offre anche segni di ripresa.

Galisi: L’azione di RER è fondata su un’analisi del territorio quali proposte nuove evidenzia per una maggiore sostenibilità, maggiore integrazione e competitività per l’industra?

Prof. Bianchi: Questo complessa azione avviato in RER su Ricerca ed Educazione delinea le due azioni di politica industriale oggi essenziali per il rilancio europeo, come delineato – sia pur non senza fatica - in tutti i documenti dalla Strategia di Lisbona fino ad Europa 2020. Resta ovviamente evidente che nessun processo virtuoso potrà innescarsi nel nostro Paese senza massicci investimenti sia da parte dello stato, sia da parte dei privati, sia per il rilancio della ricerca, che per un consolidamento di un sistema educativo, dalla scuola primaria all’università, particolarmente segnato dagli interventi governativi degli ultimi tre anni. Egualmente nessun processo virtuoso può esservi a livello nazionale, se questa fase di inconsistenza istituzionale fra “Federalismo dichiarato e centralismo praticato” continuerà a lungo. In un contesto internazionale in rapido cambiamento, la crisi economica degli ultimi anni ha esaltato le differenti dinamiche fra imprese in grado di operare sul mercato globale con capacità di innovazione e di iniziativa strategica ed imprese che invece si orientano ai mercati locali e si collocano come inseguitori sul mercato internazionale. Le imprese italiane in grado di muoversi come leader sui mercati globali erano negli anni immediatamente precedenti la crisi in un numero sufficientemente ampio per delineare un comparto dinamico dell’industria italiana, ma non in grado di trascinare l’intero paese verso un sentiero di crescita. Le stesse imprese leader operano oggi a livello internazionale localizzando le diverse fasi del ciclo economico in quei contesti locali più favorevoli, cosicché le fasi a più alto valore aggiunto tendono ad essere posizionate laddove vi siano condizione favorevoli allo sviluppo della ricerca e dell’alta formazione. In questa prospettiva le azioni incentrate su ricerca ed educazione divengono gli interventi chiave per lo sviluppo di ambiti regionali in eco-nomia globale. Questa è la prospettiva assunta chiaramente dalla Regione Emilia Romagna, che da tempo ha posto le relazioni fra università- ricerca- scuola- formazione e lavoro come asse essenziale del proprio sviluppo. Si tratta ora di costruire lungo quest’asse una serie di alleanze strategiche con altre regioni d’Europa e dei paesi emergenti alfine di consolidare cicli produttivi, che garantiscano nel tempo non solo i tassi di crescita del’economia, ma anche una qualità dello sviluppo che possa effettivamente definirsi “smart, sustainable and inclusive”, così come richiesta dalla strategia, già delineata a Lisbona dieci anni fa ed ancora di recente rilanciata come unica strada possibile per la nuova Europa.